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Paolo Rigoni - senza titolo
Mi rigiro lentamente il foglio fra le mani. E’ un comune foglio di carta, ma lo guardo come se non ne avessi mai visto uno in vita mia. Lo tasto a lungo, strofinandone la superficie fra pollice ed indice. La carta è un po’ più spessa del normale, forse è da 90 grammi. La superficie bianca non mostra imperfezioni, i lati sono diritti, squadrati, come dev’essere. Solo il lato superiore è sfrangiato. Passo il dito sulle piccole asperità seghettate, rimaste dopo che è stato staccato dal blocchetto. Osservo le parole che ci sono scritte sopra, ma senza cercare di leggerle. L’inchiostro ha tracciato una serie di piccoli arabeschi sopra il bianco assoluto della carta. Piego il foglio di lato per scoprire se le scritte siano in rilievo, ma non riesco a capirlo. Allora chiudo gli occhi e passo il dito sulla superficie cercando di trovare il punto dove stanno le parole. Nulla, non ci riesco. Sento una fitta, che dall’orecchio sinistro mi attraversa la guancia per scendere lungo il collo ed infilarsi in profondità nel petto. Possibile che quei segni così impalpabili, apparentemente innocui, riescano a farmi così male?
Alzo gli occhi dal foglio. Il mio corpo mi opprime. Sento la sua presenza fisica. Percepisco lo spazio che occupa. Mi rendo conto che la casa è un tutto, un insieme di oggetti che la riempiono completamente, contendendosi ogni centimetro, annegati nell’aria che satura ogni più piccolo interstizio fra di loro. E il mio corpo è lì, a pretendere la sua parte. Muovo un braccio per sentire il movimento dell’aria che si sposta. Le molecole, sfiorando la pelle,  corrono a colmare il vuoto che egli lascia dietro di se. Ogni mio movimento richiede infiniti spostamenti di molecole. Se mi siedo sul divano, lo costringo ad assecondare le mie forme, schiacciando, spostando, piegando una quantità di tessuti, imbottiture, molle e chissà cos’altro ancora. Se mi verso un bicchiere d’acqua – mio dio! – innesco una catena di eventi che si propagano dal rubinetto lungo le tubature, fin fuori dal mio appartamento, per le colonne del palazzo e poi ancora oltre fin dio sa dove. Non posso fare nulla senza provocare un piccolo terremoto negli elementi che mi circondano.
Penso a queste cose, per non pensare al foglio che ancora ho in mano. Il mio corpo è lì, presente, un ammasso intricato e pulsante di attività vitali. Vorrei non sentirlo, staccare il contatto, ignorarlo, come ho fatto per tantissimi anni. La mia parte corporea non mi ha mai interessato. L’ho assecondata quel che bastava per sopravvivere, ho sempre avuto altro a cui pensare. Tutto quello che succede dentro al corpo mi fa orrore, anche quando è sano, figuriamoci poi con la malattia.
 
La signora Adele si è svegliata da sonnellino pomeridiano e, come ogni giorno, ha fatto mentalmente l’elenco di tutti i suoi acciacchi. Non ha bisogno di sforzarsi per ricordarli. Loro sono lì, sempre con lei, le parlano continuamente. Appena mette il piede sinistro sul pavimento sente una piccola fitta. “Eccolo! Mi devo ricordare di dirlo alla Tiziana, quando viene a farmi i piedi. L’altra volta non mi ha fatto un buon lavoro, ed ora ecco qui, non ce la faccio nemmeno a camminare”. Poi c’è il ginocchio, quello destro, che sembra rifiutarsi di sostenere il suo pur esile peso.  E l’affanno, che la sollecita a prendere le pillole per il cuore.
Ma è ora di andare a far la spesa. Allora Adele chiede ai suoi dolori di farsi un po’ da parte e si prepara per uscire.
 
Anna corre in macchina verso casa, con il finestrino abbassato, anche se l’aria comincia a farsi più fresca. Sente con piacere il vento infilarsi fra i sui capelli. Le ciocche nere e lucide ne seguono docilmente i movimenti. Il contatto col vento la fa sentire viva, provocandole una leggera eccitazione. Non che ne abbia bisogno! Da quasi un mese è in uno stato di grazia, in un’estasi continua, in perfetta armonia con il mondo meraviglioso che la circonda. Ora poi, che sta tornando nella sua città, da lui, dopo due settimane di forzato distacco.
Dio! E’ un mese che lui è entrato nella sua vita! Un mese fantastico, che l’ha cambiata nel profondo. Luca. E’ merito suo se lei ora si sente bella, accettata dagli altri, quasi come se fosse nata un’altra volta. Lui ha dato un senso al suo corpo, gliene ha fatto scoprire i mille dettagli, che lei aveva sempre trascurato. Le ha fatto comprendere la morbidezza setosa dei suoi capelli, solo facendoseli scorrere fra le dita. Ha svelato per lei il mistero della sua pelle vellutata, fatta apposta per rendere più languide le sue carezze. Le ha mostrato il mistero dei sui capezzoli, capaci di farsi turgidi sotto le sue dita.
E lei ha imparato a conoscere le mille strade del piacere, nascoste in ogni singola parte del suo stesso corpo. Le vertebre, percorse dai polpastrelli del suo amante come fossero tasti di un pianoforte, si sono rivelate capaci di suonare la melodia dell’estasi. L’ombelico, di cui sa, finalmente, che è fatto così solo per attirare i baci dati con la bocca chiusa, da cui saetta impertinente la punta della lingua. Ed ha capito anche la funzione del ciuffo di peli che le ricopre il pube, quando lui l’ha sfiorato con il palmo della mano ed una sottile corrente elettrica le ha percorso tutto il corpo.
A ventisei anni Anna è rinata. E’ diventata una donna, una vera donna. Già in passato ha fatto l’amore e goduto con altri uomini. Ma con lui è un’altra cosa, completamente diversa, che fa scomparire tutto ciò che è stato prima.
 
Elena è in piedi dalle quattro del mattino. Prima la poppata, con annesso cambio di pannolino, ruttino e quarto d’ora di passeggiate su e giù per farlo riaddormentare. Poi l’ha posato delicatamente nel lettino, ma appena lei ha provato a coricarsi, il bimbo ha ricominciato a piangere. In un attimo si son fatte le sei, l’ora di svegliare Antonio. Fra colazione e lavori vari è venuta l’ora della seconda poppata. La mattinata è passata così in un baleno, con lei sempre in movimento nonostante il dolore sordo che ancora le percorre il basso ventre. Il parto le ha regalato un meraviglioso frugoletto ma le ha anche procurato un bell’ematoma dalle parti dove non batte mai il sole. Mettiamoci anche che non l’hanno ricucita proprio benissimo ed ecco qua che a distanza di oltre sei settimane si trova ancora ad arrancare come una vecchietta. Ma lei non si abbatte, di solito.
E’ che oggi pare proprio che sia una giornata storta. E’ stanca, avrebbe disperatamente bisogno di dormire, ma sua madre è via e non può venire. Antonio non rincaserà che per le sette. E il bambino ricomincia a piangere.
Strano, eppure ha mangiato da poco. Lo tira su dal lettino e lo dondola piano piano. Per un po’ sembra calmarsi, ma poi il pianto ricomincia, insistente, stizzoso. Elena avvicina il naso al sederino ed annusa. No, c’è solo un buon odore di pasta di fissan. Va avanti ed indietro per la cameretta, facendo piccole flessioni su e giù. Mentre lo culla ne sente il peso sulle braccia. E’ leggero ma lei riesce a capire che di giorno in giorno si fa più pesante. Il suo bimbo cresce bene, solo smettesse di piangere!
 
Non riesco proprio a non pensarci. Il mio corpo ora è così prepotentemente presente che non posso ignorarlo. Mi alzo, cerco qualche altra distrazione. Mi muovo per casa come un ladro che scruta per la prima volta l’appartamento, cercando di valutare velocemente quali oggetti rubare. Giro per il salotto scorrendo con il dito la collezione di CD che dovrei rimettere in ordine. Poi passo ai libri, ma non mi interessano, piuttosto mi fisso sulle piante che ho sistemato dietro al grande televisore, vicino alla finestra. Avrebbero bisogno d’acqua. Tocco una foglia della kenzia piena di polvere. Fino a pochi giorni fa questo non sarebbe successo. Le piante le ho sempre trattate bene, anche se – solo ora me ne accorgo – ne ho sempre visto solo il lato estetico. Mi interessano perché danno il tocco giusto all’ambiente, perché la loro linea armonizza bene con quella dell’arredamento. Non le ho mai considerate come esseri viventi. Chissà se anche loro si ammalano.
Dal salotto passo alla cucina. Un pensiero nuovo mi si forma immediatamente in testa: questo è il posto degli odori. Ne sono quasi travolto. Sento quello del caffè, forte, pieno, un po’ bruciato perché ho lasciato la caffettiera troppo a lungo sul fuoco, questa mattina. Vado apposta dal lavandino ed annuso a lungo l’odore dei resti di cibo che stazionano lì da ieri. Sanno di decomposizione, di morte. Mi sposto davanti ai fornelli e giro una manopola. I piccoli contatti piezoelettrici cominciano a crepitare ma io so che c’è ne uno che non funziona. Esce un po’ di gas, abbastanza perché io possa sentirlo. Ha un odore dal retrogusto metallico, un po’ greve, che mi affascina. Giro ancora la manopola, per aspirarne un altro po’. Il gioco mi stanca, vado al frigorifero e lo apro. Mi investe una zaffata di odori rancidi, anche se ovattati dal freddo che li smorza. Il frigo non mi piace, è la negazione della vita. Chiusi in quella gelida bara bianca i frutti e la carne non riacquistano la loro vitalità. Ma neppure muoiono repentinamente. La loro è una fine lenta, scientificamente studiata per durare il più a lungo possibile. E’ una lenta agonia, che rende insopportabile l’attesa della fine. Il frigorifero è come l’ospedale. No, non è questo che voglio.
Vado rapido al piccolo quadro elettrico che alimenta gli elettrodomestici. Apro lo sportellino e stacco solo quello della cucina, poi torno ai fornelli e giro, ad una ad una, tutte le manopole. Nessun crepitio.
Prendo una pentola e la riempio d’acqua. Quando è abbastanza pesante la poso sulle manopole aperte. Un soffio deciso si leva da ciascun fornello.
 
La signora Adele è di ritorno dal suo giro per le botteghe del quartiere. Detesta i supermercati, le poche cose che le servono preferisce prenderle nei pochi negozi rimasti. Lì riesce ancora a scambiare quattro chiacchiere con i gestori o con gli altri rari clienti. Quando le capita di uscire al mattino ci trova anche qualche fornitore a fare le consegne. Li conosce quasi tutti e loro sono sempre gentili con lei.
Il dolore sotto il piede è quasi scomparso, ma l’artrosi alla mano sinistra oggi non le da tregua. Così deve reggere la sporta con la destra e fare peso su quella gamba. Prega il ginocchio di non far troppe storie, di lasciarla almeno arrivare fino a casa.  Cammina con i suoi brevi passetti, osservando con attenzione. La sua vita lenta ha un vantaggio, le consente di vedere realmente tutto quello che la circonda. Nonostante gli anni ha una memoria di ferro ed è in grado di afferrare ogni più piccolo cambiamento. Quest’anno i fiori della tedesca non sono così belli, si vede che deve accudire il marito! E la macchina del giovanotto che abita sotto di lei è da tre giorni sempre nello stesso posto. Strano, eppure lui è in casa, lo ha sentito.
 
Il bambino piange ancora. Elena lo sta cullando fra le sue braccia ormai da tre ore. Va avanti ed indietro per tutta la casa come un automa. Non ha più la forza di parlargli, né di cantargli le sue canzoncine preferite. I muscoli delle gambe le fanno male. Le braccia sono di marmo. Un dolore sordo al basso ventre le ricorda le sue mucose infiammate. Si muove solo perché se si ferma lui urla più forte. Ha ripassato a memoria tutti i manuali che ha letto, i consigli di parenti e vicini ma nulla sembra in grado di fermare quella sirena. Ha chiamato Antonio già quattro volte, più che altro per sfogare su di lui la sua frustrazione. La pediatra non risponde alle telefonate fino alle otto.
Per un attimo le sembra di carpire un cambiamento nel modo di piangere. Mentre prima era ritmico, come una litania che scende a poco a poco per poi riesplodere al massimo della potenza, ora è più incalzante, sembra chiederle di intervenire con urgenza. Lei si dispera, è sola, le prende la paura di non essere capace. Il suo bambino ha bisogno, forse è in pericolo e lei non sa cosa fare! Riprende a dondolarlo con più vigore mentre pensieri cupi le attraversano la testa. Le viene di chiamare la vicina, la signora Adele, ma l’ha sentita uscire. Allora pensa di scendere in strada e di chiedere aiuto, forse può fermare una macchina e portarlo al Pronto Soccorso, quello pediatrico. In preda al panico se lo appoggia alla spalla mentre cerca le chiavi. Esce quasi di corsa, con la sirena nel cervello. Mentre fa le scale ha un’idea: può suonare al ragazzo che sta sotto di lei. Lui è sempre così gentile ed ha la macchina. Sarà lui ad accompagnarla in ospedale! Ma proprio quando sta per premere il campanello, il bambino smette di piangere. Chiude la bocca, è in apnea. Tira su la testa e contrae tutti i muscoli, diventando rosso dallo sforzo. Lei è impietrita dalla paura. Finalmente un rumore sovrumano esce da sotto il pannolino e, con esso, un odorino inconfondibile. Allora il bimbo appoggia per un attimo la testa contro quella della madre  e poi la rialza per guardarla rapito,  facendosi una risatina.
 
Anna è quasi arrivata. E’ fortunata, oggi non c’è traffico. Non fa che pensare a Luca, alle sue mani sul suo corpo. Un dolce languore la invade. Allora, per contrastarlo, ripensa ad un gioco che faceva da bambina, quando era felice. Le capitava certe volte, mentre osservava la sua famiglia, sua madre, suo padre e suo fratello più piccolo. Li guardava quasi di nascosto, beandosi della felicità in cui le era capitato di vivere. Arrivava a chiedersi se si meritava tanto. Per questo aveva inventato il gioco della paura. Chiudeva gli occhi e si immaginava che loro non ci fossero più, che fossero morti. Stringeva gli occhi e li vedeva distesi sull’asfalto, vittime di un terribile incidente stradale. Li osservava a lungo, cercando di analizzare ogni dettaglio. Vedeva, come se le avesse davanti, le ferite aperte, gli arti amputati. Ed ora lei era sola, senza nessuno al mondo. Riusciva a fingere così bene che il dolore le invadeva il petto e grosse lacrime cominciavano a scenderle sulle guance. Solo in quel momento riapriva gli occhi e, rivedendoli lì davanti a lei, vivi e sani, provava una grande felicità. Quasi scoppiava di gioia, da non riuscire a contenerla.
L’adolescenza si era portata via quel gioco puerile. Ma ora, di colpo, prova a ripeterlo. Allora le belle mani sensibili di Luca, dal tocco leggero, non sono più le sue. Sono quelle del Pedrini, il collega anziano con cui ha lavorato negli ultimi giorni. Perché proprio lui? Anna non lo sa. Pedrini ha l’età di suo padre ed è sempre stato correttissimo con lei. Nulla che possa averla minimamente infastidita. Ma ora ha in mente le mani grassocce e un po’ sudate del Pedrini. Mani che la frugano, impazienti e rozze. Che palpano malamente, che si infilano dentro la camicetta, sotto la gonna, che arpionano le mutandine come un trofeo. Anna si irrigidisce, il suo corpo si fa di ghiaccio. Una forte nausea le contrae lo stomaco ed una rabbia sorda le cresce dentro. Vuole scacciare quei tentacoli che la fanno sentire sporca. Stringe forte il volante e si impone di  ritornare alla realtà. Ha ancora un brivido, poi una vampata di desiderio la travolge.
 
Sono tornato in salotto e mi sono sdraiato sul divano. Aspetterò qui. Ritrovo il foglio di carta, ma lo scosto con fastidio. Non mi interessa cosa c’è scritto. Quale tortura mi sia stata assegnata, per ritardare l’inevitabile. Il medico ha provato a farmi capire. Bisogna ridurre la massa. La massa, che orrore! Quella che si prende lo spazio che dovrebbe essere mio, dentro di me. Che cresce succhiando l’energia destinata alle mie cellule. E poi parole ancor più terribili. Radioterapia. Andare cioè volontariamente sotto un apparecchio che ti sputa addosso il peggior veleno che l’uomo ha mai concepito. Non se ne parla nemmeno.
Aspetterò qui, non ci vorrà molto. Sarà Anna a trovarmi, quando arriva. Chi se ne frega.
 
Vinta dal sonno, Elena dorme con il capo appoggiato alla spalla, accanto alla culla del suo bimbo. Dopo che l’ha cambiato, lui ha voluto la sua poppata ed ora si riposa beato. Lei l’ha guardato a lungo, sopraffatta dalla tenerezza, poi è scivolata nel sonno.
Di colpo però si sveglia, con il cuore in gola. Il suo bambino è in pericolo! Si guarda intorno, per capire da dove viene la minaccia. Poi si ricorda di quello che è successo e ride di se stessa. Appoggia di nuovo la testa e si riaddormenta.
 
La signora Adele è finalmente arrivata nel suo palazzo. Comincia a salire le scale lentamente, senza curarsi di chiudere il portone, le fa troppo male la mano. Ha un unico pensiero. Arrivare in casa, sedersi sulla sua poltrona. Allora potrà fare con calma i conti con tutti i suoi dolori. Ma stasera le sembra impossibile riuscire ad arrivare al secondo piano. Prega che qualche altro condomino salga le scale. Gli chiederebbe, per cortesia, di aiutarla a portare la spesa. Sarebbe la prima volta, ma il dolore la sfinisce veramente.
Poco prima di arrivare al pianerottolo del primo piano si ferma. Deve riprendere fiato. Dabbasso sente dei passi di corsa. Qualcuno sta salendo.
Poi, di colpo, un odore inconfondibile le arriva alle narici, facendola tossire.
 
Anna oggi è veramente fortunata! Ha trovato parcheggio alla prima, quasi davanti al portone. Del resto, non avrebbe resistito ad una ricerca più lunga. Probabilmente avrebbe lasciato l’auto in mezzo alla strada. Il portone è aperto. E’ come se il destino volesse farla volare da lui. Divora le scale. Scarta una vecchietta che annaspa su uno degli ultimi gradini, poi la sua mano saetta verso il campanello.
 
"Noo!!"
 

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