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Cercare un'altra strada

Wad pensai. Che fonetizzato dall'arabo alle nostre lingue occidentali suona uadi.
Può essere un canalone, un canyon, può essere qualunque cosa assomigli a un Serengeti di anomalie ataviche alle nostre menti: memorie oggi abituate a porre limiti temporali al cervello onde far si che si salvi e non si frantumi.
Wad o uadi: a volte fossile. Non più fecondo.
Si rinviene nei deserti.
Sul fare di quella prima mattina avevo sognato, e quando mi risvegliai, il sogno (carne attaccata mortalmente ad una zaffata di argilla secca al sole di un mezzogiorno equatoriale) giaceva sul greto ancora palpitante, incerto. Subito dopo si scopriva come il povero animale fosse impossibilitato a drizzarsi di nuovo sulle gambe.
Avevo iniziato quel mio viaggio seguendo il martoriato itinerario di un branco di elefanti assetati e affamati, dai bordi di quella lingua della Namibia che s'inoltra nello Zambia e poi prosegue verso il nord alla ricerca delle inondazioni dei wad; improvvise e terrifiche: bagliori che iniziati in cielo serpeggiano fino a terra e sembrano contenere la volontà di spazzarla via.
Di cancellarne ogni traccia preesistente.
Atterrito dagli attacchi organizzati delle leonesse ai nati dei grandi pachidermi che non trovavano di meglio che rifugiarsi tra le zampe delle madri, anch'esse disorientate, mi ero trasformato, via via, da viaggiatore in un inseguitore di leoni.
Ma anche così definendomi, non renderei abbastanza l'idea; la miglior definizione che posso attribuire a questo mio personaggio è: ladro vendicatore. Volessi darvi un plus per meglio chiarire ciò che ero diventato, potrei dire vendicatore ladro di carne; per completare il ritratto, mi trovo ad integrare: brigante di carne: sottratta alle fauci dei leoni mentre stanno pasteggiando.
Perché questo stavo facendo dall'interruzione dei sogni precedenti, da quando li avevo affossati; da quando il sogno dell'unico ricordo aveva avuto inizio.
Mi stavo riscattando: da raccoglitore a pacifico pastore, da nomade pacifico a Robin Hood.
Espletavo coscienziosamente questi miei passaggi scovando con pazienza infinita dove s'erano andati ad annidare i carnefici trascinando con se le vittime. In genere si trattava di un boschetto o una folta serie di arbusti tra i quali, riparato e all'ombra, si trovava il maschio solitario che aveva strappato alle zanne delle femmine la parte più succosa della bestia uccisa: le viscere e la parte posteriore.
Indovinato il nascondiglio, mi avvicinavo con la massima accortezza tenendomi sottovento, guardandomi sempre alle spalle.
Le primissime volte, accertatomi che fosse veramente rimasto solo e si fosse a sufficienza saziato, puntando all'improvviso verso di lui, avevo tenuto diretta alla sua aorta la corta lancia con la punta di selce per infilzarlo in quel punto nevralgico appena avesse reagito ai miei strappi, perché era questo che ero determinato a fare, rubargli ciò che aveva rubato ed anche mangiare e dissetarmi, ovviamente a sue spese. Poi l'esperienza mi aveva insegnato che il massimo delle probabilità di successo non dipendeva tanto dalla punta della lancia, ma nell'osservazione attenta dei suoi impulsi e delle sue difese e, naturalmente, tempi, direzione e determinazione con i quali io stesso agivo.
Comunque, non ho mai voluto offrire ai suoi occhi le mie parti molli. Sempre tenuto coperto il pube intero con quel cappuccio rigido di corno che è una mia tradizione tribale. Ad evitare sorprese da parte del leone che volesse, provocato dalla rapina, a sua volta rifarsi.
L'elefantessa che guidava il gruppo, uno stupendo maestoso esemplare dai corni giallo antico, nonostante le avversità incontrate nell'interminabile tragitto, le umiliazioni e le sottrazioni dei felini e delle iene, la fame e la sete, era riuscita, ricorrendo unicamente alla propria memoria, facendo fronte anche agli sbalzi di umore di Jack lo Squartatore, l'unico maschio notevolmente più grosso di lei che viveva isolato e talvolta si precipitava con foga perlomeno irruenta, inusitatamente, barrendo e con la proboscide alzata, verso femmine e maschi facendo il vuoto e sottomettendo tutto finché la sua follia non fosse scemata, era riuscita, dicevo, a raggiungere per tre volte piccole paludi in procinto di disseccarsi, ma nelle quali i compagni di viaggio s'erano almeno potuti sdraiare e spruzzarsi qualche getto non facendosi intimorire dai coccodrilli che le infestavano, le femmine adulte formando attorno ai piccoli posti al centro, una valida cintura di protezione.
Eravamo finalmente giunti alle ultime propaggini della Nigeria. E pareva che tutti i componenti del branco sapessero che, di là, si sarebbero stesi gli orizzonti delle sterminate pianure verdi del Serengeti, gli alberi cui strusciarsi le schiene e cibarsi dei germogli, le impagabili esondazioni dei wad riportati alla vita dalle piogge battenti, insondabili come i misteri delle divinità egizie più su, dei grandi laghi e fiumi dell'Africa, dei luoghi da cui, in tempi immemorabili, partimmo.
C'era solo un ostacolo in questa marcia che avrebbe dovuto rivelarsi trionfale.

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