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Sono figlio del mare

Con le gambe nella sabbia attendo che un’onda più lunga mi bagni. Respiro profondamente quest’aria di mare che ancora conserva il profumo ed il tepore del sole. L’orizzonte, perso il rosso, si concede al cielo e lascia la sua linea di confine. Alcune barche da pesca lentamente svaniscono nella sperduta distesa verso l’ignoto. Il vento scende e come seguace compagno della luce, dolcemente cade. L’aria umida sale ed ogni cosa lontana vibra come vista filtrata da un trasparente velo di vetro. Il silenzio s’impossessa dell’intorno e una misteriosa quiete aleggia nell’aria e porta pace. Avrò ancora tempo di star fermo su questa spiaggia per godermi questi momenti, qui sono nato e qui vorrei restar per sempre! Questo mare lo amo tanto, anche se non ha più adesso l’onda per bagnarmi come una volta. La sua distesa immobile è pari al livello del mio sguardo, mentre mi sdraio sulla sua dolce sabbia. Alla mia vista appare come unico filo sottile, come fosse una pagina della mia vita guardata dal bordo all’altezza degli occhi! Anch’io in questa posizione sono come specchio inclinato e guardato dal suo occhio esteso. Qui la mia figura perde contorno e contenuto, ma l’essenza resta! Anch’io, trovandomi nella stessa sua stessa condizione, sulla sua stessa prospettiva, sulla sua stessa linea, sono pari al suo livello e sopporto il peso dell’aria che mi comprime e mi appiattisce ma d’aria ancora vivo. Non perdo facoltà di percezioni nell’immensità di questo spazio, non mi addormento al giungere del buio, altri pensieri sono in attesa d’esame che solo adesso può giungere illeso. Penso all’insignificante utilità che rappresenta il mio corpo in questo momento e allora, un desiderio forte incontrastato mi assale. Come se sollevato da una misteriosa mano, lentamente m’incammino e, a piedi nudi, vado oltre quel taglio che mi divide dall’immenso. Vorrei sapere se nella condizione in cui mi accingo ad essere, potrò influire sulla sua sperduta vastità, se nell’occupare spazio nel profondo ignoto del suo grembo, potrò ottenere stima non essendo più estraneo al suo elemento. I piedi scompaiono e poi anche le gambe, l’acqua sale sino ai fianchi; dovrei sentirmi vivo solo per quella parte che pensa e respira, ma non è così! L’altra, benché sommersa, impone presenza e toglie spazio all’acqua. La mia fisicità, il mio volume, non sono insignificanti adesso che s’impongo in così tanta estensione anch’essa con limite e confine. Sento strano l’effetto dell’acqua che sale, la pelle non teme differenza nell'essere bagnata, le parti più interne trovano un sollievo mai provato prima. Adesso quel limite estremo è qui, davanti ai miei occhi, sulla mia stessa prospettiva, sotto il mio naso e mentre mi accorgo che solo il respirare mi lega ancora all’aria, già sento quel sale amaro che conosco a ricordo di altri momenti vissuti. Oscilla lentamente quest’orlo vivo, questo velo sottile come lenzuolo, questo spazio che ho sempre solo visto da lontano; cosa potrà mai contenere adesso che lo vedo così soave e così vicino? Quest’ansia di volermi muovere verso il suo abisso è per scoprirlo oppure è per rispondere al richiamo suggerito da questo mare che finalmente mi riconosce come suo figlio? Vorrei poter chiudere gli occhi non avendo neppure per un attimo sfiorato l’idea della paura. Allora cresce il desiderio di rivivere quella gioia persa subito dopo il primo respiro e lasciarmi andare verso libertà assoluta. Non ho più condizione di tempo e spazio e vado lentamente sempre più lontano, sempre più verso l’ignoto che più non mi confonde. Posso guardare l’interno di quest’infinito anche con l’acqua negli occhi, non respiro, o forse respiro e non so di farlo. Il mio pensiero non ha più limiti, luce e buio non hanno più senso. Non ho necessità di vedere o non vedere, mi basta solo sentire. La mia gioia giunge adesso che non ho più distanze, rotte e direzioni.  Ogni punto è perso, tutto si completa nel sommerso e tutto par che sfumi. Com’è bello l’essere invaso, coperto e scoperto, integrato ed isolato, e poi, restare vivo! Le mani, la testa, tutto il corpo non lo sento se non col solo pensiero. Il nuotare finalmente non mi stanca, vado ovunque, tocco ogni fondale nell’assoluta libertà e parlo con pesci, alghe e scogli. Tutto è un mondo limpido, pulito e non più riservato e sconosciuto. Cammino come senz’acqua e senza corpo, corro e volo come senza peso, mi perdo e mi ritrovo senza mai perdermi e senza mai ritrovarmi...
 
“Palla… palla… è mia, dai… più veloce, più forte…”
 
Deve essere stato uno di quei calci fuori bersaglio a colpirmi con una pallonata in pieno volto! Forse era l’unico modo. Neppure le grida di quei ragazzini e il ritorno del sole già alto mi avevano riportato gli occhi alla luce… ma, per una notte, sono stato figlio del mare.
 
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Francesco Paolo Dellaquila
(Tratto dal mio libro: “L’altro Senso” – Tutti di diritti riservati.)
 

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