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Il babbo scemo

Tempo fa, quando avevo l'io sotto la suola delle scarpe e trovavo liberatorio persino pensare ad una visita notturna della parca, in sembianze erotiche, m'ero messo in testa di dover morire all'età in cui era morto mio padre: 69 anni. Presi a fare un giochino, non so se per esibizione o per inconscio desiderio di attenzione. All'improvviso, sparivo dalla vista dei miei, che poi mi trovavano e, tra risa e lazzi, lì "costringevo" a guardarmi fare il moribondo.
Loro non si divertivano, specialmente le prime volte ma, li prendevo sempre di sorpresa. Mi stendevo - il pomeriggio per lo più - sul letto grande, su una copertina scura o un tappeto scendiletto, a volte, due grandi guanciali bianchi sotto la testa, le mani incrociate sullo sterno, niente corona, che mi faceva senso. Lei, la moglie, non veniva più, i figli, grandicelli ormai, sebbene mi mandassero regolarmente a quel paese, subivano il rito, insofferentemente. Principiavo, con voce impostata :"vedete cari figli_uoli, vostro padre parte, è tempo di andare, va nel mondo dei più, senza veri rimorsi e molti rimpianti, sperando che voi abbiate il giusto senno di portarvi bene nella vita che ve ne verrà agiatezza e felicità"; poi sbarravo gli occhi e mimavo l'esalazione di un tragico respiro, lungo e definitivo come senza appello. Per quanto mi scuotessero non davo segno, non reagivo, finché non mi facevano il solletico.
"Pa', non fare lo scemo, dai..." era l'invito, tra il faceto ed il serio. Mi tiravo su, con una punta d'amaro ad increspar in basso il taglio della bocca, finiva in riso, . Qualcosa, da un po', mi aveva rubato il vero sorriso.
Come canta Enzo Jannacci, "...vorrei andare al mio funerale per vedere se la gente piange davvero, scoprire ch'è per tutti una cosa normale e sentire, di nascosto, l'effetto che fa". (libero adattamento)
 

a Munir Mezyed

dicono sia colomba, Munir
la perla di Dio che migra
come fosse schiuma
e puoi immaginare la schiavitù
i canali di piombo
nel cuore degli uomini
che non vedono i tuoi figli
ora per le Anime abbracciati
accostarsi di nuovo alla terra
e brillare incaricati alla giustizia
alla scrittura vitale
come non potrebbe nessun uomo
nessuna marcatura
lavorata dalle mani

They say it is a dove, Munir
The pearl of God that migrates
Like foam
And you can imagine slavery
The leaden ducts
In men’s heart
They do not see your progeny
Now embraced by their Souls
approaching the earth, again
And shining
Appointed to justice
To vital writ
As no man could
Any mark
hand-built
(trad. Rosa Caccamo)

 

Di giada l’idolo tra le foglie

Aspra ringhiera d’abbracci
lacci che avvincono i sensi
arti in decadente dolcezza
voglia rappresa sull’orlo
d’un prolungato
giuoco di mani

Mi dici no
ma raffreni gl’indugi
le crescenti esigenze
e nel drappeggio s’insinua
l’ansito nostro d’amanti

Penetro il tuo languore
le vinte tue membra
serpe che striscia sull’erba
piegata al passo
violento del vento

Labbra di miele
s’aprono al rito
d’attrazione e degrado
di giada l’idolo
giace ferito
tra foglie fresche
d’ambrata rugiada

Caracas, dicembre 2007
Vittorio Fioravanti

Pensieri sull'erba

Distesa sul prato mi abbandono
appartengo alla terra
spalanco le braccia
e mi aggrappo all’erba
che non mi lasci andare
fisso il

Somme

all'indomani dell'ieri
               [eccomi
 
che coli pure la bava dei giorni
 
sono sempre io che conto
e di numero naturale in numero naturale
assommo fino all'aleph
 
fino al limpido cielo d'aprile
 
dove il più azzurro degli azzurri
                                 [respiro

 

Pietro dagli occhi indaco

Nato dalla morte,
splendi di vita.
Cresciuto dalle lacrime,
invecchi col sorriso.
Strappato con egoismo
al cielo,
emani così tanto calore...
Partorito dal freddo ventre della guerra,
sei la resurrezione della tua terra,
Pietro dagli occhi indaco.

[Dedicato a chi ha saputo nascere e rinascere dalle ceneri della  guerra. 
Dedicato a Sarajevo.
Dedicato a Pietro.]

Il tuo e il mio (piacere)

ho raccolto nel cavo delle mani
le tue voglie, lisciandoti il sesso
ho bevuto il tuo piacere a labbra
aride immergendovi tutto il mio
desiderio e viepiù stranita del godimento
che pareva solamente tuo, ho rubato
il mio, soltanto per me, tra le colonne
d'alabastro, dalla conchiglia rosa
sapore di mare.

Corso

De - 1
 
Il crinale fermo
blocca un fremito di andare:
il sentiero scende solo.
 
S’avvita l’aria al mezzodì.
 
Sugli incavi di cielo
fanno breccia vette argute,
 
dicono: spazio ancora,
ancora altezza! Vorremmo
in alto
ciò che ci sfugge in basso.
 
Per - 1
 
Così fa corsa a sé,
spartendo terre incolte
e colte terre, riunite in foce,
il lascito fluente delle nevi.
 
E di risulta quella che ci lavò.
 
Ripaga l’anima
ciò che alza il greto
al guado.
 
Residui d’ansia nelle anse
stanno ai ciottoli dai rotolamenti.
 
Ri - 1
 
Si quieta l’onda
- mano liquida nel gesto
di raccolta -
se la foce chiosa
cantilene.
 
Il suo gomito poggia a riva
l’antica forza
d’artigiano:
 
modella lento senza rumore il nuovo
orizzonte; ha una chela
di propositi
che trancia il vecchio sé.
 
Con - 1
 
Trova l’insperata calma
la battigia
quando carezza
da meridione Ostro:
 
vetta
greto
abisso
spazio
crogiuolo il tempo:
 
forse formò qui
la nostra argilla serena
quel dio che porta
attese
 

e qui mi lascia fremito.

Stesura definitiva


 che ringraziamo per il gran lavoro fatto. 
Grazie anche agli scrittori partecipanti per l'entusiasmo con cui hanno raccolto la nostra proposta di scrittura collettiva. 

redazione RV

Sempre lei

il mento appoggiato
sulle braccia conserte
che reggono uno di quei sorrisi
nato per una copula tra cani
ascoltavo i sonagli dei pensieri
mossi dal vento della nostalgia
figure come animazioni
ombre cinesi sopra un telo
senza immaginare mai
la prossima figura ma
aspettando sempre quella
lei che passa - attraversa
la scena, esce e torna
fa movimenti consueti
tuttavia affascinanti.

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