U' zi' Peppì Tararà | Prosa e racconti | Ignazio Amico | Rosso Venexiano -Sito e blog per scrivere e pubblicare online poesie, racconti / condividere foto e grafica

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U' zi' Peppì Tararà

Il simpatico quanto bizzarro personaggio che passo a presentarvi, mi crediate o no, la notte appena trascorsa è entrato nei miei sogni. Era proprio lui, zi' Peppi Tararà, come l'ho conosciuto negli anni della mia fanciullezza: alto, capelli grigi, età sui sessanta anni, magro e trasandato nel vestire, occhi vivaci ed un pizzetto che amava definire "l'onor del mento", frase altisonante certamente non sua.
Era seduto davanti all'uscio di casa, con le gambe a cavalcioni, come se aspettasse qualcuno. Vistomi passare sulla strada, mi chiamò con un cenno della mano e volle sapere a quale famiglia appartenessi, concludendo che conosceva mio padre ed era stato molto amico del mio defunto nonno materno. Aveva stampato sul volto un certo sorriso beffardo, direi malizioso, che subito tradusse in questa domanda: "ho saputo che in un tuo racconto vuoi parlare di me; ma mi conosci abbastanza, sarai all'altezza del compito? Vedi che ne ho combinate nella mia vita e se vorrai scriverne anche solo in parte, avrai bisogno di molta carta. Scoppiò allora in una fragorosa risata, mettendo in mostra la sua bocca sdentata e, senza aspettare risposta ,rientrò in casa sottraendosi alla mia vista.
     Sono piuttosto restio a credere in certe cose, sogni premonitori, messaggi dall'aldilà, spiriti vaganti, ma trattandosi di un essere balzano, che in vita una ne faceva e cento ne pensava, "non si sa mai - ho pensato - meglio mettersi al riparo, levarsi questo pensiero e raccontare di Tararà, sperando che, così omaggiato, riposi nella sua tomba, come io nel mio letto".
     Sposato, era padre di ben undici figli ai quasi aveva imposto  nomi tutti presi dalle pagine del Vecchio Testamento: Abramo, Isacco, Giacobbe, Eva e via dicendo furono gli appellativi un po' scomodi quanto stravaganti che quei ragazzi dovettero portarsi addosso, non perché si trattasse di una famiglia di origine ebraica, ma solo perché il padre voleva sentirsi fra loro un patriarca di indiscussa autorità.
     La famiglia viveva assembrata in due stanzette al piano terra sulla strada principale del paese, una per  i genitori e l'altra riservata ai figli, che vi dormivano su un unico, enorme pagliericcio disteso sul pavimento, con i piedi allineati e rivolti verso la stessa direzione, per consentire alla madre, tutte le sere, un rapido controllo della presenza di tutti, attraverso la conta delle estremità. Almeno in questo modo si evitava di rievocare ben undici personaggi biblici ogni volta che si andava a dormire.
     Per sfamare una simile ciurma, fra l'altro dotata di robusto appetito, il padre si industriava fra tanti mestieri  umili e poco redditizi e tutto gli si poteva rimproverare meno che non facesse le umane e le divine cose per non fare mancare il necessario alla famiglia. L'attività fissa e diciamo principale era quella di sacrestano presso la chiesa madre del paese, lavoro che aveva ereditato dal padre e che aveva iniziato a praticare fin da ragazzo. Di quella chiesa era la memoria storica, rappresentava la continuità nel susseguirsi dei vari arcipreti e cappellani, se ne sentiva il custode, il padrone e, dato il suo caratterino piuttosto facile all'ira, tutti ne riconoscevano l'autorità ed evitavano di contraddirlo.
     Per tale attività non riceveva uno stipendio fisso dalla chiesa, ma partecipava alla spartizione col parroco delle elemosine e delle offerte per l'uso delle sedie da parte dei fedeli durante le funzioni religiose. Soprattutto la domenica e nei giorni festivi, quando si celebravano nel corso della giornata ben cinque messe e la gente gremiva la chiesa, nessuno lesinava una seppure piccola offerta, anche perché il sacrestano, col suo vassoio nelle mani, si piantava risoluto davanti ad ognuno e non si spostava di un centimetro se prima non avesse visto una moneta  posarsi sul piatto.
     C'erano poi le nobildonne del paese, mogli di professionisti e gente molto in vista, alle quali zi' Peppi riservava i primi posti, quelli più vicini all'altare ed i soli che egli spolverava, non tanto per galanteria, quanto perché da quelle eleganti signore veniva posata sul vassoio non una misera moneta ma un più serio biglietto di banca.
     Fino al momento della conta e spartizione del denaro, che coincideva con la fine dell'ultima messa, la cassa era tenuta dal sacrestano, al quale sembrava più che legittimo e naturale distrarne una buona parte dalla tasca della giacca che fungeva da deposito comune, a quella dei pantaloni di sua esclusiva disponibilità. Erano puntualmente le banconote del ceto alto a subire questo trasferimento, ritenendo il nostro amico che fossero un personale regalo a lui rivolto, per le premure e gentilezze offerte.
     Al momento del resoconto di fine giornata, avreste visto in sacrestia sempre la solita scenetta: il parroco ed il nostro uomo seduti l'uno di fronte all'altro, la tasca della giacchetta, solo quella, che si svuotava delle sue monete e lasciava penzolare la fodera, il prete che contava e disponeva i soldini l'uno sull'altro a piccole pile, per poi procedere alla spartizione: due terzi la chiesa ed un terzo l'inserviente. Entrambi avevano dipinto sul volto un certo sorriso, ma per motivi opposti: il sacerdote perché era più che sicuro che quel furbacchione, che ora gli mostrava la tasca vuota, la sua brava cresta sulle entrate l'aveva già realizzata, l'altro perché aveva ancora una volta fatto giustizia di quella ripartizione che da sempre aveva ritenuto iniqua ed arbitraria; il suo non era un furto ma un pareggiare di conti, quello che oggi si direbbe un prelievo proletario. E d'altra parte, cosa poteva fare il parroco se non far finta di niente e sorridere?
     La sola volta che aveva tentato un espediente per levare al sacrestano ogni tentazione, dandogli per la raccolta delle offerte una cassettina con la fessura sul coperchio e chiusa a chiave in precedenza, il santo uomo si era ritrovato davanti una belva impazzita, una furia scatenata che pretendeva soddisfazione per  l'offesa alla sua onestà ed onorabilità.
     E seduta stante, cosa ti escogita il fantasioso Tararà per vendicarsi dell'oltraggio?  Apre non visto l'armadio dei paramenti sacri dove si conservavano anche le due ampolle per la consacrazione, beve d'un sorso il vino contenuto in una di esse e lo sostituisce con aceto, quello che di solito serviva per lucidare i candelabri in bronzo dell'altare.
     Dalla faccia compunta del sacrestano il parroco non ebbe alcun sospetto quando, alla prima messa, gli porse il calice per averne vino ed acqua. L'amara sorpresa l'ebbe solo al momento della comunione, allorché trangugiò d'un sorso, com'era solito fare, quel liquido che gli mozzò il respiro, gli fece strabuzzare gli occhi ed esplodere una tosse incontenibile.
     Zi' Peppi non si scompose, assaporava la sua vendetta e per dare sfogo alla sua soddisfazione, si rinchiuse nella torre campanaria, afferrò le corde e suonò a distesa.
     Gli insegnamenti del padre, la lunga esperienza maturata ed un innato talento avevano fatto di lui un campanaro di grande fama: quando suonavano le campane della chiesa madre si sentiva il tocco di un artista, che sapeva magistralmente imprimere a quei bronzi accenti di gioia, di mestizia, di devozione, a seconda delle circostanze. I campanari delle altre chiese gli riconoscevano un primato di cui egli andava fiero, fino al punto che, nelle feste come Pasqua e Natale, quando a mezzanotte si scioglieva il suono di tutte le campane, era indiscussa consuetudine  che fosse lui a dare il via ai batacchi, seguito a ruota da tutti gli altri.
    I magri introiti delle offerte non sarebbero bastate per sfamare una famiglia di tante bocche e Tararà trovava il modo di arrotondare i propri guadagni impegnandosi al massimo delle sue capacità.
     Possedeva da tempo immemorabile, proveniente chissà da dove, tutto l'apparato per addobbare le chiese del paese in ogni circostanza. Erano grossi rotoli di pannelli ricavati da fogli di carta sovrapposti a strati ed incollati, sui quali mani di artista avevano dipinto ad olio scenari architettonici classicheggianti. Tali elementi, srotolati, accostati l'uno all'altro ed inchiodati su robuste intelaiature in legno che, venivano issate fino al soffitto a mezzo di corde e carrucole, componevano uno scenario di notevole effetto, che chiudeva alla vista il presbiterio, coprendolo con un fondale adatto alla circostanza. Particolarmente suggestivo era quello che si allestiva in occasione di funerali importanti, realizzato nei vari toni del grigio, con angeli piangenti e teorie di putti addolorati.  Chiamato "talamo", cioè letto , era un suggestivo sfondo al catafalco che reggeva la bara, un vero colpo d'occhio per chi entrava in chiesa, le cui colonne laterali erano  listate da drappi neri che dall'alto del cornicione scendevano fino al pavimento. Nella preparazione dell'addobbo, cosa piuttosto laboriosa, partecipava tutta la famiglia di zi' Peppi; ognuno aveva un preciso compito e tutti  erano consapevoli che  da quel lavoro sarebbe derivato un guadagno extra di qualche entità.
     Avvenne un giorno che il vescovo, venuto da Agrigento per officiare un funerale solenne, espresse parole di disapprovazione per tutto quell'apparato sontuoso messo su dal sacrestano: era roba ormai superata, grossolana, che creava inopportuna visibilità ed ostentazione in chi aveva denaro per pagarsi quel lusso e mortificante discriminazione per chi ai propri cari defunti non poteva offrire tanto. Tararà non gradì, si infuriò e fuori di testa concepì subito la sua vendetta. Durante l'omelia del prelato, con un affilato coltello tagliò netto le due corde che tenevano appesa al tetto tutta l'intelaiatura ed i cui capi estremi erano legati alla balaustra di marmo del coro. In un fragore indescrivibile e fra il terrore dei presenti, tutto rovinò pesantemente a terra, abbattendosi sul catafalco in una scena apocalittica.
     Roba da codice penale, ma il sacrestano rimase al suo posto ed i suoi talami videro ancora a lungo i loro momenti di gloria.
     Era consuetudine al mio paese, in occasione di eventi luttuosi, portare la salma in chiesa di sera tardi, per la messa funebre che si sarebbe celebrata l'indomani mattina. Il feretro veniva depositato il un piccolo locale attiguo alla chiesa e con essa comunicante. Là si organizzava la veglia funebre notturna, ma capitava che qualche famiglia delegasse l'incombenza al sacrestano, il quale, dietro adeguato compenso, si offriva di trascorrere la notte in compagnia, si fa per dire, del defunto. In tal caso all'eroico assistente si portava l'occorrente per una lauta cena a base di carne, uova e formaggio, completata da una fiasca di vino ed un termos di bollente caffè. Il Tararà non era minimamente sfiorato dall' idea di  trascorrere la notte fuori dal proprio letto e, subito dopo l'arrivo delle vettovaglie ed aver assicurato ai parenti in lutto la propria scrupolosa assistenza, si affrettava a tornare in famiglia, per consumare con i suoi tutto quel ben di dio. Prima di chiudere la porta del deposito, si faceva il segno della croce in segno di rispettoso saluto e mormorava al defunto: "io vado a casa, ma se dovesse occorrerti qualcosa, non hai che da chiamarmi".
     Dove trovare un altra persona dotata di tanta compitezza ed abnegazione? Era molto servizievole con tutti, sempre pronto a dare una mano a chi ne avesse bisogno. Una vecchietta voleva offrire un lumino o una candela al suo santo protettore? Una piccola offerta e subito splendeva una vivace fiammella, prontamente spenta appena la devota fosse uscita dalla chiesa. Capitava così che lo stesso cero, che zi' Peppi rivendeva come nuovo dopo avergli rifatto la punta col suo temperino, venisse pagato e commercializzato un numero indefinito di volte.
     Ma guai a contraddirlo o ad urtare la sua suscettibilità: le sue erano reazioni sempre in eccesso, partorite da una fantasia senza pari.
     La sorte aveva voluto che sul piano sovrastante la sua casa, vivesse un signore molto facoltoso, che tutti chiamavano "cavaliere". Questi possedeva un'automobile, una Isotta Fraschini, che, nonostante avesse uno spazioso garage, si ostinava a parcheggiare proprio davanti alla porta del nostro amico. Per chi amava sedersi sul marciapiedi antistante la propria casa, per vedere passare la gente, quell'ingombro della vista appariva come un sopruso, una provocazione.  E poiché le preghiere prima e le proteste dopo del povero inquilino dei piani bassi erano risultati vani, cosa ti escogita quella mente fervida?  A notte fonda, quando la strada era deserta, un'ombra si avvicinò alla macchina con una grossa patata in mano e girandola con forza contro il terminale della marmitta, ne fece un tappo perfetto che fece scomparire all'interno del tubo metallico.
     Al mattino seguente il cavaliere ebbe un bel da fare a cercare di accendere il motore e, non essendoci riuscito, dovette subire l'onta di vedere trainare la propria fiammante auto da un mulo, verso la più prossima officina.
     Da quel giorno fu come avere piantato un bel divieto di sosta in quel punto della strada.
     Altro problema che infastidiva non poco zi' Peppi era di essere svegliato puntualmente alle quattro del mattino da un contadino che a dorso di mulo passava sulla strada per recarsi in campagna, cantando stornelli a squarciagola.
     E chi si credeva di essere quel burino, il padrone della strada? E la brava gente che voleva riposare ed in pieno sonno veniva svegliata da chi a quell'ora trovava la voglia di gorgheggiare?
     Una mattina Tararà, nudo come un verme e la faccia dipinta di nerofumo, si appostò su di un muretto, accanto al quale sapeva sarebbe passato il tenore della notte. Quando questi gli fu vicino, spiccò un salto felino sulla groppa del mulo, alle spalle dl contadino ed abbracciandolo stretto gli sussurrò all'orecchio con voce cavernosa: "Da domani cambia strada o ti porterò con me all'inferno". Il malcapitato, preso alla sprovvista in quel buio pesto, con quel corpo nudo e peloso che lo teneva stretto, quell'avvertimento terrificante, fu colto dal panico, gridò con voce strozzata chiedendo aiuto, scese dalla cavalcatura e si diede a fuga precipitosa, convinto di avere incontrato il demonio.
     Il problema era definitivamente risolto ed il sacrestano poté di nuovo assaporare il gusto del sonno fino alla  consueta ora del suo risveglio.
     Spirito libero ed incapace di sopportare soprusi, il nostro protagonista non ne perdonava una a nessuno, doveva subito pareggiare il conto.
     L'anziano parroco della sua chiesa, tutte le mattine, non potendo fare colazione prima di uscire di casa, per l'obbligo del digiuno eucaristico, si portava in parrocchia un termos di caffellatte ben caldo ed un po' di buoni biscotti fatti in casa. Finita la messa, apriva le due ante di un armadio della sacrestia ed in piedi, con la testa per metà infilata nel mobile per non essere visto e servendosi come appoggio di un ripiano ad altezza delle spalle, consumava il primo pasto della giornata. Mai una volta che si fosse degnato di offrire un biscotto o un goccio di caffellatte al sacrestano, nemmeno in quelle mattinate invernali in cui il freddo, in assoluta mancanza di riscaldamento, era davvero insopportabile. L'odore di quei biscotti, poi, si diffondeva nell'aria quasi come una provocazione.
     Aguzzando l'ingegno ed a furia di provare e riprovare tutte le chiavi che gli capitassero per le mani, il vendicatore solitario riuscì a trovarne una che apriva quell'armadio, consentendogli di mettere le mani sulla colazione del prete. Poté così ogni mattina, mentre l'ignaro parroco era impegnato nell'officio della messa, sorbirsi una mezza tazza di  caldo cappuccino e qualche volta intingervi anche un biscotto, quando, uno fra tanti, non potesse creare sospetti. La bevanda sottratta veniva regolarmente rimpiazzata con acqua di rubinetto, così da ricolmare il termos del liquido sottratto.
     Ma l'inesorabile tempo scorreva anche per zi' Peppi, che, appesantito dagli anni, certe incombenze non poteva più gestirle e si serviva sempre più dell'aiuto  dell'ultimo dei suoi figli, che, in cuor suo, era sicuro che lo avrebbe un giorno rimpiazzato nel ruolo di factotum della chiesa madre.
     Da tre generazioni, la famiglia Tararà era titolare di un privilegio molto ambito e prestigioso. Era un compito che si esercitava una volta all'anno, la domenica di Pasqua a mezzogiorno in punto, sulla via principale del paese, quando si  svolgeva l'incontro tra la statua del Cristo risorto e trionfante e la Madonna  vestita di azzurro ed adornata dei suoi gioielli. Le due figure, fra ali di popolo, venivano disposte ai due estremi della lunga strada, l'una rivolta verso l'altra e portate a spalla da uomini che se ne tramandavano il diritto da padre in figlio. Allo squillare del campanello agitato da un cerimoniere, le statue iniziavano la corsa per incontrarsi a metà della strada e quando erano già ad un passo l'una dall'altra, da sotto la statua della Vergine qualcuno manovrava un paletto che consentiva alla Madonna di inginocchiarsi ai piedi del Risorto, allargando altresì le braccia in un commovente amplesso. Quel qualcuno che doveva correre sotto la veste della Madonna e fare scattare il congegno era proprio il Tararà, il quale aveva assolto tale compito per gran parte della sua vita. Ma divenuto vecchio e non più in grado di tenere il passo dei portatori, era stato un giorno sostituito dal rampollo di una famiglia in vista, che da tempo aspirava all'incarico. Per  il povero uomo fu un colpo basso, anche perché riteneva che a succedergli avesse diritto un suo familiare.
     Deciso a dare una lezione a chi gli aveva fatto quel torto, all'approssimasti della Pasqua, nel locale della chiesa dove si conservava la statua della Vergine, zi' Peppi si infilò per l'ultima volta sotto il manto azzurro, per piantare un grosso chiodo e bloccare quel paletto.
     La domenica di Pasqua, le conseguenze di quel gesto furono disastrose: la corsa sfrenata, l'incontro, il paletto che non scorre, la Madonna che non si abbassa e  non può schivare il tremendo impatto con il braccio del Cristo proteso in avanti nell'atto di benedire. Trattandosi di statue di carta pesta, si vide allora volare via la testa della Vergine e sbriciolarsi il braccio del Risorto. Molti risero, altri piansero, qualcuno ne trasse funesti presagi.
     Il segno era stato superato e l'arciprete prese la decisione irremovibile di licenziare il vecchio sacrestano e mettere al suo posto un giovane dotato di energia ma soprattutto di carattere mite e remissivo.
     Zi' Peppi, terza generazione di fedeli servitori della chiesa, non si aspettava questo atto di ingratitudine ed in preda alla  collera, fece portare dai figli sul sagrato tutti i grossi rotoli degli addobbi e ne fece un enorme falò, incenerendo una tradizione che si tramandava da secoli. In mezzo alle fiamme ed al fumo egli si agitava come spiritato , puntando il dito verso il campanile e urlando minaccioso: "non finirà così: vi lascerò un ricordo  che farà storia".
     Infine il suo cuore non resse alla rabbia ed allo sconforto e si ammalò in modo grave. Ai suoi undici figli raccolti attorno al letto di morte lasciò come testamento e monito questa frase: "Monaci e parrini, viditi a' missa e stoccaci i rini", che tradotta e chiosata vuole dire: a monaci e preti porta rispetto per il loro abito ma come persone spezza loro le reni. Era un condensato di esperienza vissuta, ma conteneva tanta rabbia ed acredine.
      Si spense in una domenica delle palme e la messa di requiem fu celebrata nella parrocchia dove aveva lavorato una vita. All'uscita del feretro verso l'ultimo viaggio, il giovane sacrestano diede di piglio alle corde delle campane, per rivolgere l'estremo saluto al defunto, ma nell'aria non si levò alcun suono e chi salì fino alla cella campanaria per controllare cosa fosse successo scoprì con stupore che tutti i batacchi risultavano staccati e posati sul pavimento. Inoltre la campana maggiore presentava su un lato una vistosa crepa.
     Zi' Peppi sdegnava così persino l'ultimo saluto da parte di chi aveva tolto il pane di bocca alla sua famiglia e quella enorme campana crepata, finora mai sostituita, continua ancora oggi a scandire rintocchi stonati e sgradevoli.

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