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Corso Sardegna

Vedeasi la oscura e nubolosa aria essere combattuta dal corso di diversi e avviluppati venti, misti colla grav‹e›zza della continua pioggia, li quali or qua ora là portavano infinita ramificazione delle stracciate piante, miste con infinite foglie dell’altonno. Vedeasi le antiche piante diradicate e stracinate dal furor de’ venti. Vedevasi le ruine de’ monti, già scalzati dal corso de’ lor fiumi, ruinare sopra e medesimi fiumi e chiudere le loro valli; li quali fiumi ringorgati allagavano e sommergevano le moltissime terre colli lor popoli.
Leonardo, Diluvio.
I ragazzi erano un po’ eccitati, per così dire. E si erano appostati alle finestre di casa per assistere allo spettacolo, vagamente catastrofico nelle premesse, di tutta quell’acqua che si disponeva a discendere nelle loro strade, là sotto. Ci figuriamo che avessero giocato a palla , là sotto, qualche anno avanti, che ci avessero trascorso pomeriggi interi a confabulare coi loro coetanei di canzonette, di Playstation  e di chissà cos’altro. E adesso, tutto quel cancan di cinema catastrofico aggratis che si apriva proprio là, sotto le finestre di casa… Un’occasione da non perdere, si direbbe, è perciò che si sono attrezzati davanti a quelle finestre, muniti delle necessarie “armi” mediatiche in dotazione a qualunque qualunquista braccato dalla smania di partecipare ad eventi “immortali” pur di apparire, pur di sembrare di essere.
Così, quando lo spettacolo inizia, li troviamo curiosi e infervorati in “galleria” a registrare, telefonini, tablet & company alla mano, il corso degli eventi che di lì a poco gli si verrà sciorinando sotto gli occhi. E quando le rapide acque iniziano a riversarsi ribollendo sull’asfalto, i loro gridolini divertiti fanno loro da controcanto, col loro giocondo turpiloquio che è la cifra comune di tutta una generazione, incapace altrimenti di esprimere emozione se non appunto nella volgarità, o nella “trasgressione”, com’è d’uso parafrasarla. E allora, non transita ramo spezzato, o piccolo oggetto, trascinati dal moto senza tregua delle acque, che non venga sottolineato dalla massima espressione di stupore a disposizione: “cazzo!”. E anzi, se passa alcunché di più significativo, che so, una bici, un secchio, lo stupore raddoppia, triplica: “cazzo cazzo cazzo!”.
Come a dire: “Incredibile! Straordinario!”, con una punta maligna di compiacenza davanti a quella straordinaria bufera. Ma c’è un ma, cazzo! Qualche ruota non gira dalla parte giusta, e l’orologio della catastrofe corre verso un’ora X imprevista e mica tanto divertente…
C’e in tutta la nostra esperienza degli eventi, davanti all’accadere e al divenire dell’incontrovertibile assetto dinamico della nostra condizione, un punto archimedeo, una sorta di cuspide del senso che introduce una differenza ontologica tra il suo prima e il suo dopo; un punto critico oltre cui, quale ne sia la conseguenza, favorevole o infausta, quel “prima” si converte fatalmente in un “adesso” – o un “dopo” – definitivamente trasfigurato.
Nel nostro caso, assistiamo ad una metamorfosi del senso, ove il paesaggio trapassa dal genere catastrofico alla tragedia. E dove, di conseguenza, l’emozione si trasla in paura e poi in terrore, lutto e pietà. Il punto archimedeo è quello del livello crescente delle cateratte d'acqua che precipitano sul Corso: fino alle caviglie è spettacolo, sia pur catastrofico; oltre tale livello è l’ignoto, il terrore arcaico della punizione divina, è il diluvio. E così, il linguaggio, ossia ciò di cui siamo pur fatti, insegue quel precipitare degli eventi nell’orizzonte tragico in cui si va gettando. E “cazzo!” diventa “oddio!”, fino a che il linguaggio si depura di quella connotazione trasgressiva-spettacolare per passare anche lui sotto le insegne della tragedia.  

Ora, vedeasi quel mare di fango ingigantirsi, spalancare immense fauci d’acqua e ingurgitare nel suo boccone insaziabile ogni santa cosa. Biciclette, motociclette, cassonetti, automobili, tutto scivola dentro la sua atroce trachea alluvionale e trascinato nella sua ignota digestione, chissà dove, dabbasso. Le auto in sosta non sostano più e finalmente sull’angolo opposto della via laterale, ecco sciaguattare dentro una persona. E le ragazze adesso piangono e urlano contro, non più a favore, di una emozione divenuta divorante e insopportabile. L’”annegato” viene invece salvato da qualcuno e l’attenzione si gira sul sottostante marciapiede. Ci sono dei pedoni, o dei “naviganti”, colà, la cui evidente intenzione è di attraversare, ossia guadare, quel Corso convertito in fiume. E la ragazza che lo sta filmando stavolta si interpone e grida qualcosa. Ecco, mi pare di sentirla: “Vada via di lì!” Grida. “Vada via di lì! È pericoloso!”, lo ammonisce una prima volta, e poi ribadisce: “È pricoloso…”, con un tono discendente che ha qualcosa di querulo, di implorante, come a significare: “La prego, la imploro: non faccia che io debba vedere come si accinge ad andare a morire…" E anche con un pizzico di dolente auto-persuasione, come se fosse impossibile credere davvero ai propri occhi.
Il turpiloquio è totalmente svanito. La tragedia non si addice alle “stronzate”. Al posto dello sproloquiante “cazzo”, si è instaurata un’altra cantilena, ripetuta ossessivamente come un anatema: è un disastro, è un disastro, è un disastro, è un disastro…


 
 
 
 
 

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