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Elsa Wertman - Sergio Maffucci

(libera elaborazione di un racconto prendendo lo spunto dall’antologia di Spoon River)


Il mio nome è Elsa.

Sono tedesca. Una contadina tedesca che all’età di sedici anni, attraversò l’oceano per venire in America, il paese del futuro e delle opportunità per tutti.

In Germania, lavoravo in campagna insieme alla mia famiglia.  Ero, quindi, già pratica dei lavori agricoli ed esperta nell’accudire gli animali.

Grazie alla comunità dei connazionali, già emigrati negli stati uniti, trovai lavoro in questa cittadina, nella fattoria di Thomas Green, agiato possidente, sposato e senza figli.

I primi mesi trascorsero lietamente: facevo un lavoro che conoscevo, i miei padroni erano gentili e premurosi. Da parte mia, ricambiavo lavorando sodo, con la massima discrezione, come si confaceva al  mio ruolo.

Non ero una ragazza appariscente, né avrei potuto esserlo, visto che la mia giornata era tutta impegnata nel lavoro dei campi e nelle faccende domestiche. Le uniche distrazioni che potevo permettermi erano quelle della partecipazione alla funzione domenicale, presso la locale chiesa evangelica, dove avevo occasione di vedere ed incontrare gli altri abitanti del paese.

Non ero brutta, però. La mia adolescenza mi aveva donato delle forme aggraziate che, non sfuggivano agli occhi di un attento osservatore, anche se celate dagli umili e dimessi panni che indossavo. Avevo un’età ancor giovane per pensare all’amore, ma gli anni giusti per cominciare a sognarlo ad occhi aperti ed a vagheggiare sul mio futuro.

Non ricordo quando, il sig. Thomas, iniziò a guardarmi in un modo particolare ed a mostrarsi sempre più gentile e premuroso. Ero troppo giovane e candidamente ingenua per comprendere le motivazioni di quegli sguardi e di quelle attenzioni insistenti, che lui mi dedicava.

Forse la mia stessa ingenuità, scambiata per una forma di malizia dissimulata, ha incoraggiato, senza volerlo, il suo interesse per me, che io confondevo con una forma d’affetto e riconoscenza, per la dedizione che mostravo al lavoro ed alla sua famiglia.

Un giorno queste attenzioni, rivelarono le loro finalità.

Era un caldo pomeriggio d’agosto. La moglie del sig. Thomas era andata in città a trovare le sue amiche. Io ero in cucina, intenta a pulire e riordinare le stoviglie, quando sentii le braccia di Thomas avvinghiarmi e costringermi a voltarmi verso di lui. Mentre cercavo di liberarmi da quella presa, cercò di baciarmi, con un rapido movimento del viso evitai che le sue labbra si appoggiassero sulle mie e mi baciò sul collo.

Le sue mani, presero a frugarmi dappertutto. Mi sembrò che si fossero moltiplicate, tanto esse erano frenetiche ed invadenti. Mi alzò la veste, mi strappò le mutandine, mi sollevò di peso e mi mise sul tavolo della cucina.

A quel punto si slacciò i pantaloni e mostrandomi tutta la sua eccitazione, mi allargò le gambe e mi prese.

Non mi fece male, non fu violento, ma la violenza morale di quel gesto, a cui non mi sono potuta ribellare per la mia condizione d’inferiorità umana e morale, fu peggiore della violenza fisica. In pochi minuti, egli aveva distrutto tutti i miei sogni, tutte le mie speranze sul mio futuro.
Dopo circa tre mesi, da quell’atto d’amore rubato, scoprii di essere incinta, perché i segnali del mio stato iniziavano ad essere evidenti e la mia ignoranza su di essi, divenne consapevolezza istintiva.
Anche la signora Greene si accorse del mio stato.
Mi prese in disparte e mi disse che non avrebbe fatto né scenate, né mi avrebbe cacciato di casa. Pose, però, una condizione. Una condizione che ancora oggi mi fa soffrire atrocemente, ma che in quel frangente dovetti, per forza di cose, accettare, pena un futuro incerto e di stenti per me e mio figlio: avrei dovuto concepire il bambino senza che nessuno venisse a saperlo. Nello stesso periodo, lei si sarebbe allontanata da casa, presso la madre. Quando avrei partorito il bambino, lei lo avrebbe fatto apparire come suo e lo avrebbe cresciuto, soddisfacendo, così,  quel desiderio di maternità che la natura le aveva negato.

La signora Greene si ritirò dalla madre come d’accordo. Comunicò questa decisione ai suoi amici e conoscenti, giustificandola con motivi prudenziali che le consigliavano di trascorrere la gravidanza in un ambiente più salubre e dove avrebbe avuto un’assistenza adeguata ed amorevole.
Io, invece, fui confinata in un casale di proprietà dei Greene, da cui non mi mossi più fino al parto.

In questo periodo di confino forzato, non facevo altro che rammaricarmi dei miei sogni svaniti, delle mie speranze, ormai, irrealizzabili e dell’amore, quello vero, che non avrei mai conosciuto.
Giunto il giorno, in gran segreto, fu perfezionata la messinscena della nascita del figlio dei coniugi Greene, a cui fu imposto il nome di Hamilton.

La vita, nella fattoria Greene, riprese a scorrere, apparentemente, come prima, con l'aggiunta del piccolo Hamilton che riempì con la sua presenza quella gran casa, tanto quanto svuotò la mia anima della gioia di vivere.

I coniugi Greene, dopo qualche tempo e con il preciso scopo di allontanarmi fisicamente da Hamilton, combinarono un matrimonio fra me e Gus Wertman.

Questi era un altro immigrato tedesco, di oltre quindici anni più grande. Gus era un brav’uomo, onesto e lavoratore, che si era costruito una discreta posizione, ed era legato ai Greene da sentimenti di riconoscenza, per l’aiuto a lui offerto, appena giunto negli Stati Uniti.

Gus accettò di buon grado di sposarmi.
 

Thomas, a modo suo, con questo matrimonio intendeva, sanare la situazione e la sua coscienza, e ricompensarmi per quanto avvenuto, fornendomi anche, una discreta dote.
Io, ovviamente, non accettai mai, in cuor mio, questa situazione, quest’accomodamento ipocrita e tanto meno Gus, un uomo più vecchio di me e che non avrei mai amato.
Trascorsero gli anni.
La mia vita continuò nella muta rassegnazione ad un destino impostomi, ma non dimenticai mai quel figlio che, pur se concepito senza amore, amavo fortemente. Seguii la sua crescita con discrezione ed attenzione, cercavo di trovare le occasioni più disparate per incontrarlo e per vederlo. Mi compiacevo di osservarlo crescere bello e sano ed ero sempre più orgogliosa di lui.
Hamilton, quando compì i suoi studi di legge all’università, grazie alla posizione del padre Thomas ed all’influenza che questi esercitava nella comunità ed alle sue qualità intellettive, divenne, ben presto, un personaggio di spicco della politica locale, nella quale si era impegnato con fervore, riscuotendo l’unanime consenso dei suoi concittadini.

Nelle frequenti occasioni pubbliche, in cui Hamilton, era impegnato per le sue funzioni di amministratore della cittadina, durante le quali, i suoi interventi oratori richiamavano un numeroso pubblico ad ascoltarlo, io, “mamma Elsa”, non potevo non esserci.

Non mi perdevo nessuna manifestazione alla quale interveniva “mio” figlio. La gioia di vederlo ed il piacere di ascoltarlo rappresentavano una parziale ricompensa a quel gran sacrificio al quale mi sottoposi “cedendolo” alla famiglia Greene.

La disperazione repressa per tanti anni (avevo quasi cinquant’anni) e l’angoscia incessante di vivere “vicino” a mio figlio senza essergli “vicino”, come lo doveva essere una madre, stavano lentamente logorando la mia resistenza.

Non riuscivo più a tollerare questa situazione, anzi, non volevo più tollerare questa situazione!

Fu così che, nel corso di un intervento di Hamilton, nell’aula delle riunioni del municipio, affollata come il solito, mentre ero seduta in una delle prime file, mi alzai con decisione e guardando negli occhi Hamilton, non riuscì più a trattenere quella frase che per tanti anni avevo soffocato e a gran voce, dissi: “Hamilton, tu sei mio figlio! Io…sono tua madre”. Poi mi voltai verso gli esterrefatti concittadini e ripetei, con ancor più veemenza: “Sì signori, Hamilton è mio figlio…mio figlio…!”

Subito dopo, mi accasciai sulla sedia. in preda ad un pianto irrefrenabile, come se stessi scaricando, così, in un’unica soluzione, tutte le amarezze patite in oltre trent’anni.
Hamilton e tutti i presenti, rimasero attoniti e nel più assoluto silenzio.

Avevo riscattato d’un sol colpo, con questa mia pubblica e disperata dichiarazione d’amore, tutta una vita negata, rubata, tradita.

L’emozione e la gioia furono così forti, che non mi alzai più da quella sedia, davanti alla quale c’era “mio figlio Hamilton”  a vegliarmi.

Sergio Maffucci [Sermaf]


-Associazione Salotto Culturale Rosso Venexiano
-Direttore di Frammenti: Manuela Verbasi
-Supervisione: Paolo Rafficoni
-Editing: Alexis, Livia Aversa
-Racconto di Sergio Maffucci [Sermaf]
-tutti i diritti riservati agli autori, vietato l'utilizzo e la riproduzione di testi e foto se non autorizzati per iscritto

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