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La Controra

Ricordo i pomeriggi assolati d’estate, a casa mia, di un caldo insopportabile. L’afa rendeva l'aria greve, irrespirabile, il sudore che imperlava la fronte e poi scendeva su tutto il viso, penetrando negli occhi che cominciavano a bruciare dolorosamente. E le mosche!
Una miriade, tutte concentrate a casa nostra, anche se per una buona mezz’ora, mio padre e mia madre da un lato, io e mia sorella dall’altro, convergendo verso il centro della stanza, battevamo l’aria, con asciugamani e tovaglioli, per cacciarle. Una volta a letto, per il consueto riposino pomeridiano, 'a controra come diciamo a Napoli, io e mia sorella fissavamo il soffitto con travi a vista, sulle quali, prima o poi, sarebbero comparsi i domestici e famigliari gechi, che, numerosi, abitavano la nostra casa da molto tempo prima di noi. Era uno spettacolo vederli puntare le mosche sul soffitto e con un repentino scatto in avanti ingoiarle. Non c’era scampo per quelle che capitavano davanti a loro. Dopo poco, la quiete del vicolo veniva rotta dal vocio, dapprima tenue e poi, via via sempre più crescente, dei miei amichetti che erano tutti in cortina a giocare, a piedi scalzi e a petto nudo. Come li invidiavo! Quanto avrei desiderato essere insieme a loro! Ma mio padre non me lo permetteva. Diceva che non stava bene uscire a quell’ora: troppo caldo, si rischiava l’insolazione. E poi, scalzo e a petto nudo, mai! A quell’ora si riposava, non bisognava dare fastidio. Nella quiete penombra dell’unica stanza che abitavamo assieme ai genitori, io e mia sorella, condannati a rimanere in casa dopo pranzo, seguivamo con la mente i giochi chiassosi dei nostri compagni. Il vocione di Vincenzino, Enzo per la madre (e come ci teneva che lo chiamassimo Enzo!), che guidava l’attacco della cavalleria nordista, le voci stridule e terrificanti di Gianninella e Maddalena, da sempre piccole indiane della prateria e uniche due bambine, che si difendevano come potevano dagli assalti di una agguerrita schiera di yankees: Totòre, Carminuccio, Franchino e Armando. Una sorte, la loro, segnata da una mano invisibile e avara, che le aveva fatte perdenti dalla nascita. Sottili lame di luci fendevano la penombra della stanza che pur ti invitava al sonno, ma faceva anche da sfondo ad un immaginario che proprio di quelle grida si nutriva, grida che lasciavano i nostri occhi aperti e attenti per tutto il periodo della controra e della battaglia che infuriava fuori. Cavalcate, ferimenti, agguati, spari imitati con la bocca, sotto l’immancabile regìa di Vincenzino: “Tu si' mmorta, mo' add'a muri' Gianninella” . “No! I' voglio murì all'urdemo (per ultima)”. “No! - gridava più forte Vicienzo - l’urdem' a mmurì sarà Matalena”. “Muore tu e tutt'a razza toja – incalzava Gianninella - perché nun muori tu 'na bbona vota e ppe' sempe???” . “No! I' song' o capitano!”. “Si 'nce steveme nuie, Vicienzo mureva cu' ddoje frecce int'a lluocchie”. Lo sguardo d’intesa tra me e mia sorella si traduceva sempre in questa affermazione, detta sottovoce e tutta d' un fiato, come se fosse stata sparata da un’arma con il silenziatore. Quest' anno, era metà giugno, sono ritornato al mio paese, per rivedere una mia cugina, che non vedevo da almeno dieci anni, da quando, folgorata sulla via di Damasco, partì per prendere i voti. Sono stato, come sempre d’altra parte, ospite di mia sorella che abita nello stesso vicolo, dove ancora, a pochi passi, c’è la nostra vecchia casa, in piedi, nonostante il tremendo terremoto del 1981. E’ ridotta proprio male, al punto che mia sorella ha dovuto farla transennare tutta per il pericolo di crolli. In verità, parte del tetto è già crollato. Ci sono pezzi di travi pericolanti, porta e finestre sgangherate, fradice, muri scrostati, il cui originale color rosa salmone s’intuisce solo per alcuni pezzi d’intonaco rimasti, per miracolo, attaccati ai muri. Ed eccola la cortina! I due piccoli portici che fungevano da fortino, il pozzo dell’accampamento indiano, la piccola cantina, che fungeva da prigione nordista. Gli occhi indugiano su ogni particolare, la mente si colma di ricordi. Sono come lampi. Rivivo attimi, che per un istante si fermano come foto che passano attraverso un proiettore. Mi sembra persino di udire qualche voce, qualche sparo. Come sembra piccola adesso. Eppure, allora, per noi era il massimo di quello che si poteva desiderare. Per noi era come il set di un film con regista, attori e copione, tutto inventato lì per lì, ispirandoci alle scene di guerra dei western americani in voga al momento. Ora c’è l’asfalto e una sola famiglia con due bambini piccoli, che non hanno amichetti con cui giocare. Ognuno sta per conto suo, intento a colorare il proprio album. C’è silenzio, troppo silenzio. E’ come un campo indiano dopo l’ultimo e conclusivo assalto nordista. Chiedo a mia sorella dei nostri comuni compagni di giochi. Vincenzino, sempre Enzo per la madre, si occupa di vendite d'auto alla Renault; Armando è ingegnere; Totore è impiegato all’ufficio del registro; Franchino ha uno studio di consulenza del lavoro; Maddalena si e sposata e ha una caterva di figli. Anche Gianninella si è sposata ed ha figli, ma….ma sta poco bene. Ha un cancro al seno e sta lottando con coraggio e dignità. Proprio come faceva contro i nordisti. Gianninella, la mia cara e simpatica compagna d'infanzia! Un'infanzia indigente e disagiata, fatta di tanti sogni e poco pane. La mia fedele alleata in tante battaglie, tutte perse contro il lurido viso bianco dalla lingua biforcuta. Ricordo ancora i tuoi occhi umidi per il destino di perdente che ti imponevano, la tua dignità di piccola squaw nell'affrontare la morte. Lascia che ti auguri, sfortunata amica mia, di vincere, almeno stavolta, la più importante di tutte le battaglie, questa vera purtroppo! , che il buon Dio ha voluto farti affrontare.

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