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Magri epiloghi

Nel 1990 il più grande partito comunista d’occidente decise, tra mille polemiche e mille obiezioni, di cambiar nome. La parola “comunista” retrocedeva velocemente dal vocabolario del mondo, e tirarsela dietro sapeva di sconfitta ancor prima di ingaggiare battaglia. Il comunismo era battuto, umiliato, e il suo corpo esanime giaceva sotto le pietre del muro di Berlino, sventrato l’anno prima. L’ultima grande promessa dell’umanità, l’ultimo messia salvifico che avrebbe raddrizzato i torti e ristabilito il diritto universale dei popoli, si estinse più in fretta dell’autunno e quando arrivò la primavera non restavano che rovine su cui lasciar svolazzare le farfalle. Non era la vittoria di chicchessia, né quella fattispecie del capitalismo. Era la sconfitta dell’ideale. L’ideale non poteva diventare l’architrave della storia, ma solo la sua delirante utopia. E così il suo esito più alto, il comunismo, ci cozzò contro e s’infranse. Divenne soltanto un documento storico-culturale, come il modello tolemaico, o la “prova” di Anselmo.
Ma non per tutti. In moltissimi non vollero rinunciare a ciò che, per loro, era stato la vita che infondeva loro vita, e la cui estinzione coincideva col proprio certificato di morte. In particolare, e magari inconsapevolmente, non vollero accettare questo: che l’ideale sia una forza “debole” e che non sia in grado, di per sé, di muovere la macchina della storia, imponendole i propri indefettibili rettilinei logico-morali. Ossia, che la forza della storia sia irriducibile a quella, appunto “debole”, dell’ideale, o dell’Illuminismo, se si vuole. E che regola vuole che sia quest’ultimo a soccombere sotto la spinta di necessità e cupidigia umane, non viceversa. Aver ragione, aver avuto ragione è inutile ai fini del divenire, chiedetelo alla polvere dei professori, scrittori e filosofi inceneriti ad Auschwitz.
Nel 1990, Giancarlo Pajetta, “Nullo”, il “ragazzo rosso”, ex partigiano e padre della patria, moriva improvvisamente. Era il 13 settembre. Poche ore avanti aveva detto in un’intervista: “Non ho vissuto momenti peggiori di questo. Neanche in carcere ho sofferto tanto, questo è il momento peggiore della mia vita politica.” Questo peggior momento della sua vita coincideva con quello terminale del Partito Comunista, che in un sol colpo perdeva il nome, l’unità, l’identità. E lui, “ragazzo rosso” vissuto per sempre nell’aura giovanilista della rivoluzione, non resistette a quella staffilata di vecchiezza istantanea, inferta sul suo destino nel breve volgere di qualche mese. Così, di colpo, il “ragazzo rosso” era diventato un arnese vecchio, che non serviva più a niente. E lui ne morì.
E oggi, vent’anni indarno dopo, la morte che non vuol morire torna a farci visita per dirci esplicitamente questo: nessuna idea umana sopravvive più di quel tanto al proprio tempo, e quando ci si prova, essa trascina con sé il proprio ambasciatore nell’abisso mortale dell’anacronismo, del “tramonto del proprio tipo” (per dirla con Nietzsche). Tuttavia, morendo nel proprio tempo e per la causa propria, l’idea e il suo nunzio trovano sulla propria strada la morte naturale, intervenuta a sollevarli da una scena in cui apparivano come sopravvissuti e a salvarli perciò dalla umiliazione che ne avrebbero patito. E questa misericordia della morte, però, non si ripresenta sotto altri cieli, quando quel tempo è finito e non resta che l’orgoglio altero dell’ideale e del suo uomo a testimonianza di quel non voler morire, al di là di ogni limite, di un logos in realtà già revocato dalla realtà.
Così la morte naturale non interviene, e il suo aspirante è costretto a procacciarsene una da sé, una morte pianificata, per così dire, che coincida col rigore adamantino di quel logos che ne è tuttavia anche il tossico embrione. Già Nietzsche aveva aspramente criticato in Socrate quel gesto di assumere da sé la cicuta, di darsi la morte, in un atto di presuntuoso dominio sulla stessa che ne avrebbe esaltato il suo primato, il primato della sua ragione sulla natura, sui desideri, sulla morte (“Il crepuscolo degli idoli”). Per Nietzsche, è Socrate stesso a costringere gli Ateniesi a fargli ingoiare il veleno, a causa della sua presunzione e del suo conseguente snaturamento.
E così, la fine di uno con il quale avevo condiviso gli ideali della nostra generazione, la sua fine rigorosa e conseguente, come tesi antitesi e sintesi, mi fa solo pensare alla critica di Nietzsche e alla erroneità del “meccano” ideale che ancor oggi, dopo il fallimento tutt’intero di un’epoca, porta ancora taluno ad anteporre alla tetragone graniticità delle spinte morali, culturali e pulsionali dell’essere, un altro etereo essere che, dalle sommità angeliche ed hegeliane dello spirito, dovrebbe discendere a noi attraverso la scala santa edificata da Karl Marx. Un errore che, siccome questo esser-altro è una pura chimera e non c’è al mondo alcuna scala santa laica e ragionevole che trascini sui nostri gravi giorni alcun “sole dell’avvenir”, reca morte a chi lo commette.
Questa morte accomuna quella di Pajetta con quella di Socrate, e rassomiglia tenebrosamente all’eutanasia di una generazione.
  

 
 

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