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Zeitgeist 2

Quando eravamo poco più che ragazzini, negli anni settanta del secolo passato, ci ricordavamo nebbiosamente degli anni cinquanta e dei suoi giovani. Ci sembrava di intravedere una gioventù rombante, che s’immaginava assai “dirompente” (termine allora molto abusato dalla pubblicità) cavalcando un futuro supponente, pretenzioso, fatto di moto e di “sbarbine”. I modelli erano i “ribelli”, la “gioventù bruciata”, tipo Marlon Brando e Jimmy Dean. Ma quei giovani, già nei settanta, erano diventati antidiluviani, soppiantati dal mouvement, dalla rivoluzione, dalla Woodstock-generation. E il più rappresentativo di loro, Elvis Presley, crepava grasso e grottesco, imbottito di droga e alcool.
Ma vennero altri “giovanilismi” a seppellire anche quelle generazioni, fino ad oggi, fino alla fine dei tempi, dei “giovani”, delle avanguardie…
Così, a gettare tanto indietro l’occhio della memoria, ecco la riemersione di figure quasi leggendarie nella loro antichità, che oppongono ai cavalieri dell’apocalisse giovanilista il loro mondo merlettato e polveroso, ossia il mondo che abbiamo perduto. È stato tale il morbo introdotto dalla techné nelle nostre vite- vite spolpate e disossate, che adesso armeggiano coi resti fumanti dei loro ideali contraffatti a giocarsi la partita della pelle con la natura in rivolta e la guerra della fame alle porte.
Così ci ricordiamo che non eravamo così, che non era questo che volevamo, che non dovevamo gettar via coi panni sporchi anche le nostre anime-bambine, almeno fin lì pulite, immacolate, innocenti…
Comunque, se anche osservavamo dagli anni settanta l’irruzione del “giovanilismo” precedente e anche il precoce crepuscolo che già ne tallonava le sorti, c’era in gioco anche la memoria degli altri, dei vecchi, che allora erano più vecchi ancora e che, in molti, provenivano dal 1800. Fino ad allora il presente conteneva tutti i tempi, dei quali era appunto quello presente, quello in vigore. Non c’era neanche l’idea di una cesura, o di un’accelerazione. Poi venne Pasolini e si accorse che invece s’erano aperte come delle crepe e che il mondo antico, sia pure amato e venerato, ci stava sprofondando dentro. Era l’alba della grande palingenesi, della mutazione vera e irreversibile che ci avrebbe tradotto in quest’altrove senza nome in cui, ancor oggi, anche in questo istante, ci affliggiamo per ritrovarne le latitudini, mentre lui ci bersaglia coi suoi strali geroglifici e inesplicabili. È stato allora che si istituì la grande differenza, non prima: non è stato il mondo delle macchine, o quello futurista, o quello positivista a indurre la metamorfosi assoluta, no. È stato dopo… grandi rivoluzioni si illusero di poter apporre il proprio sigillo sull’avvento della modernità, il comunismo, il modernismo, il fascismo persino… ma la modernità, la vie moderne, s’insinuò come dolce veleno, lento lento nei nostri discernimenti e li scardinò, li sovvertì, li capovolse, lasciandoli pieni di sgomento e di desideri, e vuoti di senso. E accadde allora, in quell’interludio ermetico che separava insensibilmente la “gioventù bruciata” dai “figli dei fiori”.
Il “mondo nuovo” era ancora pieno di scorie di quello vecchio, venerande, adorate scorie che andavamo rivangando dal passato come in una specie di riffa antiquaria. Era un mondo che si tirava dietro arcaismi sconcertanti, liturgie ed eventi innestati nell’humus di genesi millenarie, in cui la eco del Rinascimento, o addirittura degli Antichi Romani si coglieva non nella magniloquenza dei monumenti, o nella grandezza degli eroi, ma nella quotidianità semplice della vita nei vicoli di Ponte o di Parione. I pavimenti traballavano negli antichi palazzi, una volta aristocratici e blasonati, e le mattonelle gelidissime duravan fatica a restarsene nei loro profili ottagonali, quando noi ragazzini ci giocavamo sopra. Le stanze erano androni bui, dai soffitti altissimi, immersi sempre in una silente penombra, spezzata a tratti soltanto da qualche voce allegra, di lavoratori-cantanti dalla strada, e i soffitti erano mondi alteri da cui planavano gemiti legnosi, forse di fantasmi barocchi, luccicanti nella polvere. Qualcuno teneva accesa una radio, diffondendo melodie d’altri tempi in cui pulsava quell’”antichità” di cui parliamo e che per i ragazzini, che si entusiasmavano per i cow-boys, Gagarin e Celentano, sembravano provenire dal mondo della luna.
Più avanti frequentammo le ultime osterie, che chiudevano i battenti per sempre, in una sequenza ineluttabile. Dentro, gli ultimi beoni dell’ottocento ci cantavano male le loro canzonette, accompagnandosi talora e altrettanto malamente con chitarre scordate o fisarmoniche cadenti. Di lì a poco la mutazione le avrebbe convertite in “enoteche”, nel migliore dei casi, o altrimenti in boutique, in paninoteche, o nell’incubo-MacDonald’s. La musica cattiva e mal eseguita, sarebbe diventata il “Folk”, suonato e cantato a perfezione e senz’anima. La “cultura di massa”, ossia l’analfabetismo di ritorno, avrebbe poi invaso ogni spicchio di muri e strade, convertendo il tutto in quella specie di ubiquo “Souk” tecnologico in cui siamo immersi ancor oggi, laggiù e dappertutto.
Per ritrovare parte di quello spirito ancestrale, un solo un sentiero vi ci reca, se vi  accontentate di un surrogato: la periferia. Solo lì, nei ristorantini di periferia è dato rivivere quel senso d’insieme che formava lo Zeitgeist di tutta un’epoca e una storia. Ma senza la storia, ahimè. Lo ripeto: oggi si vive solo fino a oggi, senza progetti, senza ambizioni, senza rete. Il futuro è abolito; il passato è oblio, è ectoplasma che crogiola chissà dove, nell’inconscio. Se qualcosa abbiamo perso, come il nostro stesso amore testimonia, di quella storia, questo è oscurato per sempre. Se, come invece facevano gli antichi, non abbiamo ritenuto nulla, nessun possibile bene di quel passato, dobbiamo dedurne tutto il male possibile da questa sottrazione: quel bene non risorgerà. Se vi era, se mai vi è stata una saggezza antica, essa è perduta nel gorgo dei tempi, per l’eternità.
Ritengo ancora nel comprendonio una specie di scheggia di vetro, anzi di porcellana, che mi raccorda a quella preistoria. Tra il Corso e la fontana di Trevi ci corre una sola stradina diretta (via delle Muratte). A metà circa di questa si trovava un’osteriola, anzi una “bottiglieria”, come si diceva allora. Era un rettangolo incassato nel palazzetto che l’ospitava, con in fondo la vetreria che conteneva i bottiglioni rovesciati, colmi di vino dei Castelli, dal cui becco d’argento fluiva quel nettare malsano, alla spina. Un bancone perpendicolare tagliava la nicchia dei bottiglioni dal resto, che era occupato da una tavola allungata, fornita di panche. Sulle panche sedeva in stasi pressoché perenne “il capitano”, un omaccione ben vestito dallo sguardo sempre un po’ “annacquato” dall’estasi vinolenta. Era un ex-militare, da cui il soprannome, ma benevolo e sempre in allerta farsesca, pronto a “spararne” qualcuna. Poteva trattarsi di un ultrasettantenne: sarà questa l’ultima voce del mondo a richiamarlo in vita… Le pareti del localino erano decorate. A maiolica, con scene mitologiche. Erano (e sono ancora) le più belle e significative maioliche romane del 1.800. Oggi affoga nel Souk miracolistico del turismo spendaccione e analfabeta e, tra centinaia di negozi di abbigliamento, vi si vendono calzoni. Le maioliche sono integralmente ricoperte da scaffali di blue-jeans.
 

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