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Stavamo rimanendo soli

Stavamo rimanendo soli, Rosa ed io.
Nella Valguarnera, nella campagna più assolata della Sicilia.
 
Ora che il barone era morto, ci visitava a volte, il marito di una sua figlia.
Veniva a prendere i formaggi della ventina di pecore lasciateci in dotazione e per per fare colazione con la ricotta salata.
Rosa la stava schiumando raccogliendola con la schiumarola; gliela mise nel piatto.
Ero rimasto sul piazzale dove aveva lasciato l'auto e li guardavo oltre i battenti.
Quel mattino ero tornato a casa dal pascolo, felice di riportare a casa 6 agnellini in più.
Li avevo rinchiusi nel recinto dietro il piazzale, con il montone e le femmine ed avevo chiuso anche il recinto all'aperto.
Mia madre era appena rimasta vedova, mio padre era morto, e quella sera lei mi aveva fatto posto in casa invece che nella stalla.
Nessuno era stato avvertito.
Puzzava nello stesso modo della Nera. La pecora che, quell'estate, mi aveva risvegliato.
Rosa aveva più baffi della Nera; perlomeno più grigi, più peluria sulle guance e denti taglienti e storti. Ma, non essendo troppo più vecchia di mio padre, li aveva ancora tutti, tranne due.
Rise a quello che sarebbe stato il suo nuovo padrone di Piazza Armerina, che le fece cenno di dargli, per mangiare, un cucchiaio di legno. Egli volle vedere i formaggi sulle due assi in camera e se ne fece dare una decina. Ai padroni spettavano, sempre, i due terzi del totale.
Nel pagliericcio, la notte, mi ero appoggiato alla schiena di Rosa, ed avevamo dormito così, come ai vecchi tempi. Solo all'alba avevo cercato piano di sollevarle la veste alle ginocchia, ma mia madre, disturbata nel sonno, mi aveva dato uno spintone con un gomito e buttato quasi fuori dal pagliericcio.
Avevo sorriso ed ero stato tentato di andare nella stalla ad appoggiarmi alla Nera, ma il pensiero del birro e degli ovetti di quegli ovini mi avevano trattenuto.
Parlavo nella mia esperienza. Mi sarebbe tornato desiderio, dopo mezzogiorno. E poi, la sera, le notti, le albe dopo.
L'uomo mi fece cenno di aprigli il bagagliaio dell'auto e di avvolgere la decina di pecorini della paglia. Doveva ripartire.
Era mio obbligo assisterlo in ogni suo desiderio. Diede un manata che risuonò sulle chiappe di Rosa e salì in macchina.
Mia madre mise un secondo piatto di stagno sul tavolaccio e un pane. Attendemmo che l'uomo lasciasse l'aia.
Io, seduto, cominciai a sboccocellare le molliche e Rosa mi riempì di ricotta liquida il piatto.
Sotto il pantalone ero ridiventato duro come all'alba, ma Rosa, indaffarata, continuò a schiumare nel pentolone. Non erano fatti che le interessassero.
Il montone, una ad una, nella capanna adibita a stalla, stava odorando le pecore. La Nera era nel mezzo del gregge. Cercai di allontanarla e portarla in disparte, ma il giovane maremmano mi seguì. Lo allontanai a calci. Non era ora di giocare.
Abbrancai la Nera e, poi, la Bianca e cercai di farle cadere vicine all'ultimo steccato, ma Rosa urlò che il padrone stava tornando.
Mi tirai in piedi e allacciai il cordone.
Le due pecore corsero di nuovo in mezzo al gregge.
L'uomo scese di nuovo dall'auto. Era paonazzo in volto ed imprecava. Nel viottolo una selce gli aveva tagliato una ruota.
Fortuna volle che quella di scorta sotto i formaggi fosse gonfia.
La donna non ne capiva, e nemmeno lui,il nuovo barone. Toccava a me smontarla; a me rimontarla. E caricare la bucata di nuovo nel portabagagli.
Con il cric, ci misi all'incirca due ore, tra smontaggio e rimontaggio.
Il genero del barone morto passò sul pagliericcio, a riposarsi. Tirò la tenda. Mia madre, la sua bracciante, non lo interessava minimamente.
Quando ebbi finito, per farglielo comprendere, rimisi in moto la macchina girando la chiave nel cruscotto, dopo esserrmi accertato che la leva del cambio fosse in folle.
Egli comprese di aver dormito per due ore almeno, e venne sulla porta.
Chiese a Rosa di riempirgli metà almeno dei cannerizzi di ricotta, i primi fatti la notte prima, e la mattina presto, che così non avrebbero scolato, o molto meno, di procurargli dei cartoni, e risalì in auto, tenendo lo sportello aperto.
A mia madre, che lo aveva seguito sulla porta, mi accorsi, non stava crescendo il gozzo, così come era cresciuto a mio padre quelle due estati.
Beata lei.
 
Il giorno prima, appena tornato dal pascolo, era riuscita a fare del primo sale, che aveva tenuto ben nascosto dall'occhio dei baroni: in una capanna in salita al limitare di un piccolo campo, molto prima di entrare nell'aia, dove custodivamo due tre rudimentali attrezzi agricoli in ferro e legno.
Tra un'ora si sarebbe fatto mezzogiorno. L'ora del riposo. Vi accennò con gli occhi. Accennò allo zenith del sole ed io capii.
Andai nella stalla, rovistai nella paglia, nella buca scavata nel terreno sotto le bianche, e tornai con il primo sale che vi avevo sotterrato. Era già formato, indurito.
Lo raccolsi tenendolo tra le dita e tornai alla tavola.
“ Buone queste erbe.” Disse Rosa.
“ Profumate.” Dissi io.
Rosa assentì.
Sarebbe di certo avvenuto un passaggio generazionale, ma non sapeva quando, come, dove. O se.
Ero maturato almeno un semestre prima di quanto lei si aspettasse. Il vecchio era stato sepolto, venti giorni orsono. Sotto il carrubo. Da sola, lo aveva sotterrato.
“Ecchè vuole chistu?” Si era chiesta.
Sapeva come succede. Era stata anche lei una pastorella. Niente di nuovo sulla Terra, sotto il Sole.
Tagliai le due sottili fettine e gliene allungai una.
Mentre lo avvicinava alle narici, Rosa vi sentì il sapore dell'origano dei prati e quello dell'angelica, e del mirto della siepe e del ginepro. Annusò di nuovo.
“ Nun è...”
Ora sentiva più chiaramente.
“ Buttale...”
“ Ma che vai dicenn...?”
“ Buttale...!”
Odorai il primo sale che avevo in mano. Odorai la lama del serramanico.
“ Chistu ...”
Simultaneamente gettammo le fette del formaggio ed il pane sul tavolaccio sul pavimento. Ce ne disfacemmo.
Era il pane ad essere avvelenato dalla segale selvatica capitatavi in mezzo.
“ Fatte ieri...”
Il genero del barone, in camera, se n'era accorto; aveva sfondato il sacco della segale sotto il pagliericcio con il serramanico. Poi, ancora non fidandosi della donna, quel sacco l'aveva lasciato sull'aia, dietro il recinto della stalla.
Tutto era successo per colpa di mio padre, moribondo, salito al campo della segale nonostante l'ultimo attacco di malaria.
Mio padre. Prima di morire, avrebbe voluto lasciare al vecchio padrone, ritenuto ingannato per una vita, il sacco rabboccato fino all'orlo.
 
“ U cane...”
“ Che ha fatte u cane...? “ Nun tieni famme?
“ Giocava...m'ha fatte ribaltà...”
Rosa. “ Poi u padrone...a ruota...ma verament?
“ Tenghe sonne si. No...”
" A stu pari tuo c'era venuto u gozz..tante...!
" Mmmh...a malaria. U mangiari."
Anche Rosa stava giocando. Ed anch'io. Il gregge, quando le pecore si perdevano...e non stavano più unite...
Non avevo più fame. Riuscivo solo a fissare la tenda divisoria.
" Rosa..."
" Che vuoi? Dimane ammuninn u camp. Qua, co a ricotta, è furnuto...Tri acri e...in salita...
" Porte a zucca...?
" Ecchè? Acqua, vino ? L'acqua ce scenne tant è dirupate..."
"  Se fatica finalmen...!"
" Vuoi durmi?"
" Un quarte"
" Vacce...!"
" Tu?"
" Ie furnusce..."
Rosa finì di faticare il mattino dopo, alle otto quasi.
Alle dieci circa, mi raggiunse al campo dell'agrumeto, già dissodato quasi alla metà di un quarto. Coltivato a porche, servendosi solo del sotterramento delle acacie. 
Questa era la volontà dei baroni, che producevano per se stessi ed i parenti.
Sopra l'agrumeto il padre del primo barone, Martino, di persona, una volta datogli in eredità, aveva eretto due capanne di fango e canne.

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