Scritto da © Hjeronimus - Mer, 26/06/2013 - 18:12
Dei Frati Minori francescani qualcosa ci è noto fin dalla notte dei tempi: il saio. Con quel cappuccio tutto nero (in realtà è marrone scuro) che sprofonda i volti in una specie di tenebra muta, dolorosa, angosciosa. Sono i Cappuccini, i frati dal cappuccio scuro.
Già, il terribile cappuccio opaco dei cappuccini. Ce lo ricordiamo sin dalle tetre tele di Alessandro Magnasco, o degli altri pittori della crisi e delle pestilenze del ‘600, il Del Cairo, Ceruti. La memoria ce ne consegna l’immagine, oramai sbiadita, di un mondo remoto perduto spaventoso. Il cappuccio dei cappuccini sembra riconsegnato alle ombre della storia, come il supplizio onirico di quando, da bambini, vedevamo i fantasmi…
È così senza aspettative di sorta che varco la soglia del loro museo, attratto lì da una celebre opera d’arte. Non ci sono mai stato, anche se è a Roma, mia città natale. Anzi, non lo so neanche che c’è un museo vero e proprio. Penso più ad una chiesa con una sagrestia che svolge funzione espositiva. E una cripta. Non appena attraversato quel varco, ecco, si coglie la sensazione della loro attitudine più autentica e viscerale, quella alla vita povera, ai costumi frugali e all’essenzialità del train de vie. Qualcosa che appare come semplice, ossia come richiamo al rigore e al senso della vita semplice, austera essenziale. Ma che è tutto fuorché semplice. Si è come compenetrati dall’afrore di questa miserabilia che trascina con sé quasi sottobraccio “sora nostra morte”, sorella lugubre dell’indigenza. Eccola la percezione immediata da cui siamo investiti in quelle prime salette sobrie e spoglie, da dietro le vetrinette ricolme delle loro povere cose, i libri, i sandali, i quadretti devozionali, dipinti approssimativamente, ma commoventi: la miseria e la morte; la fame e la morte; la malattia e la morte. È lei, è la sua metafisica che aleggia al di sopra di quella vocazione al buio e all’inopia. È la morte coi suoi contrari la sposa-cadavere che si accompagna in incognito accanto al saio lacero e incappucciato del frate minore. Così che “semplice” sta per “vicino a morire”, e “morire” sta per vicino a “resurgo”, ossia, vicino a Dio.
Osservo alle pareti dei quadri poco significativi, o addirittura di autori ignoti, ove, con malcerta perizia, si rappresenta San Francesco, o Minoriti più attuali, con un amore sconfinato e acutamente patetico. Poi penetro in un’ulteriore saletta e in un batter di ciglia tutto il tenore delle mie sensazioni si amplia, si moltiplica, sale all’infinito. C’è un solo dipinto dentro, eccolo, il San Francesco di Caravaggio, icona ed archetipo di tutto quello che sento e vorrei corrispondere, di tutto ciò che gorgogliava in quello spirito francescano affossato nelle tenebre e sublimato nella resurrectio. Il santo, avvolto nel suo saio stracciato, s’inclina con una specie di tragica devozione verso una croce ruvida, fatta solo di due assi di legno incrociate. La sua espressione è intensa, sovrannaturale, ma dolorosa e contemplativa, come se stesse attraversando una porta celeste. Ma dietro di lui si spalanca un antro nero, quasi indecifrabile. Una “caverna cosmica” in cui riecheggia il funebre rintocco della vocazione francescana, ove sprofondano i fondamenti della miseria e della morte, mettendo in dissonante contrapposizione la putrefazione (la materia del nero retrostante è “grattata”, porosa, purulenta) e l’estasi (la scabra croce, in forte controluce).
La putrefazione e l’estasi. L’estasi post-mortem, oltre il decomporsi della carne. La carne è il destino fatale dell’essere, che prima o poi si sfalderà, liberando così, e solo allora, il volo estatico della sua essenza. Solo allora, l’anima, senza la carne, oltrepasserà la soglia nera dei piaceri mondani e s’involerà nell’estasi. L’ontologia tragica dell’essere si rivela così nel collasso dei contrari, ove l’altissimo non riluce se non oltre la cortina raccapricciante della putrefazione.
Caravaggio incalza il mistero, lo domina, lo aggioga e lo esplicita in un ideale di bellezza estetica che cala rasente al filo della morte e della decomposizione, come descrivendo una linea sottile.fra l’orrore e lo splendore, fra la luce e i cascami brulicanti di una larva.
Il quadro è il punto più alto della visita. Il nervo assiale di tutta quella intelligentsia che intravede come in delirio la luce dal fango primordiale. Dopodiché, si passa nella famosa cripta: una sequenza di sette cappelle barocche costruite sopra e dentro il piccolo antico “cemeterio” dei frati. Un cimitero piccolino, inadatto a custodire le ossa di tanti frati e dei tanti “poverelli” cui davano asilo. Nel ‘700 qualcuno ebbe l’idea di ammucchiarle, tutte quelle ossa, sui lati del cimitero, onde far luogo ai nuovi ospiti che colà si ammassavano. Di lì, qualcun altro pensò alla opportunità di dare un certo ordine a tutto quel materiale inerte, e di lì ancora insorse il colpo di genio di frati-artisti che già dipingevano qualcosa: decorare le cappelle usando lo stesso materiale di chi vi riposava. Sicché infine i resti di 3.700 persone divennero la decorazione floreale, i lampadari, i cuoricini di una stravagante corsia di cappellette di devozione. Tutta la insistita ornamentazione barocca di ogni cappella, consta semplicemente di ossa. Di scheletri, di cadaveri. Ove, ad esempio, colonne, timpani e lanterne d’ossa fanno da cornice a scheletri semi-putrefatti, insaccati nei loro bravi sai, debitamente rappezzati e funerei. E il mistero si ribadisce: la bellezza, barocca in questo caso, della decorazione affiora dal versante tragico dell’essere, facendolo ascendere dal suo verminoso destino alla gloria straziante e sublime della bellezza. E lasciando che salga laddove etica ed estetica combaciano nell’abbraccio lutulento di “sora nostra morte”, il cui tocco putrescente gli dischiuderà le porte del cielo.
Dei Frati Minori francescani qualcosa ci è noto fin dalla notte dei tempi: il saio. Con quel cappuccio tutto nero (in realtà è marrone scuro) che sprofonda i volti in una specie di tenebra muta, dolorosa, angosciosa. Sono i Cappuccini, i frati dal cappuccio scuro.
Già, il terribile cappuccio opaco dei cappuccini. Ce lo ricordiamo sin dalle tetre tele di Alessandro Magnasco, o degli altri pittori della crisi e delle pestilenze del ‘600, il Del Cairo, Ceruti. La memoria ce ne consegna l’immagine, oramai sbiadita, di un mondo remoto perduto spaventoso. Il cappuccio dei cappuccini sembra riconsegnato alle ombre della storia, come il supplizio onirico di quando, da bambini, vedevamo i fantasmi…
È così senza aspettative di sorta che varco la soglia del loro museo, attratto lì da una celebre opera d’arte. Non ci sono mai stato, anche se è a Roma, mia città natale. Anzi, non lo so neanche che c’è un museo vero e proprio. Penso più ad una chiesa con una sagrestia che svolge funzione espositiva. E una cripta. Non appena attraversato quel varco, ecco, si coglie la sensazione della loro attitudine più autentica e viscerale, quella alla vita povera, ai costumi frugali e all’essenzialità del train de vie. Qualcosa che appare come semplice, ossia come richiamo al rigore e al senso della vita semplice, austera essenziale. Ma che è tutto fuorché semplice. Si è come compenetrati dall’afrore di questa miserabilia che trascina con sé quasi sottobraccio “sora nostra morte”, sorella lugubre dell’indigenza. Eccola la percezione immediata da cui siamo investiti in quelle prime salette sobrie e spoglie, da dietro le vetrinette ricolme delle loro povere cose, i libri, i sandali, i quadretti devozionali, dipinti approssimativamente, ma commoventi: la miseria e la morte; la fame e la morte; la malattia e la morte. È lei, è la sua metafisica che aleggia al di sopra di quella vocazione al buio e all’inopia. È la morte coi suoi contrari la sposa-cadavere che si accompagna in incognito accanto al saio lacero e incappucciato del frate minore. Così che “semplice” sta per “vicino a morire”, e “morire” sta per vicino a “resurgo”, ossia, vicino a Dio.
Osservo alle pareti dei quadri poco significativi, o addirittura di autori ignoti, ove, con malcerta perizia, si rappresenta San Francesco, o Minoriti più attuali, con un amore sconfinato e acutamente patetico. Poi penetro in un’ulteriore saletta e in un batter di ciglia tutto il tenore delle mie sensazioni si amplia, si moltiplica, sale all’infinito. C’è un solo dipinto dentro, eccolo, il San Francesco di Caravaggio, icona ed archetipo di tutto quello che sento e vorrei corrispondere, di tutto ciò che gorgogliava in quello spirito francescano affossato nelle tenebre e sublimato nella resurrectio. Il santo, avvolto nel suo saio stracciato, s’inclina con una specie di tragica devozione verso una croce ruvida, fatta solo di due assi di legno incrociate. La sua espressione è intensa, sovrannaturale, ma dolorosa e contemplativa, come se stesse attraversando una porta celeste. Ma dietro di lui si spalanca un antro nero, quasi indecifrabile. Una “caverna cosmica” in cui riecheggia il funebre rintocco della vocazione francescana, ove sprofondano i fondamenti della miseria e della morte, mettendo in dissonante contrapposizione la putrefazione (la materia del nero retrostante è “grattata”, porosa, purulenta) e l’estasi (la scabra croce, in forte controluce).
La putrefazione e l’estasi. L’estasi post-mortem, oltre il decomporsi della carne. La carne è il destino fatale dell’essere, che prima o poi si sfalderà, liberando così, e solo allora, il volo estatico della sua essenza. Solo allora, l’anima, senza la carne, oltrepasserà la soglia nera dei piaceri mondani e s’involerà nell’estasi. L’ontologia tragica dell’essere si rivela così nel collasso dei contrari, ove l’altissimo non riluce se non oltre la cortina raccapricciante della putrefazione.
Caravaggio incalza il mistero, lo domina, lo aggioga e lo esplicita in un ideale di bellezza estetica che cala rasente al filo della morte e della decomposizione, come descrivendo una linea sottile.fra l’orrore e lo splendore, fra la luce e i cascami brulicanti di una larva.
Il quadro è il punto più alto della visita. Il nervo assiale di tutta quella intelligentsia che intravede come in delirio la luce dal fango primordiale. Dopodiché, si passa nella famosa cripta: una sequenza di sette cappelle barocche costruite sopra e dentro il piccolo antico “cemeterio” dei frati. Un cimitero piccolino, inadatto a custodire le ossa di tanti frati e dei tanti “poverelli” cui davano asilo. Nel ‘700 qualcuno ebbe l’idea di ammucchiarle, tutte quelle ossa, sui lati del cimitero, onde far luogo ai nuovi ospiti che colà si ammassavano. Di lì, qualcun altro pensò alla opportunità di dare un certo ordine a tutto quel materiale inerte, e di lì ancora insorse il colpo di genio di frati-artisti che già dipingevano qualcosa: decorare le cappelle usando lo stesso materiale di chi vi riposava. Sicché infine i resti di 3.700 persone divennero la decorazione floreale, i lampadari, i cuoricini di una stravagante corsia di cappellette di devozione. Tutta la insistita ornamentazione barocca di ogni cappella, consta semplicemente di ossa. Di scheletri, di cadaveri. Ove, ad esempio, colonne, timpani e lanterne d’ossa fanno da cornice a scheletri semi-putrefatti, insaccati nei loro bravi sai, debitamente rappezzati e funerei. E il mistero si ribadisce: la bellezza, barocca in questo caso, della decorazione affiora dal versante tragico dell’essere, facendolo ascendere dal suo verminoso destino alla gloria straziante e sublime della bellezza. E lasciando che salga laddove etica ed estetica combaciano nell’abbraccio lutulento di “sora nostra morte”, il cui tocco putrescente gli dischiuderà le porte del cielo.
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