Scritto da © Ospite di Rosso... - Mer, 23/02/2011 - 20:10
È con questo nick che ti conobbi in chat alcuni anni fa.
Era l’estate del 2005.
Faceva molto caldo e gli esami di maturità erano appena terminati, io sempre in commissione.
Tra una striscia di parole ed altra, che scorrevano veloci sullo schermo sporco di infinite ditate, seppi che anche tu insegni come me, dunque in un certo senso eravamo colleghi, tu istituto d’arte, io, più modestamente, istituto professionale.
Mi scrivesti anche altro di te, della tua famiglia, per prima, poi del lavoro e dell’amore per l’arte. Mi colpì in particolare una tua frase che mi sorprese e che amo ripetere per non scordarmi di te, perso da tempo nelle maglie bucate della rete, ma vivo e creativo lì, dove non ti ho più cercato, ma dove so che muovi i tuoi passi da mattina a sera e ti crei le giornate frenetiche per riempire anche il minimo spazio che ti separa dal nulla di cui ami il vuoto per donare il pieno che nasce dalla ricerca dell’essenza di te stesso.
Questa frase per me è come una pillola olistica, quando le nuvole non se ne vogliono andare da sole dalla mia mente. È una frase ambigua che vuole dire molto o nulla, secondo gli umori. Di solito desidero interpretarla in maniera positiva perché “non sono scontento della mia vita” è già molto per un uomo che è quasi mio coetaneo, dunque mezza età, né carne né pesce o ambedue messi insieme, nel migliore dei casi.
Amo immaginarti soddisfatto, conformista quanto basta per vivere sereno, sempre che la serenità sia un pregio, artista più di quello che serve per soddisfare il richiamo della voce interiore. Non conosco la tua arte, ma la schiena di una figura femminile dolce e avvolgente mi parla più di qualche tonnellata di parole che non trovano orecchie tese ad accoglierne il rumore.
Tu impegnato a trasmettere ai giovani le bellezze dell’arte immortale nella quale stai lasciando il tuo segno, io a chiedermi se sono riuscita a far germogliare qualche seme a chi ha fretta di uscire da un casermone che era stato costruito per ospitare malati mentali dell’Austria felix e poi ereditato dalla meno felix Italia fino all’arrivo di Basaglia (scusa, la rima è involontaria).
Questo non è certo l’edificio adatto a giovani impazienti di premere l’acceleratore della propria vita, molti senza aver raggiunto nemmeno la qualifica della terza superiore, ma è pur sempre un tetto che prima non avevamo e che ci ospita da trent’anni. Il tragico è che non è mai stato ristrutturato, tranne qualche lavoretto per tamponare il dente cariato del tempo e per zittire le voci di dolore di chi non ha potuto scegliere di meglio, ma le terrazze sono impraticabili da anni e gli infissi reggono a stento gli spifferi violenti della bora, per non parlare del tetto che spande in più punti. I soli a essere felici a posare le proprie ali su questa catapecchia sono i gabbiani che nidificano indisturbati e se qualcuno si azzarda a salire sul tetto pieno di ghiaia e di erbacce, rischia di prendersi una serie di beccate da fargli passare la voglia di guardare il panorama di Trieste dall’alto.
Perdonami queste divagazioni, ma fanno parte di me che in questo momento desidero ricordarmi soprattutto di te.
Come correvano veloci le strisce di parole tra di noi. A un certo punto la mia curiosità ti impose un indirizzo e-mail per approfondire ciò che non si poteva esaurire in un botta e risposta colorato di significati virtuali. Raccogliesti il cesto con le mie margherite e cominciammo a seminare fiori multicolori.
Ti sorpresi per l’immediatezza del mio dire senza schermi e formalismi, mi incuriosisti con la delicatezza che probabilmente doni alla tua compagna e a chi ti è amico. Ci fermammo a un’oasi comune in cui il sincrodestino diventa realtà che stupisce e a volte stordisce.
Tra le altre cose parlammo anche di viaggi. Mi confidasti le tue strade di pellegrino semplice ma sensibile e curioso di assaporare profumi e sapori conditi con pitture, stucchi, arabeschi e architetture. Ti confidai il mio progetto. Stavo per realizzare il sogno di una vita. Finalmente sarei partita per Auschwitz, dopo averne parlato per anni ai miei ragazzi attraverso documentari, testi letterari e testimonianze dei sopravissuti, per non dimenticare, anche se poi sembra che la storia e il ricordare non servano a molto, dato che esistono Srebrenica e Vukovar, solo per citare due città martiri della mia realtà più vicina.
Come te anch’io sono una globtrotter prima per amore di conoscere l’orticello del vicino, poi per amore dei giovani, senza dimenticare l’amore per me stessa. Dietro a noi infinite escursioni didattiche attraverso l’Italia e molte anche all’estero per tacere delle settimane bianche che di bianco avevano anche le notti passate prevalentemente insonni.
Anni fa avevo accompagnato le quinte classi a Dachau. Era un’esperienza molto forte che mi ha segnata e non desideravo visitare altri campi di concentramento nazisti, ma l’Auschwitz di Primo Levi scuote e le vibrazioni energetiche che senti dentro di te sono come una scarica di dinamite nella cava di marmo ad Aurisina, che si amplifica all’infinito e funge da richiamo universale, al quale non puoi resistere.
Per anni ho continuato a ripetermi di non essere ancora pronta, ma poi succede qualcosa nell’intelligenza universale che ti coinvolge e vieni risucchiato come in un vortice di energie sconosciute. Quest’intelligenza ognisciente capisce che reprimi un desiderio e più lo reprimi, più si ripresenta con forza fino a quando non gli dici di sì. È quando accetti questo richiamo che l’anima si libera e gode insieme a te.
Ora mi sentivo pronta o è il destino che mi offriva un’occasione che non potevo rifiutare.
Forse era il periodo più fragile e incerto della mia vita, un periodo in cui una donna comincia a rendersi conto della frenesia degli impegni sociali e famigliari dai quali si era lasciata coinvolgere e sconvolgere anno dopo anno e si chiede che cosa ci sia ancora da fare nella vita oltre a correre a perdifiato per afferrare il tempo che vola e non basta mai.
Arriva un momento in cui qualcosa dentro di noi si spezza, cedono le fondamenta sulle quali si è costruito il palazzo di un’intera vita e il tempo all’improvviso si ferma, un fulmine trapassa tutto il corpo e paralizza. Si comincia così a fare i bilanci sotto il paracadute al quale non ci si sente più agganciati. Dapprima si osserva timidamente, poi con sgomento e incertezza perché non ci si rende ancora conto che cosa stia succedendo dentro di noi, infine ci si lascia andare a una corrente che spazza via ogni cosa utile o inutile che sia. Ci si guarda intorno per cercare il turbine caotico dentro noi stessi. Ci si chiede dove tutto abbia avuto inizio e dove si può trovare il balzo quantico che plachi il nostro soffrire.
Trovandomi in questo turbine di caos interiore avevo deciso di cercare me stessa anche attraverso Auschwitz. Era una prova difficile per me, ma era venuto il momento di affrontarla. E avevo anche te al mio fianco. Non mi sarei sentita sola nemmeno un momento. Anche tu eri stato ad Auschwitz con i tuoi ragazzi, solo poco tempo prima di me. Conservo ancora quella foto che mi inviasti, un Birkenau ancora sotto la neve, nonostante fosse già primavera inoltrata.
Cominciasti a premere le dita sulla tua tastiera per donarmi le tue impressioni sull’esperienza che mi accingevo a vivere e io ti leggevo con frenetico entusiasmo per cogliere ogni sfumatura del tuo sentire. Ti sono infinitamente grata per ogni parola che mi donasti e che mi ha accompagnata attraverso le incertezze che questo luogo impone ad ogni passo.
Un mio collega mi avvisò che c’erano ancora alcuni posti disponibili per un tour che avrebbe toccato Bratislava in Slovacchia, Wadowice, Cracovia, Auschwitz e Wroclaw in Polonia e Dresden in Germania. Non ci pensai due volte, era destino che quel collega mi parlasse del tour e che io decidessi di iscrivermi su due piedi, d’istinto, dunque senza esitazioni. Non avrei affrontato un viaggio così impegnativo da sola, ora avevo a portata di mano una buona compagnia di persone che sentivano il bisogno di fare gli stessi passi che desideravo fare io, ma ognuno di noi attraverso le proprie sensibilità e aspettative. Mi sentivo molto motivata, forse sarebbe presuntuoso ammettere che ero felice, di una felicità strana, sconosciuta ma coinvolgente, comunque nuova ed emozionante.
Non intendo scrivere il resoconto di questo interessante ed intenso viaggio, pieno di emozioni contrastanti, non è questo lo spazio più adatto, ma desidero estrapolarne un raggio di luce che mi lega a te per sempre e che ha reso la mia esperienza con Auschwitz unica e irripetibile perché l’ho vissuta anche attraverso la tua testimonianza, un piccolo-grande dono tra sconosciuti che poi è lo stesso che conoscersi da una vita.
Era il terzo giorno del nostro tour. La notte in albergo era stata un incubo a causa del caldo-umido torrido. Eravamo stati particolarmente sfortunati perché non funzionava l’impianto del condizionatore d’aria né nell’albergo né nel pullman, un Mercedes gran turismo alla sua prima uscita, nuovo di zecca. E poi si parla della perfezione tecnologica tedesca!
Dunque nel nostro gruppo in prevalenza visi lunghi e tanto sudore appiccicoso già alle otto di mattina. Inutile scusarsi con i vicini di sedile, si puzzava e basta. Bisognava sopportare l’odore e il sudore di tutti. Quando si viaggia in gruppo si condivide le esperienze e ci si sente più umili e pazienti o si smonta dal pullman e si torna a casa da soli con qualsiasi mezzo di trasporto. Tra di noi nessuno si era dimostrato così insofferente da prendere questa decisione, benché il nostro gruppo fosse quanto mai eterogeneo e non tutto filava liscio.
Ma non erano questi i problemi più evidenti quella mattina. Nessuno era in vena di battute perché quella sarebbe stata una giornata impegnativa per tutti, ma soprattutto per alcuni pellegrini sopravvissuti al lager che quel giorno l’avrebbero rivisto dopo sessant’anni esatti. Altri erano figli e nipoti di deportati. Forse ero tra i pochi del gruppo che non aveva avuto nessun internato nel lager tra i parenti. Mi sentivo molto fortunata e vicina a queste persone e a tutti quelli che avevano vissuto questa immensa follia umana.
Qualche fotografia mi ricorda che si parlava a bassa voce e molti aspettavano in silenzio che l’autobus partisse. Forse qualcuno pregava, come per esempio la mia collega Sara, che continuava ad avere le mani giunte. Non osavo disturbarla, ma quelle mani affusolate erano troppo attraenti per non fotografarle e imprimerle per sempre nel mio album dei ricordi.
Eravamo rimasti in silenzio per tutto il tragitto fino al grande piazzale del parcheggio davanti al campo di Auschwitz 1. Durante il percorso l’autista aveva sbagliato strada per ben due volte. Sembrava come se una forza contraria ci tenesse fuori dal circuito della morte, nonostante il satellite, che avrebbe dovuto condurci alla meta senza errori. Non fu così, anche perché la segnaletica stradale non aiuta molto lo straniero che desidera dare omaggio alle vittime di questa atroce testimonianza di fallimento dell’intelligenza umana. Mi sembrò come se i polacchi si vergognassero del loro passato che sembra pesare ancora sulle coscienze di chi non ha più colpa.
Non mi sentivo bene. Mi mancava l’aria o era l’aria di morte del luogo che mi stava soffocando. Cercavo i fogli delle tue e-mail nello zaino, avevo urgente bisogno di sorreggermi alle parole che mi donasti per sopportare la pesantezza di questa esperienza. Ti rilessi più volte mentre gli altri annaspavano e sorseggiavano l’acqua dalle bottigliette di plastica. Aspettavamo troppo tempo che la guida ci munisse dei biglietti di entrata al lager. Per far passare il tempo alcuni dei nostri entrarono in un negozio di souvenir per guardare i soliti oggetti che qui diventano insoliti per forza. Entrai anch’io in quel luogo di macabro lucro, ma fui sorpresa: al posto dei soliti oggetti trovai uno spazio pieno di fiori che, dato il caldo torrido, avevano l’aspetto di una freschezza appassita da tempo. L’acqua nei vasi era nauseabonda, ma i clienti non mancavano lo stesso. Una fila di persone stava aspettando con pazienza che un’artigiana dimostrasse la sua abilità nel confezionare mazzi di una bellezza impossibile da cogliere in quelle situazioni. Passai in rassegna la fila delle persone che desideravano acquistare almeno un fiore. In quel momento mi sentivo dentro il fiore.
Ecco all’improvviso la soluzione di come avrei conosciuto Auschwitz: in una mano avrei tenuto le tue e-mail e nell’altra un fiore, in perfetto equilibrio. Aspettai a lungo la mia rosa gialla, ma mi fece compagnia la tua carta di pensieri che non aveva pari in nessuna guida turistica che si rispetti.
Entrai nell’Arbeit macht frei con te e con la rosa gialla. Ascoltai le parole scontate della guida in silenzio, perché Auschwitz è silenzio. Qui ha diritto di parlare solo la potenza della natura che è riuscita a sopportare la violenza umana senza esserne sopraffatta. La mia macchina fotografica non voleva saperne di fotografare. Le strappai qualche scatto controvoglia, ma quando mi trovai da sola sulla torretta di Auschwitz 2 Birkenau, dentro di me successe un miracolo. Eri con me in carne ed ossa! Riuscivo a sentire il tuo respiro, a percepire la tua avvolgente energia di conforto e nella mente mi risuonavano le tue parole imparate a memoria. Osservavamo insieme il paesaggio di morte che portava una speranza. Erano attimi di tale intensità emotiva che è difficile descriverli, ma ebbi il coraggio di costringere la mia macchina fotografica a donarti uno scatto, tutto per te, per me, per milioni di persone meno fortunate di noi due. È un’immagine speciale quella che ritrae una finestra semiaperta in una cornice di buio totale. Sullo sfondo una giornata di sole splendente e in alto lo spazio aperto a un cielo azzurro che apre la porta alla vita. In mezzo un binario con uno scambio arrugginito che una volta portava alla morte e oggi ci dona una speranza che va oltre quel reticolato di filo spinato in fondo al campo e mi porta a te, dopo quasi anni di silenzio totale in cui sei rimasto sempre con me e con la mia rosa gialla di Auschwitz.
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