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Il teatro dell'Assurdo

Teatro dell’Assurdo
 
Orogenesi
Non so dove sono nato, se in fondo o in cima alla piazza.
Solo mia madre era con me quando uscii ad urlare. Ma non lo ricordo.
Tutto come essere nati da un buco nero. Da allora aver viaggiato ininterrottamente.
 
I primi ricordi sono confusi: che ero stato adagiato nel letto grande al primo piano, una soffitta in legno cui si accedeva in modo ripido; insieme a lei, a mio fratello Maurizio, di tre quasi anni più grande; che il mio capo, la notte, era tempestato da incubi.
Sognavo di continuare a cadere continuamente. Sotto di me incontravo solo cose tonde, delle specie di macigni informi /dei pianeti volteggianti e mi spaventavo.
Mio padre, un gigante di 1,90 con i capelli biondo grigi, lisci, gli occhi ugualmente grigi forse e dolci, era assente. Forse sarebbe tornato, forse no. Non conoscevo nessuno.
Quella casetta, sulle Fosse, di fianco al palazzo comunale sulla piazza, dove mi avevano portato, era il luogo dove avevo i miei incubi.
Sulla finestra egli, una volta tornato, appese un grillo in una gabbietta bianca per tenermi compagnia.
Ascoltavo suonare una fisarmonica cieca, sui gradini della calinata dei portici.
In cucina mangiavo le pappe di riso di mia madre con, seduto sui piedi a riscaldarmeli, un enorme gatto nero. L'unico che mi facesse veramente festa insieme alla musica.
 Ero nato immediatamente con l’enterite. La pancia gonfia e le gambe storte
Allora non c'erano auto sulle strade di un paese.
Le prime volte che riuscii ad uscire e camminare, mangiavo, raccogliendoli per le strade della piazza, i lupini o le bucce dei lupini, facendone delle scorpacciate.
Ero tenuto per mano da Maurizio, che mi strattonava continuamente, lamentandosi.
Poi ci fu un giorno in cui partimmo da questo asilo dorato. Fatto di crine, lane e materassi spioventi sulle Fosse.
Un camioncino americano, un Dodge? in cui erano stati addossati tre materassi e due reti.
Mia madre volle fermarsi in un vicolo, davanti alle suore. Le riempirono, piangendo, le mani di biscotti al cioccolato.
Nel pomeriggio tardi arrivammo a destinazione. Un cancello di ferro aperto di fonte a me, un cortile, ed un viale di ghiaino..
In fondo al viale mio padre che si sbracciava.
Presi la rincorsa e mi lanciai.
Arrivai fino al gradino, ad abbracciarlo, e caddi sanguinando.
Iniziai a piangere.
 
Galeata, così si chiamava quel luogo, è stato un muro del pianto.
Finchè non partii da quel luogo, dai tre anni di seguito fino ai 17, vi sono stato chiamato per cognome.
Il motivo dipende dal fatto che mio padre, prima che nascessi, era stato fatto “prigioniero” e consegnato dai partigiani del suo paese agli americani; da questi esiliato su di un'isola, mi pare di Santo Stefano.
Quasi per punizione, ora gli era stato affidato il compito di custode del piccolissimo carcere mantamentale e di dattilografo.
A Galeata erano tutti partigiani eccettuato Nino, il barbiere e il medico condotto, ed io venivo chiamato per cognome, come mio padre, sia all'asilo dove mi sputavano nella minestra in brodo e prendevo botte dai più grandi, sia per strada che a fare i bagni al fiume o a giocare a palla.
Mia madre, per consolarmi, mi portava la sera, alla Fontana Nuova, a bere la magnesia Brioschi sotto la fonte gelida.
In quei brevi tragitti si lamentava di mio padre, che nel trattempo, da magro com'era, si stava ingrassando.
Da luglio alla fine di agosto, mio padre ci mandava da sua suocera Maria, che nel frattempo, da un appartamento, era passata a gestire l'Hothel Europa all'inizio di viale Bengasi.
Mia madre, aiutava in cucina, cui si accedeva scendendo qualche gradino, insieme alla sorella Emilia e alla cognata Gemmna. Al mattino, fatte le colazioni per i “tedeschi” le 4 donne si trasferivano a far loro le camere.
A volte, raramente veniva a trovarci mio padre.
Al mare egli pareva più magro, probabilmente per l'altezza ed era certamte un bell'uomo.
Sta il fatto, che una di quelle turiste lo prese in simpatia.
Forse, in uno dei corridoi che portavano alle camere, i due ebbero a dirsi qualcosa.
La Cesira, mia madre, una donna dolce, piccola e grassottella, non se lo scordò mai più.

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