Diga del Vajont. I miei ricordi a cinquant'anni dalla tragedia ( 9 ottobre 1963) | Prosa e racconti | maria teresa morry | Rosso Venexiano -Sito e blog per scrivere e pubblicare online poesie, racconti / condividere foto e grafica

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Diga del Vajont. I miei ricordi a cinquant'anni dalla tragedia ( 9 ottobre 1963)

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Nel mio albo di  fotografie, ce n’è una in bianco e nero, dai bordi frastagliati. Ho nove anni, capelli cortissimi, sono sorridente. Mi trovo sopra la diga del Vajont, nell’estate del 1963. Si  vede benissimo la strada che la percorre al suo apice,  larga circa tre metri. La famosa diga “ a vela”  già del tutto edificata. Ricordo l’invaso colmo abbastanza  da formare un lago dal colore  grigio e innaturale. Acque ferme che urtavano contro il cemento del  possente bastione. Qualche mese dopo, soltanto ad ottobre di quell’anno, accadrà l’immane sciagura della frana che, dal monte Toc, scaricherà oltre 260 milioni di metri cubi di roccia nel lago artificiale contenuto dalla fiancata della diga. Se l’enormità delle cifre ha un senso, a seguito di quella  frana - preannunciata, nota ai responsabili dell’opera e monitorata da tempo..-  la valle del torrente Vajont, fino a Longarone e al Piave, sarà rasa al suolo da un sollevamento d’acqua  di circa 50 milioni di metri cubi. Come noto, la grande diga, alta oltre 250 metri, la più alta in assoluto, venne solo  sbrecciata al vertice e  fu del tutto scavalcata da quel maremoto.
Verso la primavera del 1964, mio padre mi  portò a Longarone. La viabilità era stata ripristinata. Non quella ferroviaria poiché i binari della  linea  verso Belluno erano stati divelti e strappati via come fettucce. Ci andammo  a bordo della Fiat 1100 D  grigia, che mio padre utilizzava per il suo lavoro. Avevo allora dieci anni. Ricordo un' immensa  sassaia, una valle tutta colma di pietre, sassi, tegole sminuzzate  e resti di ferro attorcigliati. Decine e  decine di pali della luce spezzati. Di Longarone rimanevano solo alcune case, pochissime, integre. Certune, alte anche tre quattro piani, erano ritte ma spaccate a metà, come se un enorme coltello  le avesse recise di netto, così come si fa con una  fetta di pane. Non un albero, non una pianta, niente di niente. Una chiesa  “sbranata  “ da un immaginario morso d’orco, indicata solo dalla presenza di uno stretto campanile miracolosamente rimasto in piedi  in mezzo alla desolazione delle pietre. Il fiume Piave scorreva  nel suo alveo, acque ancora  marroni, quasi  nere. Da mesi il fiume portava in pianura carcasse di animali e detriti di tutti i tipi. I poveri corpi di persone erano stati recuperati  quasi fino alla pianura. Mio padre ed io camminammo in silenzio in mezzo a quel pietrisco, qua e là c’erano persone  in azione per il recupero, ma si vedeva che oramai restava molto poco da fare. Rovistavano  quasi a  casaccio. C’era solo un' immane, silenziosa desolazione. Ricordo di essere passata vicino ad una costa di roccia:  da alcuni segni si capiva che eravamo già dentro a quello che un tempo era stato Longarone, ma quale  fosse la via o il punto  del paese,  era impossibile capire. Mi stupì di vedere che incassato dentro la roccia c’era un forno a legna tipico di  una panetteria. Lì c’era stata una panetteria che ogni giorno, fino al 9 ottobre,  aveva sfornato buon pane  fragrante. La bocca nera del forno si apriva come una ferita nella roccia. Tutto,  all’intorno, era stato strappato  via dalla furia dell’acqua, tranne lo sportello in ferro del forno,  che pencolava ancora dai suoi cardini.
Sono tornata altre volte alla diga, l’ultima  è stato  due anni fa, in una giornata serena di maggio. La vedi sbucare percorrendo la statale Alemagna che porta alle  valli del  Cadore. La  diga se ne sta incassata  tra le montagne, altissima , come stesse a  contenere qualche cosa di misterioso; sembra un formidabile bastione a contenimento di un inenarrabile male.  A vederla così , oggi, gigante inutilizzato, concepito per produrre milioni di  kilowatts, uno dei più grandi bacini idroelettrici del mondo, sembra solo un controsenso. Bella, è davvero bella. Un’opera assoluta nel suo genere. Avrebbe dovuto produrre energia elettrica per tutto il Nord Italia, all’epoca del  boom  economico; doveva  rispondere allo  sviluppo industriale contro  le povere e modeste  economie montane  ed agricole di queste  vallate  bellunesi.  Ci  hanno lavorato  per anni centinaia  di operai e di tecnici, ci sono stati anche morti sul lavoro,  operai caduti dalle impalcature. Ci  sono stati  in assoluto  morti, circa 1917, dispersi  in molti.
Là, dove conteneva il fatale lago che ricordo da bambina, l’invaso è stato colmato dalla frana e sui massi è cresciuta nel  tempo prima l’erba, dopo gli abeti. La diga oggi contiene abeti, un bosco praticamente. Il cemento si sta martoriando, a cinquant’anni di distanza, e si sta inscurendo. Al vertice , la diga è ancora percorribile, la stretta  strada  che  corre sui  due lati è stata riparata dalla piccola  sbrecciatura  che la gigantesca ondata le aveva procurato. Quello che però lascia  senza fiato  è la profonda  ferita a forma di M , ossia la  frana del monte Toc, tutt’ora  visibile  come un immenso  scalpo che  ha denudato la montagna, senza che nulla più vi si rigenerasse. Uno  slittamento  di roccia esteso per oltre due chilometri  in orizzontale  che s’è portato via , in quella  notte ottobrina del 1963,  boschi e montagna scaraventandoli nel bacino sottostante. E’ la  frana individuata  dal professor  Muller , importante geologo tedesco  interpellato  dalla SADE  fin dal 1957 e confermata  poi  anche dal geologo italiano Edoardo Semenza, in  tempi precedenti alla sciagura,  quando v’era tutto il  tempo per sospendere l’opera, soprattutto  con riguardo al riempimento d’acqua dell’invaso. Le loro relazioni, i loro ammonimenti  furono insabbiati  nell’omertà.  E sull’ omertà e sull’irresponsabilità è maturata la  sciagura. Non si dica, non si osi  dire che la  tragedia del Vajont è nata da una  “ fatalità”, da una serie di circostanze  negative. La  responsabilità umana, in questa  sciagura,  è stata provata e comprovata da decine di relazioni  scientifiche, l’ultima delle quali risale al 1985,ad opera di geologi statunitensi.

Oltre  Longarone, sono stati distrutti dall' enorme massa d'acqua  (e dal vento furioso che la stessa aveva provocato  precipitando a valle) , i villaggi montani di Le Spesse, Pineda, Ceva, Frasèn, Il Cristo,San Martino, Marzana,Fée Fortogna, Erto bassa, Pirago, Maè, Rivalta e  Villanova.

Vajont resta un nome e un luogo legato anche alla valorosa  giornalista  del giornale L’Unità, Tina Merlin, bellunese, scomparsa nel 1991, la quale denunciò costantemente  in quegli anni  – fino a subire un processo penale – quanto si stava perpetrando a  rischio e pericolo della vita delle popolazioni di quelle valli. Ci restano,  oltre ai  suoi articoli dell’epoca,  il suo coraggioso libro di denuncia “  Sulla pelle viva: come si costruisce una catastrofe” , pubblicato  soltanto nel 1983.

P.S. Per  riferimenti  storici vedasi  tra le più recenti pubblicazioni con fotografie d’archivio  e inedite “  Vajont, cronaca di una tragedia annunciata” di Renato  Zanolli , Dario De Bastiani  ed., Vittorio  Veneto 2013.

 

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