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La lapide nera dei Dogi

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Entrati nella imponente chiesa  barocca di San  Stae - nome che in dialetto  veneziano  significa Sant’Eustachio -  si resta  un poco sorpresi dal suo interno chiaro , non particolarmente pomposo ed “ arrogante “, in vero contrasto con la facciata grandiosa dell’edificio che s’apre sul Canal Grande. In prossimità dell’ ingresso principale il visitatore trova subito, ai propri  piedi, una grande lapide nera, una sola lastra di marmo, con un teschio in rilievo. Vi si leggono, incise, le seguenti parole:  NOMEN ET CINERES  UNA CUM VANITATE SEPULTA. La posizione del sepolcro pare voluta, come se qualcuno , un tempo lontano, avesse  deciso che quella lapide nera e la sua  scritta fossero le prime cose che l’occasionale fedele o viandante, entrato nel tempio, doveva  percepire. Una sorta di monito, su cui immediatamente l’ uomo sconosciuto è chiamato a riflettere.
La scritta , come hanno attestato gli Studiosi  dell’ epoca settecentesca, è d’accompagnamento ai monumenti  funebri  dei  Dogi dell’età Barocca. Ed infatti in questa chiesa sono sepolti i potentissimi dogi del 1700, Alvise  II  Mocenigo e Marco Foscarini. 
L’ iscrizione  incisa sulla grande lapide nera merita una riflessione. Tradotta in italiano significa “ il nome e le ceneri assieme confuse sono sepolte con la vanità”. Ma ciò non basta, essendoci a mio parere, un significato che va “ oltre” le lettere. 
 Cosa copre quella lapide?  Innanzi tutto il NOMEN  di un uomo. Certamente è un riferimento all’ alto casato nobiliare, ciò che ha individuato e contraddistinto socialmente il Doge, nel suo potere e nella sua ricchezza. Tuttavia nella tradizione  giudaico-cristiana, il “ nomen” è quanto ha di più importante l’ Uomo mentre  è in vita. In questa tradizione di fede  l’Uomo  non è mai un soggetto generico. E’ il suo nomen che lo individua come singolo davanti a Dio. Chi ha il potere di  dare i nomi alle persone, sin  dall’Antico Testamento, è il Signore. Basta leggere il primo libro della Genesi, in cui , dopo averlo creato, Dio chiama l’ uomo  UOMO , ossia Adamo. Il termine deriva dall’ebraico Adamà, che significa Terra. (Gen. 5,2).
L’importanza di assegnare  un nome caratterizzante l’individuo, la troviamo nel percorso di tutto l’Antico  Testamento, dove i nomi hanno sempre un particolare  significato legato al mondo e alla  fede del tempo, e così pure nei Vangeli,  con riferimento in primis al nome di Giovanni il Battista (vedi l’annunzio dell’ Angelo a Zaccaria in Luca 5,13 :  Giovanni significa il  “Signore fa grazia” )   e a Gesù medesimo  (vedi l’annunzio dell’Angelo a Giuseppe  in Matteo 1,21: Gesù significa “ il Signore che salva”).
 
Quindi , ritornando alla inquietante lapide nera di san Stae, essa avvisa che lì  sotto è stato  sepolto, assieme alle ceneri del proprio corpo,  un soggetto che, per la vita terrena, non esiste più nella sua specificità. 
Dopo il termine “ cineres”, troviamo l’aggettivo plurale neutro  “ UNA”  da unus.  Ossia: il nome e le ceneri ( di questo uomo)  confusi, mescolati assieme. E’ la polvere in cui ogni essere umano ritorna   con la morte. Ma la morte non ha distrutto soltanto il corpo, s’è presa anche  il  “nomen”  di lui,  ossia ciò che in vita contraddistingue l’individuo, in ogni suo aspetto. 
Ed infine la Vanitas : anch’essa  sepolta, fatta  tacere per sempre. L’iscrizione ci dice chiaramente, seppur per converso, che l’uomo, in vita  “ è “  il suo nome, il suo corpo e la sua vanità. La lapide ammonisce che questa è la debolezza umana per eccellenza e che quindi anch’essa viene distrutta con il soggetto che ne è stato portatore. Trattasi in senso lato della Vanità, non solo di quella legata al potere o al successo o al piacere, al  proprio senso di sé, allo stesso  sapere. Qui appare evidente il collegamento  dell’ iscrizione  con il libro sapienziale dell’ Antico Testamento, detto Qoeleth o l’Ecclesiaste. Questo testo, facente parte sia del  canone ebraico che cristiano, viene collocato tra il IV e  III  secolo a.c., è di autore ignoto anche se la tradizione lo indica, con artifizio letterario , come dettato da Re Salomone.
In esso vi è il noto versetto:
 
“ Vanità delle vanità ( vanitas vanitatum)  dice Qoeleth
Vanità delle vanità, tutto è vanità
Quale utilità ricava l’uomo da tutto l’affanno
per cui fatica sotto il sole?”
 
L’Autore sottolinea come tutto nella vita sia provvisorio,  destinato a sfumare, in particolare  tutto l’affaticarsi per emergere, per conquistare , per godere, per apparire pubblicamente  ( “ faticare sotto il sole”)  è, davanti alla  morte,  un mero soffio  di vento, è nulla, è vuoto. Qoelet ammonisce nei suoi 12 versetti come non sia attraverso questo affannarsi che si può comprendere il senso della Vita.
 
Ecco quindi che cosa la breve iscrizione latina, scalpellata nella lapida nera di San Stae, contiene  e ci rivela.  Sostanzialmente cosa sia l’ Uomo, ossia  il suo nomen , il suo corpo, la sua ambizione e vanità.
E non sembra che essa contenga  un invito, un monito a poter cambiare mentre  si è in vita. Il testo è una drammatica  e cruda constatazione e non contiene alcuna implicita possibilità di  redenzione. L’Uomo è questo e non potrà mai essere diverso.
I sommi  Dogi  , visto il grandissimo sfarzo che li ha accompagnati in vita, sono l’incarnazione del Potere  e della Ricchezza , i quali per primi sono destinati a diventare  soffio, perché tutto passa  ed è destinato, sulla Terra, ad essere dimenticato.
All’esito di questa visita a San Stae, mi sono riletta il breve libro  del Qoelet , che ho trovato affascinante, attuale ( quali  tempi più adatti dei nostri per parlare di vanità?)  per certi  versi anche scandaloso. Il libro del Qoelet , per la sua eccezionale forza e desolazione, ha interessato intellettuali  e studiosi  contempoeranei quali Ceronetti, Ravasi, Erri de Luca e Doris Lessing. Evidentemente , oltre ai Dogi, esso  ha turbato molte altre anime e altre continuerà a turbarne.
 

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