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Elegia del non-ritorno

Ogni tempo ha i suoi afflati. E così come è impossibile sentirsi felici e coltivare l’entusiasmo sotto i cieli tragici della calamità, o delle guerre, così altrettanto certi sentimenti, certe raffinatezze dello spirito restano privilegi di qualche tempo, di qualche stagione, non di tutti. E anche le inquietudini ne seguono il destino. 
Al tempo della mia età più tenera, noi ragazzini schiamazzavamo in istrada, e la strada era ancora quella dei nostri avi, con i sampietrini sconnessi e le mura intorno screpolate dai secoli. I nostri strepiti risalivano le antiche facciate barocche e melodiavano con quelli delle rondini numerosissime, che nidificavano fra le grondaie. Noi sapevamo soltanto giocare, ma il mondo vecchio all’intorno promanava ancora il fetido aroma dei tempi tragici che ci avevano preceduto, un aroma che si fondeva con quello invece promettente, olezzante come fiori, della ritrovata voglia di vivere e di emendarsi dalle brutture vissute. In giro non si parlava mai del fascismo, o della guerra. Una sorta di pudore e giovinezza insieme aveva steso su quel vecchiume appena trascorso un velo di riguardo, che proteggeva noi ragazzini dalla coscienza dell’abisso dal quale era germogliata la nostra verde età. E pure senza menzione, tuttavia aleggiava come un rimorso in quella rinata atmosfera di fervore, da cui esalava un sentore di gentilezza triste dal quale era arduo restare immuni.
Noi incarnavamo così il tramonto della vecchia Europa, e l’alba del mondo nuovo che planava sul nostro dall’oltre-oceano. E incominciavamo a “sognare la California”, mentre nelle nostre ossa penetrava ancora il “sudore” vecchio della Roma millenaria, imperturbabile, beffarda di un tempo. Il risultato era una incantata e irripetibile malinconia, qualcosa che, come in una favola, mostrava un volto che scompariva, era il presente del passato e del futuro insieme… Tutto iniziò di lì.
Aedi si misero a cantare, ognuno con la sua America immaginaria nell’animo e con le rovine del vecchio mondo nel cuore. C’era come un fervore, un bisogno di parlare, di ripetere il già saputo e scoprirlo nuovo di zecca. La generazione che ci precedeva e che aveva vissuto la guerra, attinse dall’America vittoriosa la gioia di vivere, le mode, le musiche, mentre altri misero in canzone, o in cinema, l’esperienza delle mutazioni che attraversavano il nostro cosmo-mondo. Mi ricordo di Pasolini, o di Truffaut, di Sergio Endrigo o di Monique Serf detta Barbara…
La vita non era stata generosa con nessuno di loro, e talora impietosa con la loro infanzia. Eppure dal crollo della storia e dal periodo di “gentile” inopia che ne era seguito, avevano tratto oro dalla polvere e trasformato la sconfitta della ragione in memoria, in melanconia, in anelito elegiaco. È qui l’irripetibile. Ci voleva la sconfitta della ragione per fomentare la malinconia; e ci voleva la malinconia per un tempo epico ed eclissante, di geni gracili e di matti eccellenti.
Ecco perché la sensazione è quella del non-ritorno. Non possono tornare; anzi, è essenziale e inderogabile che il tempo di quegli stimoli non torni. Ma bisogna simmetricamente rassegnarsi alla scomparsa dalla scena degli spiriti grandi che ne erano scaturiti. In un luogo e in tempo in cui la pietà è fuori luogo e fuori tempo, non nasce più nessuno che possa riconvertirla in sublimazione.
 

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