Scritture adiacenti (corale con spinta) | Prosa e racconti | ferdigiordano | Rosso Venexiano -Sito e blog per scrivere e pubblicare online poesie, racconti / condividere foto e grafica

Login/Registrati

Commenti

Sostieni il sito

iscrizioni
 
 

Nuovi Autori

  • Gloria Fiorani
  • Antonio Spagnuolo
  • Gianluca Ceccato
  • Mariagrazia
  • Domenico Puleo

Scritture adiacenti (corale con spinta)

moleskine [coacta]
 
ho due palle
due palle io ho
io ne ho due di palle
due palle ho io
di palle ne ho due
ne ho due di palle io
 
io ho due palle io di palle ne ho due io palle ne ho due MINIMALISTE
come i pezzi di piano di Arvo
 
questo passaggio non si capisce
facciamolo durare meno
durare meno
durare
meno
 
doveva essere bello sentire i Beatles suonare dalla terrazza
 
ma oggi ho rivisto brave heart, una carneficina, le donne sognavano l'amore
 
gli uomini uccidono i cavalli, questo pensavo, penso che la pagheranno. certi nitriti una tribolazione. robe da ululare
 
comunque io dico che al meno AL MENO ognuno ha
un aquilone tra le mani, da lanciare dalla più scoscesa rupe
come l'onda perfetta per i surfisti
le termiche per gli aliantisti
 
là dove volano gli uccelli veleggiatori
 
 
un aquilone piccolo
piccolo piccolo
 
sottomisura
 
giusto per sembrare grande abbastanza
 
al meno
 
AVEVA
 
ognuno
 
 
La frusta e il treno (intorno agli oggetti - 5)
 
            Nell’alba in cui si alza la frusta si genera violenza o il suo nervo, una crepa scalfisce tutto il rosa perlaceo che avvolge ogni povero oggetto. La sedia al sole aspetta che la casa mi lasci un balcone.
            Nello stesso momento, l’acciaio libera la catapulta delle ruote. Il metallo grigio si avvita infinite volte su se stesso come per emettere lunghezza, ma si spoglia. Niente più sarà uguale nel dopo le partenze. Lasciato il punto iniziale, la curva o la retta che si genera, segnerà lo spazio e il tempo in modo indelebile: né la frusta rigenera, né il treno riavvolge le vicende.
            Ma l’alba, con il suo alone magro, stimola la frusta sui dorsi. Accende il dolore e lo integra alla schiena, alle braccia, alle menti. La frusta non c’entra, però esegue. Nessuna luce, ma il suo lampo acceca. Il corrimano della pelle si spezza: precipita la coscienza, si disloca il carico di sapere chi sei, che fai lì, perché non dormi? Lo scenario del sangue evolve trapassato il lembo della schiena. Una sorta di binario rosso incanala il viaggio della sofferenza.
            Il treno, invece, sotto il peso del suo unico desiderio redarguisce il passaggio a livello, sonorizza le stazioni, raccomanda alla terra le traverse che lo reggono. Sulle massicciate il treno vaporizza il percorso; lo mantiene nella scia il ritmo: ta-tan, ta-tan, ta-tan; include nelle timidezze dei posti letto: ta-tan, ta-tan, ta-tan. La nenia è la percorrenza.
            Fshh!, schiock! Un boom sonico.
            Il tratto arcuato della frusta aggiunge paura all’aria, dove si profila lo schiocco. Contiene la tintura con cui si copre la prassi della violenza. Il sigillo del colpo porta il clamore alla bocca, lo fa erompere dal punto più prossimo alla morte. Catechizza l’insorgere della ribellione. La frusta è l’ara su cui si immola un vangelo. Una parola di pietà non fugge: sente il colpo e lo inghiotte.
            Intanto il treno manifesta la maternità dei vagoni. Le loro cosce a soffietto espellono cellule ordinate per compito: le mani alle braccia, i piedi alle gambe, le illusioni ai biglietti.
 
            Se potessi scegliere, amerei seguire gli aironi dove collaudano il vuoto. 

           Le ampiezze dei binari

È il treno che definisce la distanza; allontana o avvicina a seconda di dove muova l’orizzonte.

Gli amanti si baciano nelle stazioni
si dicono addio con la punta delle dita sui finestrini
maledicono l’imperiosità del fischio

Tra chi parte e chi resta un arco voltaico azzurro, un legame di luce.

Tornerò, verrai: troveremo un punto di convergenza
un luogo da cui i treni arrivino soltanto
Lo stridore dei freni creerà  una pioggia di scintille,
il nostro firmamento esistenziale
 

            L'ombra ed il dialogo paralizzante con il sole
 
            L'ombra dallo scuro contorno giace a guardare il sole lassù, scruta attenta la sua posizione e di continuo come un'anima vivente accende il motore e si sposta silenziosamente da ovest ad est per seguirlo, non si perde un raggio una porzione, nemmeno quando il sole s'incurva perpendicolarmente ed è in quel momento che giace schiacciata col naso all'insù a gridare "dai muoviti ora vieni giù", buttati a terra con me e lasciami interagire con i tuoi raggi.
Il sole l'ascolta ma non manda che emissari a ragionar con lei non si può per niente al mondo sa di essere sua sorella di fatto e di scatto. Così ansima si contorce s'allunga si ritira si schiaccia si taglia ma sempre è là, fiduciosa a fargli da contorno, senza il sole l'ombra non è che un tutt'uno che crea frescura sin a che non si leva definitivamente di torno.
Io lo sò, pensa il sole, avvolgendosi per ore nel suo caldo torpore, impianterei le tende là con lei, per capir meglio cosa la porta a prendermi così sul serio, lascerei immutata la mia rotta per presagir un movimento che non sia ad addebitar alla mia corona.
Io sole sono l'altissimo riferimento di un attimo lucente trasparito come un angelo indomito e gaudente.
Ora che non mi muovo più son sicuro che per ore l'ombra che mi guarda come a dire "dai vieni giù" saprà spostarsi sola ed allora saranno guai, perchè se mai più io la vedrò vorrà dire che potrò illuminar l'universo e sarà così un portento ed io mi sentirò non più al soldo di questo mondo ma potrò viaggiar per il firmamento, girar tra le stelle a lambir forse ancora un nuovo mondo, che mi dia palese soddisfazione di riconoscermi come re al centro di questa grande illusione, in cui mi muovo lento ad accendere il giorno fino allo sgomento e della notte che io mai conobbi e vidi per intera, poichè la mia utilità è quella di illuminare da mane a sera ciò che vedo sotto i miei raggi.
 
Nel passar delle ore la terra si rigirò su se stessa ed il sole stanco lasciò all'ombra tutta la notte per avvolgere alla fine con un grande nero manto la terra e favorir il buio e le stelle che crescevan ad una a una come per incanto.
   

              Se sale, è calda l'aria.

Sono aggrappata agli aquiloni con le donne che sognavano l'amore, aggrappate loro alle mie sottane, mi bevo l'ultima goccia di saggezza, il resto l'ho venduto al mercato degli inutili, non serve tastare il pianto, ho già freddo nella gola e le gambe immobili sotto la coperta del cielo, sporca, imbrattata di latte avariato, sei tu madre a riempirmi le orecchie del vento?
Io ho fiato sgualcito perduto nelle tue tasche, mi hai tradita quando mi hai partorita, non sapevi tu dell'inganno? Vivere perduti nelle paludi dei respiri per secoli e non trovare la strada che s'apre alla luce.
Fu inganno anche il mio piede, scomposto sulla via di Betlemme, non lo credo, quel gesto fa male agli occhi, crederlo è spegnere il cuore dentro il posacenere delle anime ignobili, sono graffi nella carne e Tu scomposto mi osservi in silenzio ed io riesco solo ad amarti.

Mi parli degli aironi, seppelliti nei sogni traditi dei figli indesiderati sulle coste di Baia, non sono gli orrori a fare il disonore, ma gli sguardi perduti degli aironi sulle foglie dimenticate dal vento, su alberi incapaci di toccare le stelle, appesi alle radici di un altro pianeta, quello della speranza perduta, accoccolati nel ventre del mare e sarai perduto fra le onde indegne di soffocarti, alla foce pregasti Dio ma Lui ascoltava con il cuore, perduti sono tutti i cuori sulle malferme buone intenzioni, ed io intanto precipito.

Del sole il Dio buono sul crinale dell'ultimo gesto, il sublime, pria che la luna vesta il diavolo sì caro a  Pessoa e concluda in sonetti allegri, tendendo liane ad innamorati evanescenti, sul finale di inquietudini trascorse, volgo lo sguardo all'unico mio appiglio,è dell'incanto che bevo il succo, seduta ad osservare me stessa dall'altra parte, scavando nelle fosse dei poeti, traggo la linfa e sudo la vita che mi resta, nessun inganno fu più sublime madre mia, nessun inganno fu migliore di questo, l'essere in prestito sulla zolla fresca ed abbracciare il mare a tarda sera, scalare la montagna oltre una frontiera, per sentirmi straniera anch'io e scendere negli androni della comprensione, nessuna carità,  non sono santa né troppo convinta ma certo è che non si spengono le stelle senza prima averle sognate.

 

            Il guado e il ponte

 

Non capita mai che il guado stia fermo sotto al ponte. Non si tratta quindi di un vagabondo. Né può accadere il contrario. I ponti sono alti come le vertigini, anzi più alti dei bronchi con cui respira il paese, quelle cupole rosse che riducono l'ossigeno al vento. Sono anelli ammessi ai crepacci di traverso. Stanno sulle miriadi di dita che la Terra eleva dai capelli verdi o dalla rocciapelle. Emergono sulle valli, piantonano le rive. I ponti consentono di cucire il volo al piede, la struttura della distanza alla misura ridotta del percorso.
          
            Il guado che teme il suo fondo, il guado indica l'arguzia dell'acqua che nasconde. Qui stramazza nella corrente veloce e ferma molecole brade nel recinto della pozza. Solletica il mistero del fosso, emerge come un bacio dalle sponde, lo evolve quandoil flusso dei corpi lo raccoglie. Il ponte riscuote l'altezza, regge la nuova epoca di passi e annienta il salto. Il guado è magro. E' vecchio come la gola, la antecede, anzi la forma. Ha una schiena bassa, curva. Ottempera alla secca quando si appoggia sui palmi. Possiede una libertà espressiva che lo sposta, ma non lo annienta. Il guado è semplice, è burlone.
          
            L’austerità dell’arco, la sua continua estensione, l’allungamento di un discorso di pietra che non ha doveri se non portare sulla schiena le sollecitazioni, gli abbrivi della feritoria che apre nell’area dei monti. Il ponte sottoscrive il salto; non lo esercita, ne è istituzione. La rincorsa trova lo sbalzo e s’inerpica nel vuoto, slancia la distanza e pianta la sua freccia tra due cigli. Il ponte misura la linea intraprendente della congiunzione.

            L’eco dei passi non distoglie il guado dal suo lavoro di diga. L’oppio del canneto in un fianco estremizza il lato che dorme. Ne impedisce la ricerca. E si perde anch’esso. Eppure non teme la piena. La sua occupazione incerta gli offre lo spunto per dialogare col ciottolo. Lo espugna fino a stanarne le ossa. Non trasporta: riceve le segnalazioni della fonte quando trasmette voci. Quando lei si secca, lui inaridisce lento e poi si sotterra. Muore al centro, quando il cuore ritira i polsi dalla vena vuota.

            Il ponte, il guado, sono eteronimi dell'uomo in cammino, ovunque ti conduca.
 

 
*
 

Attendevo invano che tu ti girassi,

proseguivamo sotto i portici,

la tua faccia che celava l'unheimliche in te,

si intavvede, questa distanza, che temo.

 

familiarità che divide lontananza, volto osceno

che mi fa orrore, mentre luce

illumina tutto, 

solo tu rimani oscuro.

 

Vattene a cercare albe,

i treni,

limiti da non superare.

Passione-non passione che diventa Medusa, 

educazione middle class, che cerca l'oscuro

piaci-non piaci, cerchi il tuo specchio,

tu automa dell'amore,

della gentilezza del bon ton.

Maschera dell'essere,

che si trasosma nel desiderare la barretta di cioccolato,

che aspetti  scivoli subdolamente nella tua mano,

Che aspetti anche un invito,

mentre dietro lo specchio si agitano quelle figure contorte

sofferenti, che domani cercherai.

Un domani già andato, da non attendere.

Nel silenzio incomunicabile, 

Tu e l'estraneo, il sosia

siete soli

Vagate nell'affondo nero,

nella palude donde non si risale.

E non te n'eri accorto,

quell'estraneo dientro di te,

nessun altro,

nessuna lampada.

La scena  è noir.

Sei rimasto a guardare con occhi ciechi

un nulla davanti, 

un niente dietro

Completamente buio

e immobile.

Il teatro s' è svuotato

annoiato.

 

Cerca nel sito

Cerca per...

Sono con noi

Ci sono attualmente 0 utenti e 8427 visitatori collegati.