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L'arte mi sia gentile.

Com’è lontano e remoto il tempo dal quale raccogliamo di quando in quando reliquie sbriciolate, romantiche screpolature della storia da cui filtra una strana luce anacronistica, densa di mistero e di rimpianti. Quando nominiamo il passato, il nostro discernimento si arrampica sulla scala di ciò che alla memoria è dovuto, e risale agli esordi del nostro evo post-illuminista, alla nascita di un universo logico-razionale, “techno” e laico, che segna da secoli oramai la nostra avanzata nell’ignoto, cioè nel futuro. Così l’orizzonte estetico del passato coincide con le vesti ridondanti delle dame magari parigine dell’ottocento; o con le autovetture “old-time”, acchittate come vie di mezzo tra salotti e carrozzelle; o magari intravediamo locomotive sbuffanti e cigolanti, come quella immortalata da Monet alla “Gare de Saint-Lazare”… Ma non vediamo più la passione e il sangue e il buio glamour delle notti barocche, lo sfavillio nelle tenebre di una Roma formicolante di ideali e di magnificenza. Pensiamo all’estasi barocca, al capriccio barocco, al Sublime… Relitti oramai di qualcosa che non è neanche più il passato, ma un incognita inaccessibile, analoga all’avvenire.   
Così se cerchiamo di riflettere su una donna bella e appassionata del passato, vedremo forse una Traviata nelle fattezze magari di Maria Callas; mai più ci si affaccerebbe all’immaginazione il ritratto di Artemisia Gentileschi, grande damigella dell’arte barocca. Tuttavia, per chi riesce a volerlo, questa immagine, questo ritratto è reso possibile ancora per qualche giorno dalla bella ed esauriente mostra del Palazzo reale di Milano a lei dedicata. Ci si potrà quindi accostare all’epigono più intrinseco, più congenere al grande Caravaggio, l’unico capace, al pari del maestro, di immergere il “tenebrismo” della pittura caravaggesca, ossia anche dei suoi seguaci e continuatori, in un alone di tragedia e di significato. Ciò che cambia è la cifra della tragedia. Laddove Caravaggio decanta il tragico cupio dissolvi dell’Umanesimo sotto il chirurgico squarcio della luce di Dio, irrompente con movenza severa e stigmatizzante, lo stesso monito ridiventa umano nella luce della ragione che s’irradia sul dramma dei diritti calpestati nell’arte di Artemisia. Così, se nel maestro il taglio violento della luce articola la tragedia maschile del crollo dell’”uomo-centro di tutte le cose” e del correlativo monito divino, noi vediamo in Artemisia riverberarsi il lume altrettanto tagliente della tragedia femminile, la cui vittima preferenziale è appunto il diritto. Ma insomma, è la stessa arte, tale e quale, il cui tragico ordito spirituale si divarica nel doppio ammonimento, maschile, all’arroganza dell’uomo che si è voluto assimilare al Dio nonostante il verismo della miseria e del bisogno in cui versa la maggioranza della sua specie; e ancora al maschile nella sua spudorata negazione del diritto dell’”altro”, ove il primo di tale “altro” è il femminile. Che si tratta della stessa arte lo si vedrà dal modo di dipingere, che, al di là delle peculiarità del messaggio, è identico. E lo è nel suo realismo “figurato”, in cui la figurazione, appunto, fa riferimento, per dir così, alle “sincopi” del guardare, ove l’emozione e la velocità del divenire storpia, dissona, stride con la rappresentazione calma e raffinata della realtà prospettica, colta nel suo statico e quindi soltanto allegorico, imaginifico non-accadere-di-niente. Questo movimento del guardare che storpia l’armonia perfetta del reale con la sua percezione realistica di come si vede davvero ciò che si guarda, è resa magistralmente dai due artisti nella raffigurazione, ovviamente anche simbolica ed ermeneutica, delle mani, che, isolate dal contesto drammatico in cui sono incuneate, appaiono addirittura deformi. Questa deformità apparente è dovuta al movimento cui sono intrigate che ne forza la prospettiva. Ma da dove viene questo moto che profana l’armonia statica e perfetta dell’uomo di Leonardo, centro e misura di tutte le cose? Non si tratta dello stesso moto delle stelle che il cannocchiale di Galileo pone, negli stessi anni, al centro dell’universo, spodestandone dunque la Terra? E se questa non è il centro dell’universo, l’uomo non ne è più la misura. E la prospettiva che lo pone al centro della visione (anche teoretica) non è più la chiave interpretativa della realtà, non è più realistica: il realismo sta nel moto violento e trasfigurante dei corpi e nel contenuto sociale, morale, politico di quel movimento. Per Caravaggio è politico l’intervento della luce di Dio sull’abietta condizione umana; per Artemisia è politico il gesto di contestazione della violenza dei più forti sui più deboli, in primis dell’uomo sulla donna. Una violenza che lei, donna, ha subito per prima, da un artista cui è stata messa a scuola di pittura dal padre, causando una delle prime cause penali per stupro.
Perciò ella traduce la luce tragica ma cosmica del maestro in un ambito tragicamente umano, tragicamente corrente nel corso degli eventi reali del quotidiano. E così la sua pittura si vendica dell’offesa ricevuta decapitando e martirizzando una serie impressionante di stupratori storici, da Oloferne in poi, i quali diverranno più noti per le esecuzioni capitali da lei comminate con la pittura che per la loro remota ignominia.
Ma Artemisia è anche il malinconico cantore della delicatezza, della tenerezza del femminile, interpretato come floridezza, come fastosa opulenza della vita incarnata, ove, prima e, secondo me, meglio di Rubens, la bellezza dei ritratti femminili, siano tali Maddalene o Cleopatre (e tutte visibilmente auto-ritraenti), riluce in un rigoglio triste, come se tutta la gloria di tale apparenza fosse compromessa per sempre dal desiderio sventurato che risveglia nelle controparti.  

 

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