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L’uomo roteò il capo e girò lo sguardo sul panorama. Com’era il panorama? Era limpido e asciutto; sotto un accecante nitore celeste la montagna poggiava calma con le sue tenere verzure stese come ad asciugare. Da dentro quello sguardo tutta l’infelicità del mondo precipitava su quella sfolgorante messinscena, producendo una sorta di stridore nel suo contrasto irreparabile fra la gioia e il dolore, fra il lato vero del mondo, quello del guardare, e quello falso, quello dell’apparire. 
Cos’era mai il valore, si arrovellava il guardante, cosa mai vale davvero, in che modo il mio essere, il mio esistere può davvero insignirsi di valore, di un valore fondante, radicale, necessario? Come si può dire: il valore della vita è questo?
E in fondo la vita che aveva avuto non aveva dimostrato niente. Non era servito viverla fino in fondo, espungerne le passioni, i tic, i desideri; sottoporla al dettaglio di una logica stringente, irrefragabile… già, la logica… non era che “dialettica negativa”, poteva soltanto mostrare l’errore, non il valore, non la cosa giusta… non aveva vissuto che il brulicare della vita dentro di lui, non ciò che aveva voluto, non il valore delle cose per cui aveva creduto di vivere. La vita aveva vissuto dentro di lui, al suo posto, non la sua valutazione della vita. La sua sinderesi, la sua ermeneutica della vita…
Che le cose abbiano valore è indimostrabile. Che noi lo vogliamo, che lo auspichiamo questo valore, è un conto. Altro è che esista. Non è che un gioco. Diciamo che la causa di tanti mali è la “caduta dei valori”. Già, ma dei valori di che? Cosa vale? Diciamo “non uccidere”; “non rubare”: perché? Qual è la cosa che vale, come legge o come divinità, che dovrebbe far retrocedere dal delitto? Se il delitto è un male, qual è la sua controparte virtuosa? Dov’è, cos’è il valore che dovrebbe sconfiggerlo?
Molti dicono: i giovani si abbandonano alla violenza, al delitto, alla droga a causa della “caduta dei valori”, quelli di una volta, quelli del “buon tempo antico”… già, ma a quale “buon tempo antico” si riferiscono? A quello di Hitler? E comunque, ammesso e non concesso, cosa erano, quali erano questi valori? E chi ci credeva? Molti di tali censori si riferiscono agli affetti e quindi alla famiglia: il valore è il rispetto dei ruoli, delle priorità e  delle leggi che regolano i rapporti all’interno della  cellula famigliare. E di lì il concetto si estende poi all’intero tessuto comunitario, di cui essa è appunto cellula. E questo è il concetto, il principio di valore. Ma non è cogente. Se un giovane ammazza padre e madre per fregargli la macchina e il libretto degli assegni, il “principio di valore” non può imbrigliarlo. E neanche la legge: la legge può soltanto punire chi ha già rotto le uova nel paniere, non soffocare l’idea, il proposito di farlo. Nessuna istanza soltanto etica è in grado di tenere a freno la libido, le pulsioni e le passioni che recalcitrano violente oltre quella forma solo estetica, solo perbenista della connivenza sociale. Solo un’istanza metafisica rasenta tale forza. Ma appunto, il nostro modo di vivere, sia pure ineluttabile al corso della civiltà, sia pure l’unico possibile, è la negazione di quell’istanza, è la negazione di Dio. E senza il Dio il principio di valore è divelto alla radice. Né è altrimenti auspicabile la restaurazione forzata di un Empireo negato dall’evidenza. Non c’è Chiesa né forza morale: resta solo la violenza e la corruzione.
Il principio di valore, in sé, è inconsistente, non fa presa sulla realtà, è senza connessioni. È qualcosa che va alla deriva sulla superficie dell’oceano dell’essere, e questo lo spinge come una marea che risale dal basso sprofondo opaco dell’inconscio. Il valore è come una zattera bizzarra che tenta senza posa di costituire a morale ciò che gli è giocoforza, ossia la spinta sconosciuta sulla quale galleggia senza meta. Perciò Nietzsche auspicava una trasvalutazione dei valori: intendeva assumere la verità a fondazione del valore. Ma se il valore della vita risiede nella sua verità nuda e cruda, allora la vita non vale un accidenti. Il bello, il succo della vita sta nella sua proiezione utopica, nella imagerie che la supera. Il principio di valore si colloca colà, nella prospettiva fantastica della vita immaginata, non in quella balorda e oppressa della realtà. Il valore come tale si auto-determina soltanto come utopia, e come utopia affettiva, nei due sensi: nel senso che sorge dalla sfera degli affetti (il voler bene a qualcuno o a qualcosa), e nel fatto che incide sulla realtà come affezione, mutandola di segno. Certo, a patto che ce la faccia, che riesca, altrimenti si rimane nell’encefalogramma piatto del già dato, del giocoforza.
Bisogna opporsi a tale giocoforza, bisogna irrorare il giardino dell’utopia, bisogna volere il valore. Non è sostenendo i valori bugiardi della tradizione che ci salveremo dal dis-valore emergente e bugiardo altresì: ciò che è dato, e per di più nel passato, non è mai valore allo stato puro. Per quanto la storia ci consegni modelli esemplari e universali di bene e di male, questi constano di valore in sé, impossibile a “ristampare”, perché il valore è nel divenire, non mai in un “marchio depositato”.
Dovremo escogitare una neo-Gestalt del principio di valore, un cristallo neofita del senso della vita, se non vorremo soccombere all’unico violento e imperante principio di valore in atto, quello del denaro…
L’uomo distolse il suo sguardo traslucido dal panorama e lo puntò invece sul suo bicchiere. Il valore non c’era, era irreperibile, indimostrabile. A che valeva, per esempio, quello starsene in sentinella del panorama, a svuotare bicchieri mentre l’immaginazione volava maestosa sulle ali del valore? Il valore delle cose era  immaginarselo?… allora tutto era risolto e il suo dovere l’aveva già adempiuto. Forse, il valore era proprio averci questo tempo per pensarlo. Forse stava proprio in ciò quel gioco: rubare al giocoforza il tempo della vita e dedicarlo invece al sogno, alla fantasticheria, alla illusione del valore della vita.
 

 

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