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La gloria di domani

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Le mani appoggiano con cura il pallone sull’erba, cercando il punto migliore, quello che non tradisce. Piano, senza fretta, costruiscono un piccolo nido nel terreno, che trattenga solo un poco la palla. Il gesso bianco del dischetto sporca appena la sfera lucida.
Gli occhi assecondano ogni movimento. I muscoli del viso, le spalle e tutte le parti del corpo irradiano un senso di assoluta concentrazione. Il mondo, per un momento, è tutto in quel breve circolo.
 
Nulla esiste intorno a lui. Non l’arbitro, che pure ne segue d’appresso con lo sguardo i movimenti. Non gli altri giocatori, riuniti in due distinti grappoli al centro del campo. Nemmeno l’immenso stadio, con la massa compatta dei tifosi che sembrano appesi ai suoi gesti come l’imputato alle labbra del giudice che sta per pronunciare la sentenza. Non le centinaia di milioni di spettatori incollati davanti allo schermo per seguire l’evento più importante della stagione. E neppure io.
 
Si alza lentamente e si allontana di qualche passo, retrocedendo con calma fino ad un punto prestabilito. Poi inarca la schiena e parte di scatto, con quel suo muoversi liquido, per geometrie imperscrutabili, dove ogni arto sembra seguire una sua personale traiettoria, diversa e contrastante con quella degli altri. La sua danza confonde gli occhi. Prima ti inganna, ingarbugliandoti i sensi, poi sembra fornirti una fallace certezza, subito dopo negata, per portarti ancora in un’altra direzione. Ti sbilancia, nascondendo fino all’ultimo le sue reali intenzioni. E invariabilmente i portieri, per quanto bravi, finiscono avviluppati nella sua rete. Senza punti di riferimento, si trovano battuti ancor prima di tentare il tuffo. E’ capitato, più di una volta, di vederli cadere col sedere sull’erba, la resa negli occhi, le braccia aperte come in un gesto di scusa.
 
Questa è una, solo una, delle caratteristiche che fanno di lui il miglior giocatore che abbia calcato un campo di gioco. Mentre ne seguo la fulminea rincorsa mi vengono in mente le cose che si dicono, e si scrivono, di lui.
Sono molti anni che se ne parla. Tanti, lunghi anni, perché la sua carriera è iniziata tanto, tanto tempo fa, quando era giovanissimo. Già a sedici anni si era distinto, al punto da meritare la convocazione in Nazionale. In pochi anni era diventato il leader della sua squadra. Bravo sotto rete, quando c’era da portare a casa il risultato. Ma bravo soprattutto nelle strategie, nel fare di se stesso il perno della squadra, il centro naturale da cui far partire tutte le geometrie. Capace come nessun altro di leggere le situazioni e saperle volgere a vantaggio della squadra. Riesce sempre a trovarsi nel punto giusto e a dare la giusta piega allo svolgimento dell’azione.
Non particolarmente alto né robusto, ma elegante ed armonico in tutti i suoi gesti, ha saputo conquistare la fiducia dei compagni, e l’adorazione dei tifosi, con la serietà assoluta con cui ha sempre svolto il suo lavoro. Proverbiale ed inimitabile anche la sua correttezza. Sul campo e fuori non si è mai lasciato andare a gesti o parole che non fossero ineccepibili. Non si è mai rifugiato in trucchetti o manfrine; se l’avversario dimostra, in un’occasione, di essere più bravo di lui, non cerca di fermarlo con scorrettezze. Potete però star certi che non si dà pace finché non risce a ristabilire la propria supremazia.
 
Ma non è questo che lo ha fatto così grande. Anche se sarebbe più che sufficiente a farlo rientrare fra i grandissimi della storia del calcio. Quello che lo distingue in maniera netta da tutti gli altri è il suo enorme, inarrivabile carisma. La leadership naturale. La capacità di esercitare un potere assoluto senza minimamente darlo a vedere.
Da quando ha deciso che quella era la sua squadra, ne ha sempre indirizzato le scelte, le strategie. Ha deciso gli acquisti di nuovi elementi, chi doveva scendere in campo e chi rimanere in panchina, chi tenere e chi far andare via. La sua impronta è facilmente riconoscibile in tutte le decisioni, nella definizione degli obiettivi della stagione, nel decidere dei premi, in tutto.
Eppure lo ha sempre fatto in maniera discreta, senza imposizioni. Negli anni si sono succeduti diversi allenatori, con i quali ha sempre avuto un rapporto ottimo, di reciproca stima e collaborazione. A nessuno di loro ha mai detto cosa doveva fare. Nessuno di loro si è mai lamentato di sue interferenze. Ha saputo creare, negli anni, un complesso equilibrio in cui i suoi sguardi, i suoi gesti, le pause nel parlare, diventavano espressione della sua volontà. Non aveva quindi bisogno di dire, o peggio, di ordinare qualcosa. A chi gli stava intorno era sufficiente osservarlo per capire quello che andava fatto. E ciascuno lo faceva senza viverlo come una prevaricazione. Era semplicemente la cosa giusta da fare.
Tutti gli hanno sempre riconosciuto una grande capacità di giudizio. Le sue scelte raramente hanno scontentato qualcuno, perché ha sempre saputo decidere in maniera giusta, avendo come punto fermo il bene della squadra.
Non c’è da meravigliarsi se ha saputo quindi costruire un gruppo coeso, capace di raggiungere i più alti obiettivi. Attento fino all’inverosimile al benessere di ciascuno di loro ma implacabile nell’isolare, ed espellere, gli elementi che potessero turbare l’armonia che aveva creato. Non tollera i comportamenti che possono danneggiare la squadra. L’individualismo, il protagonismo, i costumi troppo rilassati lo hanno sempre infastidito e, anche se a volte sembra lasciar correre, prima o poi ritorna sull’argomento per ristabilire l’ordine delle cose. E sempre solo con un consiglio sussurrato a mezza voce, con una pacca sulle spalle, o con l’esclusione del reo da qualcosa di importante.
Con questa squadra ha vinto molto, moltissimo, praticamente tutto quello che c’era da vincere. Gli manca solo questo trofeo. Che vuole vincere oggi.
Non a caso, ha annunciato ieri la sua volontà di ritirarsi. Vuole vincere ed andarsene all’apice del successo. Ed ha costruito questo torneo, e questa partita, in modo da arrivare al suo obiettivo. Ancora una volta le sue doti di stratega hanno portato la squadra in finale. C’è riuscito anche se la critica non ha mancato di sottolineare che il suo gruppo è ormai al tramonto, con elementi ormai troppo anziani e meno capaci di un tempo di meravigliare il mondo con le loro prodezze. Lo ha fatto così bene che oggi tutti gli osservatori sono concordi nel dire che merita di vincere. E, ad essere onesti, ci sta facendo ballare da due ore.
 
Ma davanti a lui ci sono io. Certo, sono molto più giovane e non ho, neppure lontanamente, una carriera densa di successi come la sua. Però, a modo mio, sono anch’io un leader. Così almeno dicono gli altri. Anche se, sinceramente, a me non sembra. O meglio, io non me lo sento, e non faccio niente per esserlo. Se parlo con i compagni, se do loro un consiglio, lo faccio perché in quel momento mi sembra la cosa giusta da fare. Perché voglio dare una mano. Non cerco di impormi e non mi irrito se, qualche volta, non mi seguono. Tanto meno mi importa dei loro comportamenti. Siamo un gruppo giovane, allegro, con tanta voglia di divertirsi, sul campo e fuori. E se abbiamo anche noi combinato qualcosa di importante, credo che sia semplicemente perché sappiamo fare le cose con leggerezza. Sentiamo di avere il vento in poppa; tutto ci risulta facile perché siamo noi a non renderlo pesante. Facciamo con naturalezza quello che sappiamo fare, e se qualcuno sbaglia, gli altri si danno da fare per metterci una pezza. Normalmente non ci sono recriminazioni. E’ vero, quando perdiamo diventiamo scontrosi e ci è capitato di azzuffarci, di scontrarci duramente. Ma è sempre durato il tempo di un attimo. Dicono che io sia particolarmente capace di intervenire proprio in questi momenti. Gli altri mi riconoscono una grande capacità di tenere la squadra. Ma non per questo mi sognerei mai di interferire con le scelte del mister o di pretendere determinati comportamenti.
Io cerco solo di fare la mia parte e, nel mio ruolo, so di essere il migliore di tutti. Non mi voglio lodare, ma è la verità. Sarei ipocrita a negarlo. L’ho capito da tempo, confrontandomi con gli altri. Sarà perché sono un gran pignolo. Estremamente pignolo, quando si tratta del mio lavoro. E passo tanto tempo a studiare gli avversari, a individuarne caratteristiche e difetti. A conoscere a fondo l’ambiente dove passo la gran parte del mio tempo.
Sono bravo, è un fatto. Ma la cosa non mi tocca più di tanto. Mi capita raramente di pensarci e anche allora non ci trovo nulla di straordinario. Io non ho fatto nulla per esserlo, se non lavorare seriamente. Ma quello lo avrei fatto comunque, anche se fossi una schiappa, perché mi piace metterci impegno nelle cose che faccio. E poi per me non esiste solo il calcio. Oggi ci sono dentro e mi ci immergo volentieri. Ma non mi piace che la mia vita si limiti a questo. Ho tante altre cose nella testa. Mi piace studiare e fra un po’ penso di laurearmi. Mi piace divertirmi, conoscere gente e girare il mondo. Cerco di sperimentare situazioni nuove e mettermi ogni volta in gioco. Il caso mi ha fatto dono di grandi capacità in questo mio ruolo attuale, e sarei un imbecille a sciuparle, ma so che non sarà così per sempre e, di sicuro, voglio scoprire cosa so fare al di fuori di qui.
 
Un famoso scrittore, concedendosi la libertà di scrivere su di noi, ha intitolato il suo articolo “Così diversi, così simili”.
“Tutto in loro appare diverso: il ruolo in campo, il modo di intendere lo svolgimento del gioco, il rapporto con i compagni, anche lo stile di vita e l‘appartenere a due generazioni così distanti nei comportamenti, seppure contigue.
Sono differenti per aspetto e corporatura, il primo breve ma armonico, scuro di capelli, mediterraneo. L’altro alto, smisurato nelle leve, potente e biondo come un dio vichingo.
L’uno è giovane e porta con se una fatua aura adolescenziale. E’ fino in fondo figlio del suo tempo. Si muove senza il peso di una fede, laica o religiosa che sia. Sembra inventare lì per lì le sue scale di valori, buone solo per quell’occasione e pronto a cambiarle un momento dopo. L’anziano ha scolpiti sul volto i segni di una maturità antica. Non sono solo le tracce delle mille battaglie, delle sofferenze e delle rinunce patite. Sono lo specchio di una consapevolezza profonda. E’ il retaggio che si porta dentro, quasi fosse (e forse lo è) l’ultimo custode di quell’etica del lavoro che avevano le persone nei decenni più lontani. Quella certezza di essere i custodi di qualcosa di importante, che hanno accumulato nel corso di anni, imparando tutti i dettagli del loro mestiere. Valori assoluti, da custodire e tramandare, da usare in ogni espressione della propria vita.
  
 Eppure, a ben vedere, se andiamo alla radice dei loro comportamenti, del loro modo di essere leader, non possiamo non vedere come esso sia fondato (al di là del modo affatto diverso di esprimerlo) su pochi ma solidi pilastri: la solidarietà, la giustizia e la prossimità ai loro compagni. Hanno entrambi la capacità di ascoltare e valutare con giudizio ed imparzialità, caratteristica che fa di loro due grandi uomini ancor prima che grandi campioni.
I prossimi giorni ci diranno se il giovane pretendente al trono saprà sbalzare di sella l’anziano condottiero. In ogni caso, anche se il campione avrà saputo rimandare ancora una volta l’inevitabile fine, non potrà avere erede migliore.”
 
Mentre lui sviluppa la sua danza verso il pallone io so, lo so con assoluta certezza, di essere in grado di parare il suo tiro. Conosco il suo segreto. L’ho capito. Non bisogna cercare di seguire i suoi movimenti. Non bisogna provare ad anticiparne le intenzioni. E’ troppo bravo nel confonderti. Bisogna invece essere capaci di non vedere, di annullare quel suo balletto infernale e concentrarsi solo su un particolare. Chiudere il contatto visivo per tutta la durata della sua corsa fino al momento in cui mette a terra il piede d’appoggio, subito prima di calciare.
L’altro piede. Osservandolo infinite volte ho finalmente capito che quello è l’indizio rivelatore. A seconda di come lo posa sul terreno, la direzione, l’angolazione, la forza con cui lo appoggia, io sono in grado, io solo fra tutti, di capire immediatamente dove e come arriverà il pallone.
L’ho già fatto. Più volte. Ed ha sempre funzionato. L’ultima volta meno di mezz’ora fa, quando l’arbitro gli ha concesso il rigore che poteva chiudere la partita. Ma io gliel’ho parato.
 
Quindi, anche ora so benissimo come andrà a finire: l’ultimo passo della sua rincorsa. Lo schiocco secco del piede sulla palla. L’adrenalina che mi fa partire di riflesso. Una botta forte sulle mani e via, pronti per un altro giro.
 
E invece… Subito, qualcosa, in una ridottissima frazione di secondo, mi dice che non sarà così. Qualcosa che non sono ancora in grado di afferrare. Ma un qualcosa di preciso.
 
Mentre la folla sugli spalti è come bloccata, ferma ad aspettare il suo tiro, nel’attesa spasmodica del giudizio, io sono già avanti, teso a capire quale nuova piega ha preso la faccenda. Perché il suono che mi arriva finalmente all’orecchio non è quello di un colpo secco, fra scarpa e pallone. E’ piuttosto un soffio ovattato, delicato, come di uno strusciare. Qualcosa di assolutamente fuori luogo. Il pallone, colpito di striscio, inizia a rotolare piano verso di me. Invece di partire come un proiettile, teso a bucare la rete che mi sta dietro le spalle, si muove lentamente verso la porta, caracollando fra le zolle d’erba. Invece di un lampo, una moviola.
 
Un pensiero mi fulmina la mente: ha sbagliato! Lui, proprio lui, il più grande, ha mancato il pallone! Nel momento più alto, quello che gli poteva dare il sigillo definitivo di una carriera straordinaria, ha sbagliato come un ragazzino alle prime armi.
Guardavo il pallone venirmi incontro inerme, quasi buffo nella sua ostinazione a superare ogni singolo avvallamento del terreno e non riuscivo a pensare ad altro che all’enormità del suo errore. Fissavo la palla, ormai quasi a metà strada fra di noi, e non avevo il coraggio di guardare lui, di vedere nei suoi occhi lo sgomento di chi fallisce.
 
Mentre distendevo i muscoli, che non erano più chiamati ad un balzo fulmineo, provavo a pensare come dovesse sentirsi in quel momento. E ciò mi dava una grande tristezza. Proprio la sua grandezza lo rendeva più fragile quando sbagliava. Il suo pensare innanzitutto alla squadra, il negare la propria superiorità per metterla tutta al servizio del gruppo erano gli elementi che si stavano in quel momento conficcando, di sicuro, nel suo cervello. La sua mancanza di egoismo rendeva l’errore ancora più grave. Ai suoi propri occhi, assolutamente inammissibile. Lui si giudicava, ed era abituato a farlo con severità.
 
Guardavo ancora il pallone che si avvicinava al palo alla mia sinistra, ma sapevo di non potermi sottrarre. Allora ho alzato lo sguardo fino a lui, pronto ad assorbire tutto lo sconforto che poteva emanarne.
 
Il suo corpo non si era quasi mosso dal momento del tiro. Era fermo, come sospeso in una posa plastica. Il suo peso appoggiava tutto sulla gamba destra, l’altra lanciata all’indietro ed in alto. Il busto, proteso in avanti, era bilanciato dalle braccia aperte. L’insieme era armonico e potente.
 
Gli occhi erano fissi sulla palla, a seguirne ogni movimento. L’espressione del viso, quella di chi sta calcolando i possibili esiti di un buon colpo. Non c’era sgomento, non c’era disperazione in lui, ma solo una vivida tensione agonistica.
 
L’aria si stava riempiendo dei gemiti increduli delle persone che osservavano la scena. Lo stupore, che usciva da migliaia e migliaia di bocche, si riversava ad ondate su di noi. Tutto lo stadio osservava smarrito lo strano errore del grande campione.
 
Ma ancora una volta mi toccava essere più lesto di tutti nel comprendere la realtà. Una scossa, come di elettricità, mi partì dalla spina dorsale, in mezzo alle reni. Con la forza di un arco riflesso mi invade i muscoli, riportandoli a livello di guardia, mi entra nel cervello spazzando via tutti i pensieri finora maturati.
L’HA FATTO APPOSTA!
L’HA FATTO APPOSTA!
L’HA FATTO APPOSTA, CAZZO!
Non ha sbagliato! Nossignore, lui ha calciato in quel modo perché era in quel modo che voleva calciare. E’ tutto calcolato. E calcolato alla sua maniera. Ovvero, tutto in ogni minimo dettaglio: il calcio al pallone, la forza impressa, la direzione – proprio all’angolo sinistro della porta – e anche, ora me ne rendo conto, l’effetto su di me.
 
Lo guardo con più attenzione. Lui mi fissa, serio come sempre. Non c’è traccia di beffa nei suoi occhi, né di supplica. C’è solo una forza tranquilla, di chi sa di stare facendo la cosa giusta. C’è un messaggio non detto, ma chiaro.
Con quel tiro lui riconosce la mia nuova superiorità. Sa di non potermi battere. Non con la sua solita arte. Sa che, per quanto possa mascherare le sue intenzioni, per quanto possa accentuare l’effetto delle sue finte, io non mi faccio ingannare. Nulla può contro di me, perché, ora, sono io il migliore.
 
Ma, nello stesso tempo, il suo non è un gesto di resa. E’ un gesto troppo voluto, troppo perfetto nella forma paradossale che gli ha voluto imprimere. La lentezza estrema del pallone, questo suo assurdo rotolare al rallentatore, è il lascito più pesante. Perché mi da il modo di pensare. E, pensando, di decidere. Di scegliere quale sia la cosa più giusta. Lui sa di darmi un peso enorme, ma sa anche che io non mi sottraggo alla sua sfida.
 
Mi riconosce la superiorità tecnica. Ma vuole toccare con mano, mettendomi ad una prova terribile, quale tipo d’uomo c’è dietro all’atleta. Ed io mi trovo solo contro il mondo.
 
Allora mi rialzo del tutto, rilassando finalmente i muscoli. Lo guardo intensamente e gli sorrido, mentre sento il fruscio del pallone che struscia contro il palo prima di varcare la linea di porta. Lo guardo come se non ci fosse altro intorno, ma sento dentro di me gli occhi dei miei compagni, le domande inespresse del pubblico sugli spalti, quelle che verranno più tardi, domani, da tutto il mondo. Ma non mi opprimono, al contrario, mi sento leggero e col pensiero dico ai miei compagni: ”E’ un grande uomo, che vince la sua sfida. Voi siete giovani. Siete – con me – un gruppo compatto, in grado di raggiungere tutti i traguardi. Siate sereni, per voi c’è la gloria di domani. Oggi, tocca a lui”. 
 

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