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L’ultima chance dell’ontologia

Ci sono due argomenti che l’attualità ci suggerisce in questi giorni. Uno viene dalla radio, se non sbaglio: si è parlato della condizione del triste, come di una sindrome che può gravarsi di risvolti cronici e drammatici in cui il soggetto tende, alla fine di un percorso “patetico”, ad assumersi la colpa universale come propria. Il concetto di colpa è connaturato al nostro sistema sensibile e coscienziale, e l’idea di una colpa grava su di noi fin dai primordi della storia. Ma se tale fase “normale” del nostro status assume facce patologiche, è allora che scatta il registro della psicosi e il soggetto normale si precipita nel mondo degli ansiolitici  I quali, essendo sintomatologici, curano la conseguenza, non la causa. E la causa è la disperazione. Già, ma cos’è la disperazione?.
L’altro argomento è il NDE, ossia l’esperienza pre-morte condotta da alcune vittime di ictus o di incidenti d’auto. Una di queste, di questi giorni, è stato un dottore americano, Eben Alexander, laico e scettico, che all’uscita dal coma, ha parlato di “ciò che si vede” subito oltre la vita: un mondo edenico, fluttuante, creaturale, assai prossimo alle descrizioni letterarie del paradiso. E in più, immerso in un’aura estatica, molto rasente al piacere. Beh, se lì ci interessava la disperazione, qui il tema è l’oltre, l’altrove, l’al di là- ma non nel senso corrente, bensì in un senso speciale che emerge da quest’ultima testimonianza. Ma andiamo per ordine.
1- La disperazione. Che cos’è? La definizione significa letteralmente: destituzione, dissociazione dalla speranza. E la speranza è una causa originaria nell’assetto psichico dell’essere, che altrimenti soccomberebbe alla concausa opposta, appunto, la colpa. È ciò che i filosofi definiscono l’”anelito”, che è anelito verso una sorta di innocenza perduta a cui la sola speranza sarebbe in grado di restituirci. Quindi, originariamente, la tristezza è universalmente il ricordo di quella innocenza, collegato alla impossibilità della sua ricomparsa, della sua restaurazione sull’orizzonte dell’accadere. Ora, questa non è senza quella, per il che chi non sa esser triste, non può neanche sperare, e viceversa. È la proliferazione esagerata di una componente a scatenare l’aberrazione patologica, ossia la crescita incontrollata della tristezza, che si eleva al parossismo e culmina in smanie autolesionistiche, ovvero di speranze inusitate e visionarie che elevano del pari il fanatismo al livello neuro-psichiatrico. Ora, ci chiediamo, perché esistono questi binomi, perché ne siamo affetti? Perché alla diade colpa-innocenza si oppone quella della tristezza-speranza? E invece di una risposta, arriva la sia pure rassegnata constatazione che in fondo la disperazione, o la tristezza, sono stati “sublimi”, che  rendono consapevoli le nostre “imprese” e le nostre condotte, mentre sperare a vanvera, come è tipico di certo estremismo, porta alla catastrofe. Dato che siamo tristi e speranzosi, dovremo imparare a intrecciare le nostre vite con la tristezza e con la speranza.
Ma il concetto della “colpa di esistere” si collega ad un contrario indiscutibile: la incongrua gioia, invece, di esistere che ogni nascituro manifesta con lampante evidenza. È questa coppia, verosimilmente, la causale anche di quelle sopraccitate. E le due parti insieme si potrebbero riannodare al secondo tema che avevamo introdotto, quello delle NDE. Continuando ad andare per ordine, osserveremo che, essendo il binomio “colpa/gioia di esistere” ingenerato nell’essere sin dalla sua più remota costituzione, si potrebbe attribuirgli una provenienza, o una destinazione, diverse da ciò che vogliamo coincida con scienza, coscienza e conoscenza. E il discorso cadrebbe nella metafisica, riallacciandosi appunto all’altra tematica di apertura. Ciocché non avverrà prima di aver aperto questa parentesi: in un campo fiorito, vediamo mucche e vitelli pascolare serenamente. Il loro livello di coscienza è vicino allo zero, e tuttavia sono assolutamente consapevoli di ciò che fanno e di come farlo. In questa scena è rilevante l’assenza di un convitato a noi ineluttabile: il destino. Quegli animali non sanno un assoluto accidenti di ciò dove sono e di cosa avverrà. Non si interrogano, sanno già cosa è la propria essenza e cosa fare per mantenerla tale. Non conoscono previsioni del tempo, non si preoccupano di “come è fatto” il cibo, o il campo che glielo concede, o cosa sia la pioggia e perché invece splenda il sole. Non ci sono domande. L’essere è soltanto nella sua totale immediatezza e, in quanto tale, è felice. E la domanda è solo questa, e ricade su di noi, non su di loro: perché sono felici di esistere?
Ciò detto, ecco il punto 2: il dottore neuro-chirurgo Eben Alexander, da laico-scettico che era, e grazie ad una pre-morte causata da una meningite, ci racconta di aver visitato il Paradiso: un luogo incantevole, soggiornato da creature dotate “di scia” che si percepiscono come proiezioni perfette della nostra condizione di umanità. Niente di nuovo dunque dalle dichiarazioni analoghe di altri soggetti con analoghe esperienze. La differenza sta nel già detto: era neuro-chirurgo. Tutte le fasi della sua crisi erano monitorate dal suo stesso staff medico, e questi ci assicurano che i neuroni del suo cervello, e precisamente quelli preposti alla registrazione di emozioni e sentimenti, erano inattivi, cioè, fermi, immoti, morti. Questo non può accadere quando si sogna normalmente. Men che meno se il sogno è fortemente esaltante e “commovente”, per così dire. La risposta va cercata fuori da Eben Alexander. Il sogno non era dentro di lui. Con il che voglio solo dire che non era nel suo inconscio. Non era, come spiegano alcuni psicoanalisti, un fattore di neuroni “sparati” fuori dal Sé e messi in aspettativa, da qualche parte, sopra la quasi-salma del neuro-chirurgo. In tal caso, le macchine a cui il cervello del dottore era collegato, avrebbero registrato un qualsiasi impulso dello stesso. Il suo sogno non avveniva nel suo cervello. Era altrove.
Ora, è possibile immaginare che questo altrove sia il medesimo onde cui provenivano le diadi considerate più sopra: la tristezza/speranza, la disperazione/fanatismo, la colpa/gioia. Una alterità in cui il senso della vita è sostanziale e aurorale. In tal caso, disporremmo di una prova ontologica  sufficiente a stroncare ogni scetticismo. Ma questa prova non c’è, non esiste. Possiamo soltanto congetturare un altrove, non predicarlo. E la nostra congettura ci porta a questo: dobbiamo immaginare che nella struttura conosciuta del nostro assetto psicofisico ci sia una lacuna? Che qualcosa di cui siamo fatti sfugge alla nostra osservazione e ci resta inafferrabile, come, per esempio, il funzionamento di batteri e anticorpi nel Medioevo? C’è un plus, recondito, buio, imperscrutabile, nelle nostre conformazioni che non è neanche inconscio, e che resta completamente precluso alle modalità del conoscere? È possibile che siamo fatti anche di qualcos’altro, situato fuori dal recinto della percezione e che ci è sconosciuto perché non rientra nei parametri del conoscere, come era, per esempio, l’inconscio prima ancora di Descartes? È possibile, è concepibile un’altra essenza nostra, non coincidente né con il corpo, né con il cervello, né con i sentimenti, né con l’inconscio? Un pezzo di noi sconosciuto e inafferrabile che, come l’antimateria, sia “fatto” da qualche parte e ci cammini parallelo senza rendersi mai esplicito?
Al di là di qualsiasi “oracolo” su questa materia, ci è possibile soltanto una constatazione di fondo. Che cioè, concedendo plausibilità a quel tale e ignoto “altro”, consegniamo un’ultima, estrema chance all’ontologia, lasciando coesistere, accanto al rassegnato e cinico nichilismo (sia pur rimosso) del nostro mondo funestamente tecnologico, una fragile via d’uscita trascendentale. Ma non nel senso che esista qualcosa al di là, dopo, oltre noi. Ma nel senso che ci sia sfuggita un’essenza nella nostra stessa costituzione che ci riconnette al tutto. Ecco, magari, forse, l’altrove è il tutto, l’insieme, che, nel nostro disperato solipsismo, ci è divenuto indifferente e inaccessibile.   
 
 
 

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