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Gli «eterocliti»

I lettori che non sanno di greco strabuzzeranno gli occhi alla lettura del titolo – scelto a bella posta – e si domanderanno quale significato recondito nasconda. Nessuna “sorpresa”, gentili amici, eterocliti sta per “irregolari”, anche se non è questo il significato letterale del termine.
Sono cosí chiamati, infatti, i nomi – ma non solo questi – che nella flessione non seguono la regola generale. Vediamo, innanzi tutto, di focalizzare l’aggettivo “eteroclito”, adoperato solo in linguistica e riferito a sostantivi, aggettivi o verbi che si flettono o si coniugano con piú temi oppure che hanno desinenze diverse da quelle comuni e che sono, per tanto, irregolari (il verbo “morire”, per esempio, è eteroclito in quanto muta il tema: io muoio, noi moriamo).
 
È composto con le voci greche “hèteros” (‘diverso’) e “klìnein” (‘declinare’, ‘flettere’). Eterosessuale non vi dice nulla in proposito?
Ma torniamo ai sostantivi o ai nomi eterocliti che possono essere anche “eterogenei” al tempo stesso in quanto è di questi ultimi che vogliamo parlare perché non sempre sono adoperati correttamente. Appartengono alla schiera dei sostantivi “eterocliti-eterogenei”, dunque, quelli che nel singolare hanno un solo genere e una sola declinazione ma nel plurale due generi e due declinazioni, molto spesso con lieve mutamento di significato. Fra questi abbiamo: gli anelli e le anella (solamente per i ricci); i carri e le carra (con riguardo al contenuto); le braccia e i bracci (nel significato figurato); le dita e i diti (quando si specifica: i diti medi); le labbra e i labbri (solamente per i margini di una ferita o per gli orli di un vaso); le membra e i membri (solo in senso figurato per indicare le parti di alcunché: i membri del consiglio); le corna e i corni (in senso metaforico: i corni della luna). Potremmo continuare ancora nell’elenco, ma non vogliamo tediarvi oltre misura. Non possiamo concludere, però, queste noterelle, senza soffermarci un attimo (non “attimino”, per carità!) sul plurale corretto di alcuni sostantivi – tre per l’esattezza – che la stampa continua a sbagliare: urlo, grido e orecchio. Vediamoli nell’ordine.
Urlo, dunque, essendo un nome “eteroclito-eterogeneo” ha due plurali: urli e urla. Il femminile plurale, però, contrariamente a quanto riportano alcuni vocabolari, si usa solo per “le urla” dell’uomo in senso collettivo. Insomma: gli urli di Maria ma le urla di Giovanni, di Maria e di Pietro. È errato, per tanto, dire o scrivere “le urla della vittima risonavano in lontananza”; in questo caso, anche se si tratta di una persona, bisogna dire “gli urli” perché non c’è la “collettività”. Anche per quanto riguarda il plurale di “grido” il discorso è lo stesso. I soliti vocabolari riportano: le grida per indicare quelle degli uomini; degli animali sempre gridi. Non è proprio cosí, come abbiamo visto.
E veniamo al plurale di orecchio. Questo sostantivo, al contrario di urlo e grido, ha anche due singolari: orecchio e orecchia. Il maschile si adopera in senso proprio, vale a dire come “organo dell’udito”; il femminile in senso figurato: l’orecchia della pagina. Nella forma plurale avremo, quindi, gli orecchi e le orecchie con la medesima distinzione che abbiamo fatto per il singolare.
Non sono forme ortodosse, quindi, anche se di uso comune, le espressioni “tirare le orecchie”; “sentirsi fischiare le orecchie”; “fare orecchie da mercante” e via dicendo. Non si tratta, come molti sostengono, di un uso figurato del sostantivo orecchio. Si deve dire, correttamente, “orecchi”. A questo punto qualche pseudolinguista – ne siamo certi – vorrebbe tirarci… gli orecchi. Ma tant’è.
Fausto Raso
 

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a cura di Ezio Falcomer

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