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Loris Pellegrini |
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APPUNTI DI METRICA
Introduzione
La comprensione di una poesia passa attraverso due letture: una, più ovvia, che potremmo definire contenutistica, cioè: cosa dice la poesia. Una più "segreta", che potremmo definire formale, cioè: come è costruita la poesia. Non possiamo, insomma, accontentarci di ciò che la poesia ci dice; è indispensabile esaminare anche come lo dice. La poesia infatti è una forma letteraria che si serve di artifici metrici, stilistici e retorici al fine di ottenere particolari effetti. La lettura "formale" di una poesia, dunque, consiste nello scoprire le misteriose regole che governano il discorso poetico. Queste regole riguardano:
- il verso
- la strofa
- la rima
- il componimento
1. IL VERSO
L'elemento più semplice nella costruzione (e dunque anche nell'analisi) di una poesia è il verso. Che cos'è un verso? Potremmo definirlo, in maniera semplice ma in fondo corretta, come l'insieme delle parole che stanno sulla stessa riga. Che cosa dobbiamo sapere di un verso? Semplice: di quante sillabe è composto. Ma contarle non è così facile. Facciamo un esempio. Ecco il primo, celebre verso della Divina Commedia:
Nel mezzo del cammin di nostra vita
Se dividiamo questo verso in sillabe ne otteniamo 11:
Nel / mez/zo / del /cam/min / di / no/stra / vi/ta
1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11
Siamo di fronte ad un endecasillabo (endeca = undici). Purtroppo però non sempre le sillabe grammaticali coincidono con quelle ritmiche. Prendiamo un altro verso:
Dolce e chiara è la notte e senza vento (Leopardi)
Se contiamo le sillabe grammaticali, otteniamo 14 sillabe:
Dol/ce / e / chia/ra / è / la / not/te / e / sen/za / ven/to
1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14
Ma se ora proviamo a scandire questo verso ritmicamente, come se fosse una filastrocca, una di quelle che i bambini chiamiano "conte", ci verrà spontaneo dividerla così
Dol/ce/chia/raè/la/not/te/sen/za/ven/to
Che cosa è successo? È successo che per mantenere il ritmo, abbiamo legato la vocale e di dolce con la congiunzione e, la vocale finale a di chiara con il verbo è, la e di notte con la congiunzione e. Attenzione: in realtà le lettere non sono sparite, si sono solo fuse insieme. Non si tratta, cioè, di una elisione: non eliminiamo la a finale di chiara, pronunciando: chiar'è. Pronunciamo chiara è legando le due lettere: chiaraè. Allo stesso modo non eliminiamo la e tra notte e senza, ma la leghiamo alla e di notte: nottee. Questo artificio si chiama sinalèfe (sin = unione, ad esempio: sintesi) , e permette di contrarre il numero delle sillabe. Che nel nostro esempio, infatti, passano da 14 a 11:
Dol / ce e / chia/ra è / la / not/te e / sen/za / ven/to
1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11
Ecco un altro esempio:
Che in/tor/no a / gli oc/chi a/vea / di / fiam/ma / ro/te (Dante)
Ma c'è anche un fenomeno opposto, la dialèfe (dia = separazione, ad esempio: dialogo), per cui, in certi casi, le due vocali di fine e di inizio di due parole vicine non si fondono per non compromettere la comprensibilità del testo:
Ve/nen/do / qui / è / af/fan/na/ta / tan/to (Dante)
1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11
In questo caso tra qui ed è non c'è nessuna fusione e non si leggerà quiè ma qui è, staccando bene le due sillabe. I due artifici, sinalefe e dialefe, possono poi benissimo affiancarsi:
Là / on/de in/vi/dia / pri/ma / di/par/til/la (Dante)
1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11
Là si pronuncerà ben staccato da onde, mentre la e finale di onde si lega alla i di invidia.
Finora abbiamo parlato di contrazione e dilatazione di un verso, ma questi fenomeni possono avvenire anche all'interno di una parola.
Sì / che / pa/rea / che / l'ae/re / ne / te/mes/se (Dante)
Qui parea (contrazione poetica di pareva) dovrebbe essere sillabata così: pa-re-a; e ugualmente aere: a-e-re. Questa "contrazione" che porta all'assorbimento di una sillaba (pa-rea, ae-re) si chiama sinèresi (ricordate? sin = unione). Ancora un esempio:
ed / er/ra / l'ar/mo/nia / per / que/sta / val/le (Leopardi)
Se provo a sillabare la parola armonia fuori dal verso ottengo 4 sillabe: ar-mo-ni-a; la sineresi fa sì che nel verso diventino 3. Più spesso accade di incontrare l'artificio opposto, la dièresi (ricordate? dia = separazione), cioè lo sdoppiamento di una sillaba in due. Facciamo un esempio. La parola viola può essere sillabata vio-la, ma anche vi-o-la. In questo caso c'è un segno che avverte il lettore e lo guida a sillabare correttamente: sono due puntini - la dieresi, appunto - che vengono messi su una vocale della sillaba da spezzare: ä ë ï ö ü. Vediamo un esempio:
Forse perché della fatal quïete (Foscolo)
Qui la dieresi ci avverte che non dobbiamo leggere: quie/te, ma qui/e/te. Sicché il verso avrà 11 sillabe e non 10:
For/se / per/ché / del/la / fa/tal / quï/e/te
1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11
Dunque, ora sappiamo che le sillabe di un verso poetico possono essere più o meno di quelle grammaticali. Ma non è ancora abbastanza per poter classificare completamente un verso.
Come si sa le parole italiane possono essere pronunciate facendo cadere l'accento sull'ultima sillaba (per-ché, così, sof-frìr, and-àr) e sono dette tronche, sulla penultima sillaba (do-ló-re, fi-nè-stra) e sono dette piane, sulla terzultima (ò-stri-ca, pàl-li-do) e sono dette sdrucciole (esistono anche parole bisdrucciole, come telèfonami, o anche trisdrucciole, come ìntimaglielo, ma sono molto rare). Ora la maggioranza delle parole italiane sono piane, e dunque si dà per scontato che un verso finisca con una parola piana. Se questo non avviene è necessario ricondurre il verso alla "normalità" piana: perciò se l'ultima parola del verso è sdrucciola si dovrà togliere nel conteggio una sillaba, se è tronca si dovrà aggiungere. Facciamo qualche esempio.
E già per me si piega (Parini)
Si tratta di un verso di 7 sillabe:
E / già / per / me / si / pie/ga
1 2 3 4 5 6 7
e poiché piega è una parola piana possiamo dire che è un settenario piano. Consideriamo adesso il seguente verso:
Che natura mi diè (Parini)
Se lo scomponiamo in sillabe otteniamo:
Che / na/tu/ra / mi / diè
1 2 3 4 5 6
Si tratta dunque di un senario? No, perché essendo l'ultima parola (diè) tronca dobbiamo riportare il verso alla sua "normalità" piana e conteggiare dunque una sillaba che non c'è. Il verso dunque è un settenario tronco. E se il verso è così?
Perché turbarmi l'anima? (Parini)
La sillabazione ritmica ci dice che il verso ha otto sillabe:
Per/ché / tur/bar/mi / l'a/ni/ma?
1 2 3 4 5 6 7 8
Ma prima di sentenziare che è un ottonario controlliamo l'ultima parola: anima è una parola sdrucciola, perciò il verso ha una sillaba in più di cui non dobbiamo tenere conto. Dunque è un settenario sdrucciolo. Così i tre versi:
E già per me si piega
Che natura mi diè
Perché turbarmi l'anima
sono tutt'e tre settenari, rispettivamente piano, tronco e sdrucciolo. Ancora qualche esempio:
M'insegnavate come l'uom s'eterna (Dante)
Lucifero con Giuda, ci sposò (Dante)
Ora cen porta l'un de' duri margini (Dante)
Il primo è certamente un endecasillabo; il secondo potrebbe sembrare un decasillabo ma è invece un endecasillabo tronco; il terzo ha dodici sillabe ma è un endecasillabo sdrucciolo.
Per la definizione completa del verso manca ancora un'ultima cosa: gli accenti. Infatti così come ogni parola ha una sillaba su cui cade l'accento nella pronuncia, i versi hanno alcune sillabe più "forti" di altre. Esempio:
Nel mezzo del cammin di nostra vita (Dante)
Se leggiamo con un orecchio teso a cogliere il ritmo del verso ci accorgeremo che la nostra voce "cade" sul alcune sillabe sulle quali sembra prendere slancio per arrivare alla prossima:
v v v
Nel / mez/zo / del / cam/min / di / no/stra / vi/ta (Dante)
1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11
È facile accorgersi che qui ci sono tre "accenti" ritmici: sulla seconda sillaba, sulla sesta e sulla decima. Proviamo ancora:
v v
Su 'l / ca/stel/lo / di / Ve/ro/na
1 2 3 4 5 6 7 8
v v
bat/te il / so/le a / mez/zo/gior/no (Carducci)
1 2 3 4 5 6 7 8
Qui gli accenti sono in entrambi i casi sulla terza sillaba e sulla settima. Ovviamente, più cresce il numero delle sillabe e più aumenta la possibilità degli accenti ritmici. In un verso di tre sillabe
v
Si / ta/ce
v
non / get/ta
v
più / nul/la (Palazzeschi)
l'unico accento è sulla seconda; ma in un endecasillabo possono esserci molte possibilità. I primi tre versi della Divina Commedia ne sono un esempio:
v v v
Nel mezzo del cammin di nostra vita (2a, 6a, 10a)
v v v
mi ritrovai per una selva oscura (4a, 8a, 10a)
v v v
ché la diritta via era smarrita (4a, 6a, 10a)
Dunque possiamo classificare i versi della poesia italiana in base al numero delle sillabe, così come nel seguente specchietto:
Bisillabo
Dietro
qualche
vetro
qualche
viso
bianco (Cesareo)
Trisillabo
Si tace,
non getta
più nulla,
si tace
non s'ode
rumore
di sorta (Palazzeschi)
Quadrisillabo o Quaternario
Damigella
tutta bella,
versa, versa quel buon vino (Chiabrera)
Quinario
Città gagliarda
città cortese
perla del Garda
figlia dell'italo
nostro paese (Prati)
Senario
Fratelli d'Italia,
l'Italia s'è desta,
dell'elmo di Scipio
s'è cinta la testa (Mameli)
Settenario
Perché mostrarmi a dito?
Son io forse schernito
perché Neera ammiro
e sua beltà desiro
già vecchio divenuto? (Chiabrera)
Ottonario
Su 'l castello di Verona
batte il sole a mezzogiorno,
da la Chiusa al pian rintrona
solitario un suon di corno,
mormorando per l'aprico
verde il grande Adige va;
ed il re Tëodorico
vecchio e triste al bagno sta. (Carducci)
Novenario
C'è una voce nella mia vita
Che avverto nel punto che muore;
voce stanca, voce smarrita
col tremito del batticuore. (Pascoli)
Decasillabo
S'ode a destra uno squillo di tromba;
a sinistra risponde uno squillo:
d'ambo i lati calpesto rimbomba
da cavalli e da fanti il terren.
Quinci spunta per l'aria un vessilli;
quindi un altro s'avanza spiegato:
ecco appare un drappello schierato;
ecco un altro che incontro gli vien. (Manzoni)
Endecasillabo
La donne, i cavallier, l'arme, gli amori,
le cortesie, l'audaci imprese io canto,
che furo al tempo che passaro i Mori
d'Africa il mare, e in Francia nocquer tanto,
seguendo l'ire e i giovanil furori
d'Agramante lor re, che si diè vanto
di vendicar la morte di Troiano
sopra re Carlo imperator romano. (Ariosto)
Se un verso ha più di undici sillabe si considera come doppio:
Quinario doppio
Il sole tardo ne l'invernale
ciel le caligini scialbe vincea,
e il verde tenero de la novale
sotto gli sprazzi del sol ridea.(Carducci)
Senario doppio
Dagli atrii muscosi dai fòri cadenti,
dai boschi, dall'arse fucine stridenti (Manzoni)
Settenario doppio
Ma più bella di tutte l'Isola Non-Trovata:
quella che il Re di Spagna s'ebbe da suo cugino,
il Re del Portogallo, con firma suggellata
e bulla del Pontefice in gotico latino. (Gozzano)
Ottonario doppio
Quando cadono le foglie, quando emigrano gli augelli
e fiorite a' cimiteri son le pietre degli avelli,
monta in sella Enrico quinto il delfin da' capei grigi,
e cavalca a grande onore per la sacra di Parigi. (Carducci)
2. LA STROFA
Dunque: più parole formano un verso, più versi formano una strofa. E così come i versi prendono il nome dal numero delle sillabe ritmiche che li compongono, le strofe prendono il nome dal numero di versi da cui sono formate. Si comincia con il distico:
Nella torre il silenzio era già alto.
Sussurravano i pioppi del Rio Salto. (Pascoli)
Poi c'è la terzina:
Lo maggior corno della fiamma antica
cominciò a crollarsi mormorando
pur come quella cui vento affatica.(Dante)
Quattro versi formano una quartina:
A te che, padre sei,
volgo dolente il ciglio;
pietà d'un mesto figlio,
che chiede libertà. (Metastasio)
Non c'è una strofa di cinque versi (o almeno, non ha un nome), ma c'è di sei, la sestina:
La vïoletta
che in sull'erbetta
s'apre al mattin novella,
di', non è cosa
tutta odorosa,
tutta leggiadra e bella?(Chiabrera)
Anche la strofa di sette versi non esiste, e si passa all'ottava, di otto versi:
Canto l'arme pietose e 'l capitano
che 'l gran sepolcro liberò di Cristo.
Molto egli oprò co 'l senno e con la mano,
molto soffrì nel glorïoso acquisto;
e in van l'Inferno gli s'oppose, e in vano
s'armò d'Asia e di Libia il popol misto.
Il Ciel gli diè favore, e sotto a i santi
segni ridusse i suoi compagni erranti. (Tasso)
I raggruppamenti di versi superiori a otto non hanno un nome ben definito, e si dirà: strofa di cinque versi, di nove versi, ecc.
3. LA RIMA
Una volta analizzati i versi e la strofa manca l'ultimo elemento alla "schedatura" della poesia: la rima. Che è poi l'elemento più appariscente, quello che fa riconoscere anche ai profani che una poesia è proprio una "poesia": cuore che rima com amore, bello che rima con castello. Ma è sufficiente che due parole finiscano con le stesse lettere perché possano dirsi "in rima"? No. Cono e telefono, ad esempio, non sono affatto in rima. Due parole rimano fra loro, infatti, quando sono uguali le lettere dall'accento tonico in poi. Facciamo qualche esempio: città rima con qualunque parola finisca con una -à accentata: sarà, dirà, ecc.; cartèlla rima con qualunque parola termini in -èlla: bella, novella, ecc.; tàvolo rima con qualunque parola termini -àvolo: cavolo, ecc. Ci sono combinazioni di rime dai nomi ben precisi (rima baciata, incatenata, ecc.) ma a noi è sufficiente sapere "leggere" in generale lo schema di rime di una strofa. Facciamo un esempio:
Un dì, s'io non andrò sempre fugg-endo A
di gente in gente, me vedrai sed-uto B
su la tua pietra, o fratel mio, gem-endo A
il fior de' tuoi gentili anni cad-uto B
Il primo verso termina in -endo e rima con il terzo, il secondo termina in -uto e rima col quarto. Chiamo la prima rima A, la seconda B. Lo schema delle rima di questa strofa sarà, dunque: ABAB
4. IL COMPONIMENTO
Se più parole formano un verso, e più versi formano una strofa, più strofe formano un componimento poetico. Sono molti i componimenti poetici della nostra letteratura ma noi qui ci limiteremo al più comune, antico e caratteristico: il sonetto. Si tratta di una poesia di 14 versi raccolti in due quartine e 2 terzine, con uno schema di rime variabile. Ecco un esempio classico:
Forse perché della fatal quïete
tu sei l'immago, a me sì cara vieni
o Sera! E quando ti corteggian liete
le nubi estive e i zeffiri sereni,
e quando dal nevoso aere inquiete
tenebre e lunghe all'universo meni,
sempre scendi invocata e le secrete
vie del mio cor soavemente tieni.
Vagar mi fai co' miei pensier su l'orme
che vanno al nulla eterno; e intanto fugge
questo reo tempo, e van con lui le torme
delle cure onde meco egli si strugge;
e mentre io guardo la tua pace, dorme
quello spirto guerrier ch'entro mi rugge. (Foscolo)
E a questo punto siamo pronti per fare l'analisi metrica di questa poesia. Si tratta di un sonetto, i versi sono tutti endecasillabi, la concatenazione delle rime è: ABAB ABAB CDC DCD.
© 2000 Loris Pellegrini
Loris Pellegrini, Appunti di metrica (revisione: 5/10/2002)
in "La valigia delle Indie": www.webalice.it/loris.pellegrini
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