Il mare che venne salendo - II | Prosa e racconti | ferdigiordano | Rosso Venexiano -Sito e blog per scrivere e pubblicare online poesie, racconti / condividere foto e grafica

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Il mare che venne salendo - II

La parte marina della città si dipanava a menadito, si riconosceva, tra le case basse. Sembrava conoscere ogni portone, pareva che il borgo vecchio fosse lì da sempre - e lo era, giacchè i nuclei si formano agli approdi, come per gl’incendi la prima fiamma, il cuore del rogo, ha la cenere più puntigliosa, attenta, consunta - dalle traverse, dai vicoli sbilenchi, apparivano rughe di scale, sovrapposizioni d’archi e di sbalzi quasi minute dita di appiglio che case, monolocali, cessi, gronde, perfino i lucernai sembravano girotondi; ma dico nessuno, nessun tetto aveva comignoli, fuggifumo, aeratori, perché in quel luogo il fuoco, la fiamma vitale è in mezzo al mare, in quel focolare liquido da cui il cibo esce già pronto e l’inverno è solo una mezza stagione più silenziosa per quella mistura di sale e di sabbia e di calce che tradivano la trasparenza di ogni minimo ingresso nell’intimità dei residenti distratti dalla luce, dal loro pendolare quotidiano nei mestieri, nelle piccole o grandi vicende del produrre. Ma in ragione di che? egli pensava muovendosi a tentoni sui passi acuminati che lo conducevano - ora ansante, poi leggero, infine incerto - dal bar al porto.
Il porto - già! - lì avrebbe trovato la misura ultima di un sogno pagato in soldoni di attenzione, con quel mero vantaggio che offre la cecità dell’alibi della povertà alla giustificata certezza dell’avere un tetto (a volte), un indirizzo (spesso), un pranzo (sempre) - a ragione, noi, lo avremmo detto spiantato; ma chi osserva dall’esterno è di norma un senza cuore, avrebbe obiettato lui.
Raccontata da sé a se stesso, la sua storia non mostrava pentimenti. Anzi, era una vicenda che forse lo accomunava ad altri; lo rendeva simile, appartenente ad una schiatta di fortunati di bell’aspetto e senza ulteriori scrupoli nello spendere la moneta sonante dell’apparenza in virtù ed in cambio della sopravvivenza; ma salire di grado, avvicinarsi cioè alla radura in cui la pianta dal sottobosco aggancia il vero sole e può così offrirsi a più sgargianti colori ed alle lusinghe pretestuose dei mille e più fruitori del suo polline, gli sembrava il giusto premio all’attesa fin lì paziente e compressa che aveva dovuto sopportare malcelandola nei tanti rivoli di un piacere troppo finto e così poco assistito.
Si avviava a divertare uomo di diversa natura.
Ora gli sembrava più spazioso l’orizzonte, ancora tanto stretto nell’angolo di visuale che immetteva sulla rettilinea chiosa di aceri bassi prospiciente il molo.
Il passo saltellante - era nella fase leggera del cammino, quella in cui una meta, una linea di terra immaginata confine di fatica, separazione di stadi umani, appena varcata scarica nelle vene il corroborante eccesso della vittoria, di un oltre, insperato, sé stesso - quell’andare esuberante delle gambe, mostrava una leggera esaltazione e schizzi di sfrontatezza riflessa nel rapido susseguirsi di vetrine, finestrini delle auto ferme e, a saperla cercare, anche sulle superfici lucide delle stesse.
Finalmente, si diceva, finalmente anch’io! e si alzava sulle punte ricadendo in quel danzare che pilotava gli occhi sull’armonia tragica emanata.
Spesso è però negli uomini, non ovvi, non scudati, l’improvviso apparire della grande ombra del rimorso che pur celata, abilmente relegata in un fianco della mente, appena sopra l’orecchio di modo che non crei in chi ci osserva la tensione della scoperta di un mistero trascinato nel tempo e del quale mai riuscimmo a sotterrare il baule di parole col quale noi stessi lo formammo, una domanda acuminata perché noi, perché quella volta, dove saremmo se avessimo deciso diversamente, quale piaga ancora dovremo chiudere per calmare il dolore di un sì o un no, magari taciuto, magari espresso guardando i capelli della vergogna scenderci nello stomaco e lì vermificarsi, acquistare la dimensione di un rettile sempre più enorme, sempre più vorace, e dal didentro fare scempio delle sottili guardie retoriche che la nostra ragione oppone, insufficiente, non sperimentata, disaccorta e tenera, quindi preda di quella belva feroce che affonda gli artigli e fa bivacco in noi e che siamo noi stessi, pensa lui, e se me ne avesse parlato e se anche voi lo aveste conosciuto, tutti avremmo dovuto rispondergli sono anch’io così, anche a me, anche a me un aiuto.
Si guardò intorno, per quanto fosse osservato negli incontri, era solo.
 
Giorni antichi ancora in calendario
incaccellati attimi
che fanno tempo ora.
 
Sul quadrante è un cambio presente
nel petto la valuta è altra.
 
Nessuno vende le azioni del cuore
né l’anima ne acquista a titolo d’onore.

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