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To Woody

Dopo aver rivisto due volte “Manhattan” di Woody Allen, mi viene non solo di dire che questo film è un pezzo della storia del cinema, ma di rendere il motivo per cui lo è. Questo motivo sta nella resa dello Zeitgeist, dello spirito del tempo, che riesce a catturare in un esproprio che è insieme poetica e testimonianza di un tempo, la fine degli anni ’70, oramai tramontato. 
Già, ma cos’è lo Zeitgeist?
Per rispondere a questo, ricuciamo brevemente il filo della “story”. Woody è un intellettuale newyorchese che sta insieme a una ragazzina (Mariel Hemingway), intellettuale in erba. Ha 25 anni più di lei. Non vuole impegni ed è sincero con lei. Il suo amico insegnante gli “scarica” l’amante, una scrittrice coetanea o quasi (Diane Keaton), per salvare il suo matrimonio. Woody se ne invaghisce e ”molla” a sua volta la ragazzina, anche perché sente come colpa la differenza d’età. La ragazza, Tracy sul film, si dispera, aprendo una grande pagina di cinema sul tema dell’innocenza ferita (nomination alla Hemingway per l’oscar). Ivi, l’insegnante e la moglie, Woody e la scrittrice si incontrano tutti assieme. La passione fra l’insegnante e la scrittrice risorge, lui stavolta opta per il divorzio. Woody resta solo.
A questo punto l’acme del film trasale. In un finale epico, tra citazione e storia, vediamo Woody riflettere sul senso della vita, steso su un divano come dallo psicoanalista. Registra a voce le cose per cui vale la pena di vivere, partendo dal “grande Groucho Marx”, passando per l’adagio della “Juppiter” di Mozart, Marlon Brando e un certo piatto di frutti di mare degustato in zona (scena-madre pluri-citata e legittimamente osannata). E chiude infine sul “sorriso di Tracy”. Riflette un istante, telefona: occupato. Ha come una folgorazione. Ricalcando la scena di Buster Keaton, raccoglie la giacca e corre in strada. Niente taxi. Allora corre, corre all’impazzata lungo le avenue gremite di traffico di New York. Davanti a una cabina, stop, riprova. Niente. Occupato. Corre ancora. Attraversa strade e semafori zeppi di “people” e di automobili anni ’70. E se Buster Keaton (lontano avo di Diane) ha già telefonato all’amata e invece di replicarle al telefono le risponde a viva voce dopo la corsa, Woody imbecca Tracy sull’uscio, pronta a partire per Londra, causa studio. Lui dice che l’ama, che ha commesso un grande errore; le dice di non partire. Lei, di aspettare. La telecamera sale sullo skyline di Manhattan e chiude sul fatidico The end, sotto lo struggente palpito della rapsodia in blue. 
Lo Zeitgeist di tutto il mondo se ne sta rincantucciato in quelle strade ricolme di folla e di traffico, al di là dei piedi veloci di Buster-Woody che apposta le incrociano, onde depredarle di quel loro spirito caotico, metropolitano, di quel fuggevole valico di un’età dorata di cui New York è il cuore. E riprodurlo come arte, come narrazione, per consegnarlo all’immortalità. O alla memoria, che è lo stesso.
Così, nell’abbraccio grandioso della paesaggio “more geometrico” di Manhattan, le storie di noi, piccoli e immensi universi di passione, si amalgamano in unità poetica e tramandano, nel loro universale nascere e disgregarsi, la vita uguale eppure irripetibile dei destini incrociati di uomini e tempi, dentro la cornice affannosa di un luogo come di un archetipo. Ed è questo lo spirito del tempo.
 
 
 

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