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Una "patologia linguistica": l'escrologia

Nelle nostre  “chiacchierate” con gli amici di questo salotto non abbiamo parlato dei grecismi in quanto il loro numero è limitato; si riduce, infatti, a un gruppetto di termini la cui importazione si deve ai Veneziani i quali – come è noto – ebbero intensi rapporti commerciali con la Grecia e con l’Oriente. 
Per di più questi vocaboli furono adattati alle caratteristiche vernacolari veneziane. Molti grecismi, quindi, entrati nella lingua nazionale hanno un… “sapore lagunare”; tra questi possiamo annoverare: “calafatare”, “gondola”, “mastello” e “scampo” nell’accezione di “gambero marino”.
Ma eravamo in errore, tratteremo dei grecismi spinti dal fatto che molto spesso – per non dire sempre – i massinforma (carta stampata e radiotelevisioni) adoperano i termini di derivazione greca in modo errato, inducendo in errore i lettori sprovveduti e i giovani studenti che debbono essere plasmati dal punto di vista linguistico. E i giornali non si possono certamente definire i portabandiera della “purezza linguistica”. Ma tant’è.
Vediamo, per tanto, che cosa si intende per “grecismo”. Lo dice la stessa parola. Con questo termine si indica – in linguistica – ogni parola o locuzione del greco (o di origine greca) entrata nell’uso comune del nostro idioma, solitamente con modificazione della grafia e della pronuncia, adeguandosi perfettamente ai sistemi grafico e fonetico della lingua italiana. Sebbene impropriamente si possono classificare tra i grecismi i termini del linguaggio, ma forse è meglio dire del gergo, tecnico e scientifico che si sono formati utilizzando radicali greci adoperati con funzioni di prefissi o di suffissi. Tra i primi i più usati sono: “auto-” (da sé stesso); “autodidatta”; “proto-”(primo); “prototipo”; “tele-”(distanza, lontano); “telefono”; “orto-” (dritto, corretto); “ortografia”; “psico-” (mente); “psicologo”. Tra i secondi: “-teca” (raccolta, collezione); “biblioteca”: “-scopio” (‘che vede’); “microscopio”; “-dromo” ( ‘dove si corre’); “ippodromo”; “-gono” (angolo); “esagono”.
Ma torniamo a due vocaboli di formazione greca – scritti in modo errato – che ci hanno dato la stura per la stesura di queste modestissime noterelle: neofita e archiatra. Il primo si trova sempre scritto con la “a” finale, appunto, ma è orrendamente errato, checché ne dicano i soliti vocabolari permissivi. La sola forma corretta è neofito. Questo vocabolo, che significa “convertito di recente”, “nuovo adepto”, formato con le voci greche “neo” (nuovo) e “phyein” (generare), latinizzato in “neophytus” (‘germogliato da poco’) è divenuto in lingua italiana “neofito”, con tanto di desinenza “o”. È, per tanto, un sostantivo e si comporta come tale: neofito per il maschile singolare, neofita per il femminile singolare, neofiti e neofite rispettivamente per il maschile e femminile plurale. E veniamo ad archiatra, la cui desinenza “-a” è tollerata. Anche in questo caso, infatti, l’unica forma corretta  “sarebbe” con la “o” finale: archiatro. Questo sostantivo – adoperato un tempo per indicare il “primo medico” di corte e oggi rimasto in uso solo per il medico del Pontefice – è, infatti, il greco “archiatròs”, composto con “archi” (primato, superiorità) e “iatròs” (medico). Da un punto di vista prettamente etimologico la desinenza “a” non sarebbe, quindi, giustificata. La forma “scorretta” archiatra si tollera, dunque, per analogia con pediatra, odontoiatra, otoiatra, psichiatra e via dicendo. E visto che siamo in tema di grecismi, vediamone alcuni “sconosciuti”. Le mamme, per esempio, conoscono benissimo il pediatra ma non sanno che la bilancia per pesare i loro pargoletti si chiama “pedostatmo”, mentre – Dio non voglia – l’ospedale dove ricoverarli quando stanno male si chiama “pedocomio” (ma chi lo usa? tutti preferiscono “ospedale pediatrico”); infine, quando sono cresciutelli – a novant’anni – possono sperare di vederli ospitati in un “gerontocomio”. E coloro che amano fare delle lunghe passeggiate ma devono rinunciarvi, a causa delle scarpe strette che procurano loro un forte dolore sotto la pianta del piede, sanno che soffrono di  “pedialgia”? E i tantissimi uomini politici che di questi tempi fanno dei discorsi che per certi versi potremmo definire “osceni” sanno che sono affetti da “escrologia” (“Trattato o discorso di cose oscene”; dal greco ‘aischros’, osceno e ‘logos’, discorso, trattato)? Ai posteri l’ardua sentenza.
 
                                                                                                               Fausto Raso
 
PS: Perché i vocabolari - almeno quelli che abbiamo consultato - non registrano... l'escrologia?  
 
 
 

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