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L'odio è il soggetto

Lo so, lo sento. La eco del mondo intero rimbomba nel dolore che bussa nel nostro petto. Tutta la sofferenza della società si sintetizza nell’atto esulcerante di un cuor solo, che concresce all’unisono, anello di una catena di anelli, tutti iracondi e addolorati. L’occhio gonfio di paura volteggia su se stesso, e non vede che il medesimo sconsolato panorama. Ossia, vede il proprio panorama, vede in se stesso la rappresentazione tragica che coglie fuori da sé, e che vorrebbe infrangere, scongiurare, debellare. Ma sa che non può, perché lo stesso brodo, lo stesso velenoso fiele striscia nel suo sangue, tale e quale a quello che il suo gesto di rivolta vorrebbe far scorrere fuori.  
L’odio scova un soggetto sul quale esercitarsi, e vorrebbe sradicarlo dal presente, vorrebbe ucciderlo. Salvo non dover prendere coscienza della omonimia di vittima e carnefice, e non dover rendersi conto della impossibilità di uccidere quell’odio, covato nel proprio abisso, propria creatura e proprio sembiante. Qui, è l’odio il soggetto.
Agli albori della prima guerra tecnologica di tutti i tempi, Siegmund Freud si accorse di qualcosa che non quadrava, di qualcosa che derogava dalle proprie coordinate, ossia dalle coordinate umane, culturali, politiche di ciò che fin lì si era configurato come sapiens, come autocoscienza dell’essere nella figura del genere umano. Qualcos’altro moveva le sue pedine all’interno della Humanitas, qualcosa che trasvalutava a ritroso il percorso valoriale del principio di piacere. Qualcosa in più muoveva dall’interno dell’essere contro se stesso. Chiamò questa cosa “coazione a ripetere”, una sorta di impulso a ripetere per sempre gli errori primevi e fondanti della nostra problematica esistenziale, negando ostinatamente e in perpetuo la loro risoluzione e la propria liberazione. E allora la domanda era: perché l’uomo non vuole essere libero? Per non voler rinunciare ad alcuna delle proprie qualità caratteriali? No, troppo facile. C’è ancora dell’altro: l’uomo non vuole essere libero per odio della libertà, per disprezzo della vita, per culto della morte. Era il Tod treiben, la pulsione di morte, l’unica risposta che l’intelligenza poteva escogitare per rispondere agli angoscianti perché degli “Ultimi giorni dell’umanità” (testo teatrale di Karl Kraus, pressoché coevo). Era una risposta autorevole e credibile, su cui riflettere.
Ma ciò che come un rosso filo di sangue riallaccia il nostro inizio-secolo a quello del secolo precedente, non è tanto la spiegazione del fenomeno, quanto il suo veicolo: l’odio. E non tanto per tentare di capire perché il demens venga anteposto al sapiens, agendo contro se stesso e al fine di ledersi, ma per cercare di vaticinare la catastrofe che ostinatamente ci disponiamo ad inscenare. Perché lo sappiamo, lo sentiamo che l’odio “apre” alla catastrofe; perché sappiamo e sentiamo quest’odio che fermenta nei nostri stessi cuori, e sappiamo e sentiamo che questo è la spia di quello, che l’odio altrui alimenta il nostro e viceversa, e che, come una pentola a pressione, non manca che una scintilla al rombo finale che travolgerà ogni cosa…   
Una scintilla a Sarajevo, giusto un secolo fa, schizzò dalla pistola di un esaltato e diede il la alla più orrenda strage mai compiuta fin lì dall’”homo sapiens”. E anche oggi ci troviamo a un passo da quella scintilla, e lo scimunito che la farà sgorgare dalla sua atroce ignoranza non sarà più scimunito o atroce di chiunque altro “odiatore di se stesso”, noi compresi. E contro chi punterà la sua arma il balordo di prammatica? A chi toccherà? A Obama, al Papa, a qualche altro scimunito presidente da operetta mediorientale? E che importa chi sarà a dare avvio alla festa? È la festa ciò che conta…
I sintomi di questa miccia d’odio pronta a dar fuoco alle polveri della festa finale li si ritrova ognidì sulle testate dei quotidiani. Si va dalla madre sgozzata davanti ai suoi figli dal padre geloso, al pazzo che fa una strage per futili motivi e poi si ammazza; al cannibale che si mangia pezzi dell’amichetto causa l’eccesso di droghe che ha ingurgitato… Un bel guazzabuglio di sangue e morte per il nostro speranzoso avvenire.
Ci chiediamo il perché di questa convergenza di sintomi, perché l’odio di oggi sembra riconnettersi a quello antico, perché sia germinato sotto i nostri piedi pieni d’incoscienza e perché di lì abbia messo radice dentro le nostre arterie, infettandoci fino al cuore… Vediamo figure così gonfie d’odio da venirne trasfigurati, tumefatti e tramutati in grotèsque diaboliche, non più umane, come il Breivik di Oslo. Vediamo accolite di sciagurati, accomunati dall’odio, che inneggiano a qualche losco iddio contro quello degli altri, il cui unico e solo sponsor è la ferocia- che si tratti poi di un dio trascendentale o di un dio del calcio, è uguale, è indifferente. Vediamo persino partiti politici aggregatisi come fa il fango quando si secca, inveire contro e basta, senza cultura, senza discernimento, senza neanche l’alfabeto, a odiare gli altri per la manifesta incapacità di eguagliarli, come i cupi bifolchi del leghismo nostrano.
Eppoi, lo so lo sento, è dentro di noi che l’odio attecchisce. Nel mio stesso odiare gli odiatori, riecheggia il loro stesso odio, tale e quale: è un virus e l’infezione viene di lontano. Da quella “spinta” che ci tiriamo dentro, contro la calma, contro la pazienza, contro la virtù. Tutte doti e vocazioni che non sembrano presso di noi possedere l’aire di resistere oltre il mezzo secolo. È questo il tratto comune tra l’oggi e l’ieri di un secolo fa: c’è troppa pace, che dura da troppo tempo e nel fondo oscuro dell’inconscio alberga una frenesia incolmabile improrogabile rabbiosa di darsi alla gioia fremente della violenza e dell’autodistruzione.

 

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