© giuseppe pittà
Non uno, ma dieci, cento, mille. Non ti cambiano la vita, ma forte ti aiutano a viverla diversamente. Hanno almeno il potere di farlo, non sempre ci riescono, ma ce la mettono tutta. Bisognerebbe ascoltarli, che parlano molto, ma parecchie volte, a causa della pacatezza della voce, restano inascoltati. Molti li trattano come oggetti da sistemare in libreria, quasi mai a rischio di essere sfogliati, toccati, presi in considerazione. Soltanto libri, piccole sciocchezze in fogli di carta, a raccogliere parole, quasi sempre, incomprensibili, parti di menti malate, che forse vedono il mondo con occhi diversi e ce lo raccontano a loro modo. Bleah …
JJ entrò nella mia vita con la forza prepotente di una pietra scagliata con violenza verso di me. Avevo 12 anni. Fumavo da un anno. Avevo scopato da qualche settimana con una ragazzotta anziana, una diciottenne in carne, appena maturata al Classico, bionda come il miele d’acacia, profumata di Borotalco Robert’s e saporita, di labbra, di marmellata d’amarene. Giocava, allora, a farmi diventare uno studente migliore, aiutandomi a superare l’esame di riparazione: Latino (ai miei tempi alle medie ancora si studiava il latino e il professor Raffaele Caperchione era severo e impossibile da sopportare). Lei era bellissima ai miei occhi inesperti, ma soprattutto mi stimolava sensazioni nuove, ma molto apprezzate. Comunque fu una storia lunga, che si concluse, anni dopo, con il mio viaggio verso Roma, per l’Università e il matrimonio suo con il fidanzato storico. Per la cronaca: riuscii a cavarmela, a settembre, all’esame, Raffaele fu molto magnanimo. Mi salvò alla grande. Dunque arrivò Ulisse e fu roba dura. Fino ad allora avevo letto solo giornalini. Albi dell’Intrepido, Cino e Franco, l’Uomo Mascherato, Mandrake e un cazzuto vendicatore che faceva strage d’indiani, un tal Kinowa. Hanno, in vero, lasciato un buon segno, mi resta, infatti, una sana passione per i fumetti. Cominciai anche ad usare il settore della biblioteca di famiglia, reparto “fantascienza”. La verità è che mio padre aveva una forte vicinanza con il genere e collezionava i romanzi economici di Urania, una collana della Mondadori che anche oggi è presente nelle edicole. Presi l’abitudine di entrare in sintonia con i viaggi sugli altri mondi., per lo più popolati da mostri, in un caleidoscopio di avventure da far sognare e di trame da darti i brividi. Oggi le atmosfere sono diverse ed a rileggere quei romanzi ti viene il sorriso, per la semplicità di certe teorie e delle immagini fantasiose che ti si presentavano. Ulisse entrò con prepotenza, riportato da un viaggio dal mio papà, che alternava la lettura amena, con roba più sostanziosa e pesante. E pesante lo era di sicuro, questo libro dalla copertina verde, con una testa di Medusa disegnata sopra. Nessun disegno, solo il titolo e il nome dell’autore: James Joyce. Lo vidi. Mi chiamò ed io riuscii a sentirlo. Ci girai attorno un paio di giorni, poi … iniziai a sfogliarlo, presi a scorrere le parole, mi feci coraggio e cominciai a leggerlo. Non ho più smesso.
È stato difficile, alla prima lettura, trovarci qualcosa di comprensibile e di attraente. Devo dire che a tratti saltavo gruppi di decine di pagine, andando a numeri, tipo pagina 24, passando subito alla 36. Una specie gioco al lotto, con le pagine cercate e lette a caso. Un casino. Non si può pretendere troppo da un dodicenne. Già è troppo che l’ho preso in mano ‘sto librone. Comunque uno sano di mente, avrebbe preso e mollato il coso in libreria, passando subito al recupero dell’ultimo fumetto disponibile, invece no, ho perseverato, che alla perdizione non c’è mai fine. Nel giro di un anno l’ho letto tre volte ed ogni volta ho cercato di seguire nuove strade, attraverso nuove pagine. Una sfida. Alla fine credo di aver capito finalmente qualcosa, ma non tutto, per questo continuo a seguirne passi e periodi. Eh si. Intanto con questo libro inizia la voglia di scoprirne altri e mi si apre, di colpo, un mondo tutto nuovo: quello degli Oscar e dei tascabili a basso prezzo. Si comprano nelle edicole dei giornali e sono davvero convenienti. Il primo in assoluto è stato Addio alle Armi di Hemingway. L’ho letto subito, in due ore, poi l’ho ripreso il giorno dopo e ci ho messo più tempo a finirlo, due giorni. Lì è cominciata la mia spinta da collezionista, oppure da gran mangione di libri, gran divoratore di storie. E vai con l’escalation. In breve tutte le case editrici si buttarono nell’affare: Garzanti, Longanesi ed altre. La mia camera in breve si popolò di personaggi e tutti volevano affermare la propria superiorità sugli altri. Un gran periodo, quello, i libri costavano come un pacchetto di sigarette ed era splendido fumare, tenendo tra le mani un Sartre, uno Steinbek o un Dino Buzzati d’annata. Nasce lì il mio amore sconfinato per i libri, in quei giorni, quando, alla fine della scuola, passavo dal signor Beato per chiedere delle ultime uscite. Da allora è stato un rapporto sempre molto buono, mai un cedimento, rimanendo in me, anzi perfezionando il gusto di ascoltare i richiami, di scegliere un libro attraverso i sensi, toccando, guardando, respirando, affidandomi ai sapori meravigliosi, che quelle pagine, misteriose, mi avrebbero consegnato.
Oskar e il suo tamburo a me arrivano più tardi. Ero alle prime gioie e dolori del ’68 e morivo dalla voglia di farmi assassinare. Una speranza rimasta vana, visto che sono arrivato, acciaccato ma vivo, fin qui. Eppure sognavo un corpo a corpo con una banda di gente di fascio, uno contro tutti, a darle ma a prenderle a dismisura, fino all’ultimo respiro. Un martire, da citare e ricordare nelle gradi occasioni. Che coglione. Comunque mi capitò quel libro tra le mani. Usato, esposto tra i libri di cucina su una bancarella vicino la Termini. Editore Feltrinelli, di Gunther Grass, Il Tamburo di Latta. E mi diedi fuoco da solo. Oh si. Questo ragazzino mi infiamma, mi esalta e commuove. Lui, deforme, infinitamente lucido nella sua follia, che a tre anni, nel giorno del suo compleanno, decide di smettere la crescita e lo fa per una forte, sconfinata azione di disprezzo, come per comunicare al mondo intero il suo profondissimo disprezzo per Afred, suo padre, e perfino per Jan Bronski, suo altro padre, il presunto. Costruisce e distrugge, Oskar, da oggi che ha ventuno anni, a colpi al tamburo, dal manicomio in cui è rinchiuso. È parte di me, folgore e rumore, musica di bombe e tuoni, sangue ce si sparge e macchia, di sé, il mondo intero. Una illuminazione per me, passo di colpo dal volo supremo e cadenzato degli scenari consueti e percepibili, alla follia della Storia, quella che sa sconvolgere con a sua violenta realtà. Abbandono i giochi della fantastica attività letteraria e mi accosto alla brutalità delle decisioni, nei corridoi, spenti, oscuri, di un manicomio, accompagnandomi di parole a ritmo di colpi di cannone. Una guerra che scivola nelle arterie, apportando ossigeno sfatto alle parti,già soavemente malate, del cuore. E muovo verso una novità più cruda, che diventa sinfonia di dolore, nell’abbandono complessivo di spazi troppo banali, sicuramente semplici. Così succede che compro un tamburo tutto mio e comincio a percuoterlo con le bacchette di legno, urlando in silenzio una disperazione che mi abita dentro fin dalla prima, inutile, sempre tradita, malata speranza.
Con il tempo giungono altri sapori, altre trame e conflitti. Da terre vicine e lontanissime, che diventano subito mie. Mi avvicino a chi i libri li scrive, sento improvvisa la voglia di conoscere chi mi racconta e soprattutto perché. Accade così, in modo naturale, come in un gioco di condivisione, ascoltando le voci, volendo guardare, di pensiero, forse diritto negli occhi. E si presentano in tanti, questi fantasmi che si nascondono dietro pagine e pagine di parole, una dietro l’altra, a rapirmi con storie e teorie.
Dal mio Paese sfioro la soffice diversa realtà di Tommaso Landolfi, che mi conquista subito, spingendomi, infine, nella profondità di quel Mare delle Blatte, che ancora mi regna dentro. E Volponi, il Compagno Paolo, nel canto delle fabbriche e nei cuori sporchi dei battiti a/normali de La Macchina Mondiale e nei tagli estranei di Corporale. Ma ancora tanti e tanti, come i segni scavati sul viso di PPP, che mi stupisce in tutto, a partire dalla violenza delle periferie della mia nuova città. Ed un giorno lo conosco davvero Pier Paolo, nell’immensità del girone dei derelitti, Hosteria strana, in via Urbana, dalle parti di Santa Maria Maggiore. Me lo presenta il Professore, l’uomo solo, ormai cieco, che vive di vino dei Castelli e pasta al pomodoro, raccontando storie di una scuola che non esiste più. Il Maestro arriva una sera, per salutarlo e chiedergli qualcosa in prestito. “Antò, tu questo ce l’hai di sicuro, sono poesie, le prime, doveva essere un tuo allievo, Dario … Bellezza … mi è venuta voglia di conoscere le sue prime cose”. Naturalmente ebbe il quaderno con le poesie, toccò a me cercarle, nel vortice del disordine del buon Professore. Fu l’occasione giusta per una piccola, preziosa amicizia, che non ho coltivato, però, a causa della passione politica, che mi spinse altrove, in un combattimento senza tregua, che, in un certo modo, portò notevoli cambiamenti alla mia vita. Poi, ancora altri segni ed altre parole e tante storie ancora. Dal Brasile il maestro di scherma e compagno di ferite. Jorge è il Gran Signore dei sogni migliori. Tra magie e piatti da gustare mi fa da guida alla sfavillante incertezza che è Bahia, gioco complesso di luci e musiche, caos da vivere completamente, nella indiscussa felicità del perdersi per ritrovarsi. Mi apre, il mio Maestro, al fascino del pericolo del vivere, che sempre è un po’ morire. Ma come di machete taglia i destini e mi piomba addosso il vento rovente del Grande Sertao, attraverso la magia di un grande, João Guimarães Rosa, che mi porta attraverso storie che si accapigliano e se le danno di santa ragione. Mi insegna a colpire, avvicinandomi alla folgore di un tempo che non ha rispetto per nessuno. E giungono altri, ognuno con un dono diverso, per costringermi a deviare dal sentiero o soltanto aggiustare il tiro del fucile, cercando di colpire il bersaglio con la massima precisione possibile. Mo Yan, molto prima del Nobel di quest’anno, nel suo “non parlare” gioca a stupire, il signor Guan Moye, nel magico inebriarsi del sorgo, rosso come sangue di eroe ed assassinio, a scorrere nella malvagità del brigante e guerriero, nei gesti, sempre tragici, di esistenze difficili e crudeli, vissute sempre combattendo contro tutto e tutti. E tanti altri ancora e ancora, che sono diventati, nel tempo, parte di me, complici nei giochi al massacro della quotidianità, consiglieri fraudolenti e divini salvatori, lontani e vicini, salutari sempre nel corporale gesto di esserci, comunque e per sempre, allungando una mano verso lo scaffale o recuperandolo dalla colonna, perennemente disordinata, sempre in procinto di una rovinosa caduta, sottolineando in pieno il bilico complesso di questi nostri tempi, feriti ed umiliati dall’arroganza di chi sicuramente non sa che farsene di poeti e , avendo rinunciato a sognare, se non i propri passi esclusivi e personali, che odorano malamente di comando e presunzione.
JJ entrò nella mia vita con la forza prepotente di una pietra scagliata con violenza verso di me. Avevo 12 anni. Fumavo da un anno. Avevo scopato da qualche settimana con una ragazzotta anziana, una diciottenne in carne, appena maturata al Classico, bionda come il miele d’acacia, profumata di Borotalco Robert’s e saporita, di labbra, di marmellata d’amarene. Giocava, allora, a farmi diventare uno studente migliore, aiutandomi a superare l’esame di riparazione: Latino (ai miei tempi alle medie ancora si studiava il latino e il professor Raffaele Caperchione era severo e impossibile da sopportare). Lei era bellissima ai miei occhi inesperti, ma soprattutto mi stimolava sensazioni nuove, ma molto apprezzate. Comunque fu una storia lunga, che si concluse, anni dopo, con il mio viaggio verso Roma, per l’Università e il matrimonio suo con il fidanzato storico. Per la cronaca: riuscii a cavarmela, a settembre, all’esame, Raffaele fu molto magnanimo. Mi salvò alla grande. Dunque arrivò Ulisse e fu roba dura. Fino ad allora avevo letto solo giornalini. Albi dell’Intrepido, Cino e Franco, l’Uomo Mascherato, Mandrake e un cazzuto vendicatore che faceva strage d’indiani, un tal Kinowa. Hanno, in vero, lasciato un buon segno, mi resta, infatti, una sana passione per i fumetti. Cominciai anche ad usare il settore della biblioteca di famiglia, reparto “fantascienza”. La verità è che mio padre aveva una forte vicinanza con il genere e collezionava i romanzi economici di Urania, una collana della Mondadori che anche oggi è presente nelle edicole. Presi l’abitudine di entrare in sintonia con i viaggi sugli altri mondi., per lo più popolati da mostri, in un caleidoscopio di avventure da far sognare e di trame da darti i brividi. Oggi le atmosfere sono diverse ed a rileggere quei romanzi ti viene il sorriso, per la semplicità di certe teorie e delle immagini fantasiose che ti si presentavano. Ulisse entrò con prepotenza, riportato da un viaggio dal mio papà, che alternava la lettura amena, con roba più sostanziosa e pesante. E pesante lo era di sicuro, questo libro dalla copertina verde, con una testa di Medusa disegnata sopra. Nessun disegno, solo il titolo e il nome dell’autore: James Joyce. Lo vidi. Mi chiamò ed io riuscii a sentirlo. Ci girai attorno un paio di giorni, poi … iniziai a sfogliarlo, presi a scorrere le parole, mi feci coraggio e cominciai a leggerlo. Non ho più smesso.
È stato difficile, alla prima lettura, trovarci qualcosa di comprensibile e di attraente. Devo dire che a tratti saltavo gruppi di decine di pagine, andando a numeri, tipo pagina 24, passando subito alla 36. Una specie gioco al lotto, con le pagine cercate e lette a caso. Un casino. Non si può pretendere troppo da un dodicenne. Già è troppo che l’ho preso in mano ‘sto librone. Comunque uno sano di mente, avrebbe preso e mollato il coso in libreria, passando subito al recupero dell’ultimo fumetto disponibile, invece no, ho perseverato, che alla perdizione non c’è mai fine. Nel giro di un anno l’ho letto tre volte ed ogni volta ho cercato di seguire nuove strade, attraverso nuove pagine. Una sfida. Alla fine credo di aver capito finalmente qualcosa, ma non tutto, per questo continuo a seguirne passi e periodi. Eh si. Intanto con questo libro inizia la voglia di scoprirne altri e mi si apre, di colpo, un mondo tutto nuovo: quello degli Oscar e dei tascabili a basso prezzo. Si comprano nelle edicole dei giornali e sono davvero convenienti. Il primo in assoluto è stato Addio alle Armi di Hemingway. L’ho letto subito, in due ore, poi l’ho ripreso il giorno dopo e ci ho messo più tempo a finirlo, due giorni. Lì è cominciata la mia spinta da collezionista, oppure da gran mangione di libri, gran divoratore di storie. E vai con l’escalation. In breve tutte le case editrici si buttarono nell’affare: Garzanti, Longanesi ed altre. La mia camera in breve si popolò di personaggi e tutti volevano affermare la propria superiorità sugli altri. Un gran periodo, quello, i libri costavano come un pacchetto di sigarette ed era splendido fumare, tenendo tra le mani un Sartre, uno Steinbek o un Dino Buzzati d’annata. Nasce lì il mio amore sconfinato per i libri, in quei giorni, quando, alla fine della scuola, passavo dal signor Beato per chiedere delle ultime uscite. Da allora è stato un rapporto sempre molto buono, mai un cedimento, rimanendo in me, anzi perfezionando il gusto di ascoltare i richiami, di scegliere un libro attraverso i sensi, toccando, guardando, respirando, affidandomi ai sapori meravigliosi, che quelle pagine, misteriose, mi avrebbero consegnato.
Oskar e il suo tamburo a me arrivano più tardi. Ero alle prime gioie e dolori del ’68 e morivo dalla voglia di farmi assassinare. Una speranza rimasta vana, visto che sono arrivato, acciaccato ma vivo, fin qui. Eppure sognavo un corpo a corpo con una banda di gente di fascio, uno contro tutti, a darle ma a prenderle a dismisura, fino all’ultimo respiro. Un martire, da citare e ricordare nelle gradi occasioni. Che coglione. Comunque mi capitò quel libro tra le mani. Usato, esposto tra i libri di cucina su una bancarella vicino la Termini. Editore Feltrinelli, di Gunther Grass, Il Tamburo di Latta. E mi diedi fuoco da solo. Oh si. Questo ragazzino mi infiamma, mi esalta e commuove. Lui, deforme, infinitamente lucido nella sua follia, che a tre anni, nel giorno del suo compleanno, decide di smettere la crescita e lo fa per una forte, sconfinata azione di disprezzo, come per comunicare al mondo intero il suo profondissimo disprezzo per Afred, suo padre, e perfino per Jan Bronski, suo altro padre, il presunto. Costruisce e distrugge, Oskar, da oggi che ha ventuno anni, a colpi al tamburo, dal manicomio in cui è rinchiuso. È parte di me, folgore e rumore, musica di bombe e tuoni, sangue ce si sparge e macchia, di sé, il mondo intero. Una illuminazione per me, passo di colpo dal volo supremo e cadenzato degli scenari consueti e percepibili, alla follia della Storia, quella che sa sconvolgere con a sua violenta realtà. Abbandono i giochi della fantastica attività letteraria e mi accosto alla brutalità delle decisioni, nei corridoi, spenti, oscuri, di un manicomio, accompagnandomi di parole a ritmo di colpi di cannone. Una guerra che scivola nelle arterie, apportando ossigeno sfatto alle parti,già soavemente malate, del cuore. E muovo verso una novità più cruda, che diventa sinfonia di dolore, nell’abbandono complessivo di spazi troppo banali, sicuramente semplici. Così succede che compro un tamburo tutto mio e comincio a percuoterlo con le bacchette di legno, urlando in silenzio una disperazione che mi abita dentro fin dalla prima, inutile, sempre tradita, malata speranza.
Con il tempo giungono altri sapori, altre trame e conflitti. Da terre vicine e lontanissime, che diventano subito mie. Mi avvicino a chi i libri li scrive, sento improvvisa la voglia di conoscere chi mi racconta e soprattutto perché. Accade così, in modo naturale, come in un gioco di condivisione, ascoltando le voci, volendo guardare, di pensiero, forse diritto negli occhi. E si presentano in tanti, questi fantasmi che si nascondono dietro pagine e pagine di parole, una dietro l’altra, a rapirmi con storie e teorie.
Dal mio Paese sfioro la soffice diversa realtà di Tommaso Landolfi, che mi conquista subito, spingendomi, infine, nella profondità di quel Mare delle Blatte, che ancora mi regna dentro. E Volponi, il Compagno Paolo, nel canto delle fabbriche e nei cuori sporchi dei battiti a/normali de La Macchina Mondiale e nei tagli estranei di Corporale. Ma ancora tanti e tanti, come i segni scavati sul viso di PPP, che mi stupisce in tutto, a partire dalla violenza delle periferie della mia nuova città. Ed un giorno lo conosco davvero Pier Paolo, nell’immensità del girone dei derelitti, Hosteria strana, in via Urbana, dalle parti di Santa Maria Maggiore. Me lo presenta il Professore, l’uomo solo, ormai cieco, che vive di vino dei Castelli e pasta al pomodoro, raccontando storie di una scuola che non esiste più. Il Maestro arriva una sera, per salutarlo e chiedergli qualcosa in prestito. “Antò, tu questo ce l’hai di sicuro, sono poesie, le prime, doveva essere un tuo allievo, Dario … Bellezza … mi è venuta voglia di conoscere le sue prime cose”. Naturalmente ebbe il quaderno con le poesie, toccò a me cercarle, nel vortice del disordine del buon Professore. Fu l’occasione giusta per una piccola, preziosa amicizia, che non ho coltivato, però, a causa della passione politica, che mi spinse altrove, in un combattimento senza tregua, che, in un certo modo, portò notevoli cambiamenti alla mia vita. Poi, ancora altri segni ed altre parole e tante storie ancora. Dal Brasile il maestro di scherma e compagno di ferite. Jorge è il Gran Signore dei sogni migliori. Tra magie e piatti da gustare mi fa da guida alla sfavillante incertezza che è Bahia, gioco complesso di luci e musiche, caos da vivere completamente, nella indiscussa felicità del perdersi per ritrovarsi. Mi apre, il mio Maestro, al fascino del pericolo del vivere, che sempre è un po’ morire. Ma come di machete taglia i destini e mi piomba addosso il vento rovente del Grande Sertao, attraverso la magia di un grande, João Guimarães Rosa, che mi porta attraverso storie che si accapigliano e se le danno di santa ragione. Mi insegna a colpire, avvicinandomi alla folgore di un tempo che non ha rispetto per nessuno. E giungono altri, ognuno con un dono diverso, per costringermi a deviare dal sentiero o soltanto aggiustare il tiro del fucile, cercando di colpire il bersaglio con la massima precisione possibile. Mo Yan, molto prima del Nobel di quest’anno, nel suo “non parlare” gioca a stupire, il signor Guan Moye, nel magico inebriarsi del sorgo, rosso come sangue di eroe ed assassinio, a scorrere nella malvagità del brigante e guerriero, nei gesti, sempre tragici, di esistenze difficili e crudeli, vissute sempre combattendo contro tutto e tutti. E tanti altri ancora e ancora, che sono diventati, nel tempo, parte di me, complici nei giochi al massacro della quotidianità, consiglieri fraudolenti e divini salvatori, lontani e vicini, salutari sempre nel corporale gesto di esserci, comunque e per sempre, allungando una mano verso lo scaffale o recuperandolo dalla colonna, perennemente disordinata, sempre in procinto di una rovinosa caduta, sottolineando in pieno il bilico complesso di questi nostri tempi, feriti ed umiliati dall’arroganza di chi sicuramente non sa che farsene di poeti e , avendo rinunciato a sognare, se non i propri passi esclusivi e personali, che odorano malamente di comando e presunzione.