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Sotto gli occhi di Ermes

" Lei ha un disturbo del sonno molto serio, di natura psichica..." esordì l'assistente del primario, dottoressa Pancaldi.
Ancora giovane, sui quarantacinque anni, la dottoressa stava seduta dietro una scrivania in metallo, chiusa in un camice bianco, dalla cui scollatura sbucavano le punte di una camicetta sportiva. Nessuna collana. Portava occhialini con leggerissima montatura fissati ad una catenella a pallini rossi, pareva un minuto rosario, che dondolava impercettibilmente ogni volta che la donna scuoteva un poco il capo.
" In questa sede noi esaminiamo innanzitutto se la mancanza di sonno è di natura neurologica, e in tal caso curiamo noi; oppure se il disturbo è psichico, e in tal caso lei si deve rivolgere ad un medico diverso..."
" Dal colloquio che c'è stato tra noi emerge una componente fobica rilevante" aggiunse la dottoressa sfogliando velocemente degli appunti, gli stessi che lei aveva scritto durante la precedente seduta.
Dall'altro capo della scrivania Marisa Salvini, impiegata di banca alla Cassa Rurale, seguiva i gesti delle piccole mani della donna. Le sue mani invece erano goffe e sempre arrossate, con unghie corte e mascoline. Certo i medici devono avere tutti belle mani, anche se non curatissime, ma pulite, mobili, di certo non tozze. Questo pensava.
Marisa faceva uno sforzo enorme per seguire il discorso della dottoressa. Da quando aveva aumentato la benzodiazepina diurna , la sua capacità di concentrazione era diminuita. Nel contempo era preoccupata che l'interlocutore se ne potesse accorgere, quindi anche se ascoltava solo qualche parola ogni tanto, tentava di assumere una espressione attenta.
In quel momento aveva fissatolo sguardo sulla copertina color porpora della agenda della dottoressa.
" Mi scusi... signora... ma lei mi sta ascoltando o no? " chiese con tono sospettoso, la dottoressa.
" Certo dottoressa... ho sentito... ho una componente fobica... rilevante".
" Lei deve essere seguita da uno specialista... psicoterapeuta, possibilmente... Adesso redigo la lettera che lei dovrà presentare al dottore al quale si affiderà.."
Un altro dottore? Pensò Marisa... un altro camice bianco... o forse questi medici della testa vestono casual.. perchè poi un camice bianco? Mica visitano o fanno iniezioni...
Sentì il tintinnio della catenella reggi occhiali e osservò la dottoressa che veloce scriveva con grafia rotonda una lettera su carta intestata del reparto.
Poiché teneva il capo chino sul foglio, Marisa notò che la donna, al centro, aveva pochi capelli, molto sottili e si intravedeva la cure della testa. Belle manine, ma pochi capelli, pensò. Mentre lei di capelli ne aveva una matassona che a tenerla raccolta saltavano le forcine, tanti erano.
" Mi raccomando signora, si affidi al più presto ad un psicologo o psicoterapeuta... non trascuri... nel suo caso occorre risalire all'origine del disturbo... lei ha come un blocco mentale" ribadì la Pancaldi, porgendole una busta con su scritto " al medico curante".
Si salutarono.
Marisa si trovò nel corridoio del reparto dove passeggiavano dei degenti... qualcuno in tuta da ginnastica, alcuni in pigiama, certuni mezzi in tuta e mezzi in pigiama. Alcune infemiere giravano distribuendo del te agli ammalati.
Al portone a vetri, con su scritto " spingere" , Marisa intravide la figura di suo padre, fermo in piedi davanti ad una vasca di pesci rossi, con canne di piante acquatiche.
Il padre s'era offerto di accompagnarla in macchina, poiché la figlia non poteva guidare, essendo sotto effetto di psicofarmaci che ne rallentavano i riflessi.
Marisa premeva i passi sul ghiaino, procedendo verso l'anziano. Egli udì il rumore e si girò verso la figlia. Portava un panama, un finto panama. " Allora che ti hanno detto? " chiese ansioso.
" Papà usciamo da qui ho bisogno di un caffè e così ti spiego" rispose Marisa prendendolo sotto braccio.
L'uomo si fece guidare, sembrava essere lui quello che aveva bisogno di un appoggio.
" Papà qua mi dicono che devo andare da uno specialista, uno psichiatra... se non dormo alla notte è un problema di testa..." spiegò Marisa, lasciandosi andare sopra la seggiolina in alluminio di un piccolo bar ancora all'interno del giardino ospedaliero.
Il vecchio la guardò perplessa con occhi interrogativi. Piccole schegge azzurre ancora molto vivide.
" Che posso fare?" si domandò. " Allora è una cosa lunga..."
Marisa ebbe pena del padre, il cui sguardo ceruleo sotto lunghe sopracciglia bionde, sembrava un poco smarrito. L'uomo era vestito di chiaro ed il panama bianco gli conferiva un'aria vagamente da inglese in vacanza. Si accorse che egli era nervoso perché, stando seduto, strusciava le suole delle scarpe contro il ghiaino.
Dopo la morte della madre, Marisa ed il padre vivevano assieme nella casa, al paese. Una casa abbastanza confortevole, piena di quadri che la madre, una discreta pittrice, aveva realizzato in circa trent'anni di attività. La casa era attorniata da un bel giardino, che il padre curava tutti i giorni e in tutte le stagioni. Non conducevano affatto una vita solitaria poiché il genitore aveva molti amici ed era stato, fino a oltre ottant'anni di età, il fiero e combattivo presidente di un'associazione ambientalista, occupazione che gli aveva portato una certa nomea e varie conoscenze.
Quasi tutti i pomeriggi o sere venivano persone, a salutarlo, e ad intrattenersi in chiacchiere. Non entravano nemmeno in casa. Il padre accoglieva i visitatori in giardino dove c'erano delle poltroncine di vimini, se era bel tempo; diversamente nella piccola serra, dove d'inverno egli ospitava le sue piante grasse.
Marisa prese la dura e abbronzata mano del padre. Vide che il dorso era segnato da vari piccoli graffi. " Papà, ma perché curi le rose sempre senza guanti? " - chiese Marisa -guarda che ti sei fatto alle mani...? " e gliela strinse amorevolmente.
" Con i guanti non sento... a me i fiori piace toccarli... cosa vuoi che siano due spine?... sono le carezze delle rose, queste.." rispose il vecchio un po' sorridendo.
Pagarono il caffè e uscirono dall'ospedale, verso la vecchia Fiat un poso scolorita che il padre di Marisa guidava ancora.
Faceva veramente caldo, alle tre del pomeriggio. Era soltanto giugno, ma l'afa tipica di quella regione cominciava ad abbattersi, opprimendo quasi fino a sera.
Strada facendo, il padre di Marisa guidava la macchina con gli occhi fissi alla strada, attentissimo e tenendo un po' troppo la destra.
" Papà... non stare così a destra... o strusci il marciapiede o finisci fuori strada... stai un poco più al centro " - cercava di correggerlo Marisa.
" Sono prudente io... - reagiva suo padre.
Poi Marisa si allungò sul sedile, sentendo il caldo che le imperlava la fronte. Non c'era aria condizionata nella vettura. Stette in silenzio. Lentamente le sovvennero le ultime parole del dirigente responsabile della sede dove lavorava... era stato all'ultimo incontro del giorno prima, durante il quale Marisa aveva esposto al superiore la sua necessità di un'aspettativa per motivi di salute.. Era la prima volta in vent'anni di servizio che ella chiedeva di poter stare a casa per motivi di salute. Si reputava una buona impiegata, a tutti può accadere di ammalarsi.
Il ragionier Fiaschi l'aveva ricevuta nel suo ufficio al secondo piano della banca, giusto all'ora della sosta pranzo. Da dietro la moderna scrivania in vetro e acciaio, rilassato sulla poltrona di fine fattura, il capo l'aveva ascoltata attentamente e alla fine aveva commentato che lui s'era accorto da tempo del fatto Marisa non stava affatto bene. L'aveva osservata, in più di qualche occasione, contare e ricontare i soldi della cassa o essere lenta in determinate operazioni, che si solito svolgeva con grande disinvoltura.
" È che ho paura di sbagliare, ragioniere. Controllo perché non mi sento sicura... può darsi che sia una mia fissazione, perché alla fine vedo che è sempre tutto in ordine... errori in realtà non ne ho fatti", replicava Marisa.
" Certo, Marisa. Errori non ne hai fatti. Ma di certo non è un bel vivere il tuo. Non puoi lavorare bene senza serenità. Né l'istituto può stare tranquillo se uno dei suoi impiegati, applicato a mansioni di controllo come sei tu, ritiene di non essere più affidabile... momentaneamente si intende. Pertanto credo che appoggerò la tua domanda di aspettativa per ragioni di salute, presso la sede centrale..." - riepilogò il rag. Fiaschi con un sorrisetto conciliante - " Al tuo rientro poi, si vedrà".
" Scusi, si vedrà cosa? " - reagì Marisa un poco allarmata.
" Ma nulla Marisa... se starai nuovamente bene, come mi auguro, torni al tuo posto; se non sarai ancora stabilizzata, vedremo di assegnarti un'altra mansione che per te non sia così ansiogena".
Marisa, che fino allora era sempre stata una donna molto remissiva, un po' succube della influenza delle posizioni rilevanti altrui, prese coraggio e disse : " Questo discorso ragioniere mi piace poco... ma le assicuro che tornerò guarita e in grado di riprendere il mio lavoro. In ogni caso la ringrazio. Domani stesso inoltrerò la domanda di aspettativa con tutta la documentazione medica necessaria."
S'era alzata dalla sedia da stilista e già porgeva la destra al ragioniere. Non aveva nemmeno atteso che il dirigente la congedasse. Aveva girato le spalle, superato l'enorme pianta di ficus che ornava l'ufficio e raggiunta la porta, ella aveva detto al ragioniere: " Scusi, guardi che la pianta non è esposta bene, ha delle macchioline gialle alle foglie... se non la vuole vedere morta, sarà bene che chiami un giardiniere..." e se ne era andata.
Durante il viaggio in macchina, contro ogni aspettativa, poiché Marisa non era mai riuscita a dormire di pomeriggio, ella si addormentò . Non se ne accorse nemmeno. Si svegliò solo quando avvertì il rumore dei pnemumatici contro la ghiaia del giardino, davanti alla sua casa.
" Siamo a casa, Marisa " le disse piano il padre, toccandola alla spalla." Strano - rispose lei, battendo un poco le palpebre -ho dormito..."

 

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Il resto del pomeriggio, Marisa lo trascorse in casa, sistemando alcuni cassetti del guardaroba e preparando un minestrone di verdure per la sera ; il padre, dopo un breve riposo sul divano, andò in giardino a controllare la crescita delle calle e tagliuzzò anche qualche ramo di rosa. Marisa avvertiva dalla cucina il tic tic tic delle forbici che lui usava. Guardando dalla portafinestra, lei poteva vedere il padre di spalle, con il cappello bianco e la leggera camicia a quadretti, chino sulle piante.
Verso sera, mentre il padre si accingeva a preparare la tavola nel piccolo tinello, Marisa fece la telefonata che aveva in mente da quando era rientrata dall'ospedale. Chiamò la sua amica Paola, psicologa, e le chiese se poteva consigliarle il nominativo di uno psicologo cui potersi rivolgere. Le raccontò la vicenda e l'esito del colloquio con la dottoressa Pancaldi.
" Purtroppo Marisa non posso dirti di venire da me - spiegò Paola, con molta dolcezza nella voce - Ci conosciamo troppo come amiche, mentre per questo tipo di attività e di contatto terapeutico è necessario che tra paziente e specialista non intercorra alcun tipo di conoscenza precedente. Posso consigliarti il dottor Andrea Resca, già primario di psichiatria. Io l'ho conosciuto perché è stato docente in un corso di aggiornamento per noi psicologi. L'ho trovato veramente una persona capace, competente... io direi che potresti rivolgerti a lui, mi risulta che svolga anche attività di psicoterapeuta... presentati a mio nome. Aspetta un secondo ti do il numero del suo studio."
Marisa sentì che l'amica interrompeva momentaneamente la conversazione e che stava cercando da qualche parte il numero telefonico.
Dopo pochi minuti, Paola dettò il numero, Marisa lo scarabocchio con una matita che aveva a portata di mano. Quindi le due amiche si salutarono, ripromettendosi che si sarebbero risentite dopo il contatto di Marisa con il dottore.
Il padre, come sua abitudine, andò a letto presto, dopo aver sfogliato una rivista di giardinaggio, alla ricerca di un qualche suggerimento su come collocare una certa specie di roseto; Marisa, invece, si preparò a passare la notte stesa sul grande divano del soggiorno, dopo aver sintonizzato sommessamente la radiolina ed acceso un vecchio abat-jour con frange color aragosta.
Prese circa quindici gocce di un farmaco che le aveva prescritto il medico, avvolse i piedi nudi dentro un vecchio scialle, poiché li sentiva freddi malgrado la stagione, e cercò di non pensare a nulla, guardando nella penombra creata dalla piccola lampada, una tela ad olio, raffigurante il loro giardino, dipinta dalla madre in età giovanile. Ricordava l'epoca in cui la mamma s'era collocata con cavalletto e colori proprio vicino al grande cedro, seduta su di uno sgabello, con in testa un cappello di paglia; Marisa la vedeva che lavorava a quel quadro, con spatole e trementina. Di tutto quello che la madre utilizzava per poter dipingere, Marisa era sempre affascinata dalla tavolozza sopra la quale, con il tempo, andavano stendendosi macchie e strati di colore differenti, tali da creare tinte del tutto inesistenti in natura.
 

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Due giorni dopo Marisa e il padre si trovarono in treno, nei pressi della periferia della città di ****. Erano partiti dal paese verso le otto del mattino, ed erano arrivati in città con ben due ore di anticipo rispetto all'appuntamento fissato con il dottore Resca.
Come spesso accadeva, dopo nottate passate sul divano, in una specie di dormiveglia accompagnato incessantemente dalla radiolina accesa, Marisa si sentiva abbastanza sveglia durante le prime ore del mattino, sensazione però che si offuscava man mano che le ore passavano. Non poche volte ella veniva anche sopraffatta da una rapida successione di tachicardia. Consapevole di questo effetto di gravosa sonnolenza a metà giornata, Marisa aveva preferito partire prima, costringendosi a rimanere sveglia e lucida il più a lungo possibile.
Il padre aveva voluto a tutti i costi accompagnarla, sapendo che la figlia, in quegli ultimi tempi, temeva si trovarsi sola in luoghi affollati e sconosciuti.
Il treno, imboccata una larga curva, abbandonava la campagna ed un fila ininterrotta di capannoni industriali, per entrare nella periferia grigia ed anonima. Marisa osservava il gioco degli scambi e dei binari che verso la stazione si facevano sempre più fitti e si intrecciavano tra di loro. Ai bordi si affacciavano case popolari gremite di appartamenti. Dai terrazzi sventolavano panni e lenzuola stesi all'aria. Qualche raro platano polveroso cercava di svettare in mezzo alle muraglie di cemento armato.
La stazione della città era nel pieno viavai di passeggieri. Dall'ingresso centrale le persone entravano come formiche, trascinando valigie, troller o zaini. Se non si fermavano alle biglietterie, gran parte di esse si dirigevano alle scale mobili che portavano ai binari.
Marisa ed il padre, una volta scesi dal treno, seguirono la fiumana di pendolari e viaggiatori, arrivando ben presto all'uscita.
" Papà - disse Marisa - direi di prendere un taxi fino a piazza Diaz, dove il dottore ha il suo studio... siamo abbastanza in anticipo... cerchiamo un bar. Ci fermiamo un poco là. Poi io cerco lo studio del dottor Resca, mentre tu rimani nel locale e mi aspetti."
Così infatti fecero ed in breve tempo un taxi li lasciò davanti al bar " Al giardinetto", un locale con una vasta pergola ed un giardino, come prometteva un cartello appoggiato alla vetrina.
Il bar, di stile vecchiotto, li accolse in una penombra che al vecchio padre di Marisa fece piacere. Il poveretto si sentiva accaldato. Tolse dal capo il panama e lo sventolava verso il viso.
Dopo un lungo bancone in noce, lucidissimo in superficie, tanto da vedersi riflessi i bicchieri da birra allineati alla parete, si apriva un cancelletto dal quale si intravedeva qualche ramo frondoso dondolare alla brezza.
Senza nemmeno cercare un cameriere, padre e figlia si diressero verso il giardino e si sedettero ad un tavolino.
Non c'era anima viva. Il giardino , di piccole dimensioni, appariva curato, recintato da uno steccato in legno, nessun rumore proveniva dalla strada. Dal ramo di un albero di albicocco pendeva un nido a forma di casetta.
" Certo che fa un bel caldo, e siamo soltanto alle prime ore della giornata" - commentò il padre di Marisa, sistemandosi la giacca di lino che dopo il viaggio in treno appariva tutta stazzonata.
" Come ti senti papà ? - chiese la figlia, un poco apprensiva - ti vedo affaticato... non sai quanto mi dispiaccia averti costretto ad accompagnarmi..."
" Marisa... che dovevo fare? Lasciarti viaggiare da sola? ... Solo l'altra settimana al mercato, mentre eri da sola, ti sei sentita male ed avevi il cuore che batteva furioso.. per fortuna che è accorsa la farmacista e ti ha pure accompagnata dal medico... se non ci fosse stata lei!... non è poi un grande sacrificio per me.. è solo un po' di caldo... a quest'ora, di solito, io mi trovo in giardino... non sono più abituato alla città ", commentò suo padre.
Nel frattempo era apparso un giovanissimo cameriere dai capelli bruni, tagliati corti e incollati di gel. Prese le ordinazioni e scomparve dentro al bar.
" Allora papà , siamo d'accordo... tu resti qui... mi sembra un posto abbastanza fresco. Adesso chiedo al ragazzo se hanno un giornale, così leggi e mi aspetti..." riprese Marisa
" Lo sai che vorrei venire pure io, con te... però sono un poco emozionato e alla mia età la cosa non mi giova... Lo studio del dottore è poco lontano da qui... aspetterò tranquillo... Ho con me il telefonino, se c'è qualche problema mi chiami subito, va bene? " rispose il vecchio guardando la figlia con gli occhi un poco umidi.
Marisa provò compassione per il padre che proprio quel giorno aveva indossato il suo migliore vestito di lino azzurro, per accompagnarla in città. Era dimagrito da qualche mese e ora la giacca gli cadeva un poco vuota nel punto delle spalle. Marisa accarezzò la mano che il padre stringeva sul leggero bracciolo della sedia. Lui pose la sinistra sopra la mano della figlia. I due si guardarono senza dire altro.

 

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Adesso Marisa si trovava nella piccola sala d'aspetto dello studio del primario, dottor Resca. Non c'erano impiegate o assistenti. La porta l'aveva aperta il dottore stesso, dopo aver chiesto " chi è? " al citofono. Marisa se ne stava seduta su di un divanetto color senape. Davanti a lei si allungava alla parete una sobria libreria a scaffali in lacca bianca, colma di volumi. Svariati titoli, tutti di psichiatria o di psicoterapia; alcuni testi in tedesco e certamente antichi , poiché erano stati tutti rilegati a nuovo. In un angolo appariva un piccolo cavallo a dondolo in legno lucido. Sembrava proprio un cavallo a dondolo per bambini. Una zampina era spezzata e mostrava un piccolo troncone amputato. Marisa controllò ancora una volta se avesse con sé nella borsetta l'esito degli esami di neurologia nonché una lettera, in busta chiusa, del suo medico curante indirizzata all'illustre primario.
Mentre risistemava tutto nella borsetta, ecco aprirsi la porta opposta a quella d'ingresso ed apparire il medico.
Trattavasi di un uomo alto e robusto, di circa sessant'anni. Un ciuffo di capelli grigi sulla fronte, di quelli che nemmeno a pettinarli dieci volte al giorno intendono piegarsi e stare in ordine.
Indossava una maglia di cotone accollata, maniche lunghe e un paio di jeans azzurri. Nessun camice, né lungo né corto.
Le porse la mano sorridendo.. " Piacere, sono Andrea Resca... prego si accomodi", le disse in modo molto accogliente ed invitandola ad entrare in uno studiolo bene illuminato.
Era una stanza che avrebbe potuto ben essere collocata all'interno di un'abitazione privata, poiché non sembrava affatto uno studio medico. L'arredo era proprio quello di uno studiolo rintanato alla fine di un corridoio d'appartamento.
L'unica cosa un po' particolare, e che Marisa notò, era una specie di lettino, leggermente sollevato dalla parte del capo, con un plaid piegato alla sommità opposta.
Marisa rimase in piedi al centro della stanza, guardandosi attorno. " Scusi dottore, ma io non intendo stendermi là " - disse , indicando con il dito appena sollevato dal manico della borsetta, il lettino in pelle nera.
" Ma niente affatto, quello non è per lei - sorrise ancora più apertamente il medico - lei può sedersi qua su questa poltroncina, e io davanti a lei su quest'altra. Nessuna scrivania nel mezzo."
" Magari più avanti le chiederò a che cosa serve questo lettino" - rispose Marisa ben attenta però che il suo tono non risultasse scioccamente allusivo o comunque antipatico.
Il medico si era già seduto, allungando le gambe... sul tavolinetto a suo lato egli teneva a portata di mano una agenda e una penna, ma per il momento teneva le mani appoggiate ai braccioli. Le rivolgeva uno sguardo disinvolto e amichevole.
Senza attendere nessuna domanda, Marisa esordì " Dottore, sono qui perché altri medici mi hanno detto che avevo bisogno di un intervento specialistico del suo ramo, io però - mi scusi e non si offenda - non credo molto in questa psicoterapia, anche se in verità non so nemmeno bene in che cosa essa consista. Per ora posso dirle che non mi sento propensa a farla... non escludo che la mia sia una vera diffidenza... sento che si tratta di un gioco impari... Lei conosce dei metodi, delle tecniche, che io ignoro... io dovrei inconsapevolmente consegnarle il mio Io e lei dedurre chissà che..."
" Signorina, lei è libera di dirmi quello che pensa o crede, non c'è alcun problema da parte mia, tuttavia sarebbe meglio se lei mi cominciasse a spiegare di che cosa soffre, che cosa sente..." rispose il dottor Resca , aspirando rumorosamente e rimanendo sempre sorridente.
Marisa pensò a quante volte costui si era sentito dire da pazienti..." non credo molto in questa psicoterapia", " lei sa cose che io ignoro"... se non forse peggio... ella aveva sentito dire di pazienti che addirittura erano arrivati al punto di aggredire lo psicoterapeuta in corso di seduta!
A Marisa piacque il suggerimento del medico, che infondo la riportava alla scena più consona e a lei nota, ossia spiegare al medico che sintomi si avvertono. Questo era per lei già più normale e comprensibile.
Accomodandosi sulla poltroncina posta di fronte al dottor Resca, ben attenta a tenere le ginocchia unite ed il busto leggermente chino in avanti, Marisa cominciò a esporre la sua storia di paure e di grave insonnia, che la feriva da mesi. A suo dire tutto era iniziato a causa di una malattia cardiaca che le era stata diagnosticata con un nome del tutto inaccettabile per quegli anni in cui ogni malattia aveva una corretta individuazione dalla scienza medica. Un nome anche oscuro... Sindrome X... Purtroppo ella aveva patito molti attacchi improvvisi di questo male, che l'aveva colta in vari momenti della giornata, sempre più spesso e soprattutto quando si trovava il luoghi pubblici ed affollati o nell'imminenza di una qualche responsabilità lavorativa.
" Si figuri dottore che non riesco più a raggiungere il mio ufficio camminando speditamente una ventina di minuti, come ho sempre fatto. Vi arrivo per tappe, quattro per l'esattezza. E come raggiungo il posto-tappa, mi devo sedere, perché sono colta da sudori freddi e tremori.
Una di queste soste forzate, che mi sono imposta, è nella chiesa di Sant' Angelo, al mio paese. Entro, mi siedo sulla panca e aspetto almeno cinque minuti prima di riprendere il cammino. A volte, mentre mi trovo all'interno della chiesa, sono presa da una furiosa tachicardia che mi fa sentire il cuore in gola. Resto così, come uno straccio, fino a che non passa... ultimamente arrivavo in ritardo al lavoro quasi ogni giorno... anche se partivo da casa molto in anticipo, ma queste soste che faccio, lungo la strada, si prolungavano sempre più..."
Marisa si accorse che parlando guardava fissamente un piccolo bronzo che stava alle spalle del dottore, una statuetta lucente appoggiata ad una mensola. Un piccolo Ermes, con il classico cappello alato della mitologia. A Marisa sembrava che questa stesse spiccando il volo.
Fu un attimo ed improvvisamente ella avvertì un groppo alla gola, lo stringersi della gola come fosse presa da un foulard troppo annodato. Le lacrime le salirono agli occhi. Vide la fisionomia del dottore liquefatta nelle proprie lacrime che presero a cadere, tac tac, sul dorso della borsetta.
Scese un silenzio assoluto tra lei e il medico. Sembrava che nemmeno respirassero o meglio che i loro stessi respiri si evitassero, salendo ognuno in una contorta spirale distinta.
Marisa chinò il capo, vinta. Adesso quella maligna sonnolenza che la prendeva ogni giorno, come effetto delle gocce, era più che mai in agguato.
" Dottore, non posso proseguire... vorrei andarmene " disse Marisa quasi implorando.
Si accorse che il dottor Resca, sempre in silenzio, le stava porgendo dei fazzolettini di carta. Lei ne prese uno e vi soffiò con forza il naso.
" Mi scusi dottore..., ma quando parlo di me, in questa situazione, mi commuovo... io mi faccio pena..." riprese Marisa guardando per la prima volta il dottore in volto.
Lui la stava osservando con espressione ferma, ma non rigida. La guardava con occhio attento e partecipe, ma non faceva nulla per distogliere l'attenzione da lei. Sembrava volesse far capire a Marisa che il disagio che ella provava, in quel momento,. lo interessava moltissimo.
Seguirono altri minuti di silenzio. Ermes era sempre al suo posto, pronto a volare, ma condannato a restare ad un passo dall'aria. Chiusa sempre l'agenda sul tavolino. Marisa si accorse che il dottore non aveva preso un solo appunto, una sola nota, mentre ella parlava.
" Mi scusi dottore... ma lei non mi deve fare delle domande? "
" No signorina, io non faccio domande... lei può parlarmi di quello che desidera e che sente di voler esprimere... se io le facessi delle domande orienterei il suo dire.. imporrei una direzione, ma qua non ci sono binari... non c'è una conversazione... non per ora, almeno..." Le rispose il dottor Resca.
" Quindi io qui posso parlare di tutto... iniziare da qualsiasi cosa io senta nella mente?" chiese incuriosita Marisa. " E alla fine che cosa accadrà? "
Il dottor Resca giocò con il cappuccio della penna, aspirò rumorosamente e disse: " In effetti non lo so cosa accadrà... adesso è troppo presto... ma potrebbe capitare che da lei esca una persona nuova, una persona che vuole sentire diversamente, esprimersi in un altro modo... e starà a lei decidere allora cosa vorrà davvero essere..."
" Mi scusi dottore, lei è di formazione freudiana?... io so chi era Freud... mi scusi se glielo chiedo, non so se in queste sedute è previsto che si possano fare domande"
" Non propriamente - rispose ben disposto il dottor Resca - non sono totalmente un freudiano"
" Perché... vede... io sogno molto, anche se adesso ho preso questi psicofarmaci... sogno sì in quelle poche mezz'ore che riesco a catturare un barlume di sonno.. e me li ricordo pure, questi sogni... forse potrebbe interessare? "
" Potrebbe sì - rispose il medico - i sogni comunque durano pochissimo.. anche se a noi, quando ci siamo dentro , sembrano spesso interminabili..."
" Mi sento stanchissima dottore, mi sembra di aver fatto una fatica immane..."
" Non è escluso che lei abbia davvero fatto una fatica " commentò il medico un po' enigmatico.
" Mi scusi ancora, dottore, avrei dovuto farle vedere questi esami e questa lettera che mi hanno consegnato al reparto di neurologia dell'ospedale" , disse Marisa, ricordandosi delle buste che aveva nella borsetta.
Le cercò e si accorse che le sue lacrime erano scivolate dentro l'apertura.
Il medico guardò le carte, lesse per qualche minuto, prese l'agenda e veloce scrisse poche parole.
" Signorina, io credo che dovremmo vederci una volta a settimana per un po' di tempo... lei soffre di attacchi di panico... le dovrò anche prescrivere una cura... però è molto importante che cominciamo le sedute... una quarantina di minuti a seduta..."
" Per quanto tempo? " chiese Marisa, la quale dopo l'impeto del pianto si sentiva svuotata ed arrossata.
" Questo non glielo so dire... procediamo un poco alla volta... vedremo..."
" Siete strani medici, voi...- commentò Marisa con un leggero sorriso - non sapete quanto dura la cura..."
" Purtroppo non curiamo il corpo... e nemmeno a curare il corpo, v'è sempre certezza della durata della cura... Guardo l'agenda e le fisso un appuntamento già per la prossima settimana"
Il dottor Resca cominciò a sfogliare l'agenda e a controllare date.
" È molto bella quella statuina di Ermes che lei ha alle sue spalle , dottore.. molto ben fatta..." , si lasciò sfuggire Marisa. Si rese subito conto che la cosa detta era estranea all'argomento, ma tant'è... l'aveva detta.
" Ah quella - rispose il medico senza alzare il capo dal libriccino che stava consultando - me l'ha regalata un mio lontano paziente, dopo un lungo periodo di colloqui. Pensi... ha cominciato a lavorare il bronzo dopo essere stato da me... si è dato alla scultura e con molto successo, anche".
" Lei pensa che fosse guarito? " chiese Marisa.
" Guarito non so... ma di certo stava meglio "- concluse un po' faceto, il medico.
Il dottor Resca trasse da un cassetto un blocco su carta intestata e iniziò a scrivere come fanno quasi tutti i medici, un po' nervosamente.
" Signorina - disse alla fine -in questa ricetta c'è un primo farmaco che è bene iniziare subito a prendere, una goccia al giorno aumentando fino a quindici... non si aspetti nulla di immediato... non avvertirà alcun beneficio per giorni, ma continui a prenderlo... In questo biglietto invece - che ora metto in busta - ho scritto al suo medico di base... glielo faccia pervenire".
Le porse i due biglietti.
" Ci vediamo, se le può andar bene, giovedì alle 17. 00 " le propose il dottor Resca.
Marisa annuì con il capo e si alzò in piedi... pensò che non le faceva alcun effetto l'essere stata da quel medico... aveva parlato un po' di sé, aveva anche pianto... tutto vero sì... ma non percepiva alcunché di utile, di risolutivo... era quella la psicoterapia?... parlare di sé ad un medico che non faceva domande e che per di più appariva straordinariamente vago?

 

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Salutato il dottore, Marisa scese le scale del palazzo per raggiungere la strada. Avrebbe cercato immediatamente suo padre, lasciato al giardinetto del bar.
Marisa non poteva immaginare che, da quel giorno, ella avrebbe oltrepassato la soglia dello studio per circa due anni e mezzo; che i colloqui con il dottore le avrebbero lentamente tirato fuori qualche cosa della sua personalità che s'era assopito nella sofferenza e nell'abbandono ; che avrebbe narrato decine e decine di sogni in cui la protagonista era alla fine soltanto lei; che alla conclusione di ogni incontro, il dottor Resca avrebbe sempre commentato " andiamo avanti... vediamo cosa succede" come se egli stesse leggendo lentamente quel grande incommensurabile libro che era l'esistenza di Marisa e tutte le volte si aprisse un nuovo capitolo; che sarebbe arrivata una mattina in cui, per la prima volta dopo mesi, era riuscita a dormire sei ore di fila e che, finalmente, in una sera del mese di maggio, si sarebbe sentita dire dal dottore : " Signorina, a me sembra che lei stia molto ma molto bene... lei come si sente? " capendo così che iniziava per lei il momento del distacco da un uomo al quale aveva consegnato gran parte di sé, in forma di racconti interiori e lontani, dove appariva una Marisa ora bambina, ora adolescente, ora ragazza e adulta, sempre diversa eppure uguale. Tuttavia, ogni volta, sempre meno coperta di scorie. Marisa cominciò persino a cambiare gusto nell'abbigliamento, liberandosi di anonime gonne, modello preside, per vestirne di colorate, ed un pomeriggio, infine, decise drasticamente di cambiare pure pettinatura, con grande soddisfazione della parrucchiera.
Il giorno in cui venne stabilito che la terapia poteva essere interrotta, Marisa si presentò nello studiolo con un piccolo regalo. Era uscita da poco nelle librerie l'autobiografia di Jung, discepolo dissidente di Freud e Marisa aveva pensato di donare il libro al dottor Resca.
Questi dimostrò di gradire moltissimo il presente. Girava e rigirava il libro tra le mani, contento in viso. Dopo qualche parola di circostanza, Marisa si rese conto che non sapeva come congedarsi dal medico. " Allora, dottore, sembra che io non abbia più bisogno di lei... per ora ..." commentò all'atto di stringergli la mano.
Guardò per l'ultima volta lo studio in cui per tanti giorni s'era trovata a parlare al dottore, il quale l'ascoltava senza prendere appunti, ma che, ad ogni nuovo incontro, sapeva riepilogare alla perfezione dove " eravamo rimasti" ; il lettino di pelle nera che, alla fine, ella non era riuscita a capir bene a cosa servisse; il piccolo Ermes in bronzo che ogni tanto cambiava orientamento, a dimostrazione che una donna delle pulizie passava a spolverare.
Il dottor Resca, sempre nel suo abbigliamento casual e comode scarpe sformate, alto e robusto com'era, le ricambiò il sorriso, aggiungendo: " Marisa, guardi che lei ha fatto tutto da sola... se lo ricordi questo, lei ha voluto con tutte le sue forze uscire dal tunnel in cui era finita. Questo non se lo dimentichi. Perché questo è alla base di ogni risultato su di noi " - chiamandola per la prima volta con il suo nome.

 

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