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Il terzo incomodo

Una cosa da dire l’avevo ed è un’idea che lentamente mi si fa strada nel comprendonio, come qualcosa che nasce ed esplicita una sua ragione di esistere, diventando  via via inderogabile.
 È che c’ho un pensiero, un’idea, un concetto, che da un po’ in qua mi marca stretto, come volesse da solo aprirsi un varco nella mia coscienza. Un pensiero d’altronde che “puzza” un po’ di religione e che quindi, come tutte le religioni, sa un po’ di delirio. Sia pure: la condizione umana, appesa agli idoli del logos, è di per sé delirante e il delirio non cambia faccia se lo rivestite di fede o d’ateismo. Di tale pensiero, o concetto, o essenza, mi ero già fatto poco addietro una mezza idea, che suonava così: È possibile che siamo fatti anche di qualcos’altro, situato fuori dal recinto della percezione e che ci è sconosciuto perché non rientra nei parametri del conoscere, come era, per esempio, l’inconscio prima ancora di Descartes?
Ora, se cerchiamo di concretizzare una immagine gestaltica dell’inconscio, ecco che ci rammentiamo del “racconto” di Freud: l’inconscio è un cerchio grande, retro-agente alle spalle del cerchio assai più ridotto della coscienza. Ecco (a parte il giudizio sulla attendibilità o meno di questa impostazione), proprio lì cadeva la mia domanda: per tutte le epoche e i tempi della storia, solo nei nostri ultimi 100 anni (salvo qualche sporadica avance intellettuale) si è avuta finalmente consapevolezza dell’esistenza di questa sezione infinitamente più estesa dell’essere: è possibile? Se rispondiamo di sì, è lecito porsi anche la domanda successiva, ossia quella citata sopra: se per migliaia d’anni e nei secoli dei secoli, la porzione più cospicua dell’essere è sempre stata disconosciuta e ignota all’essere, non potremmo supporre di  non conoscerlo tuttora per intero e immaginare altre sezioni ignote e recondite? E magari ontologiche, essenziali, trascendentali…?
Ora, noi sappiamo, o riteniamo attraverso il sapere, che siamo fatti. La nostra indagine penetra nella strutturalità, anche sottile, delle nostre membra e ci illustra fin nel dettaglio più recondito la forma e la funzionalità di questo “esser fatti”. Veniamo quindi a conoscere che l’apice di questa machina che ci tiene in vita è costituito dalla ragione, o intelligenza. E l’apice di quest’ultima, ossia il suo patrimonio più cospicuo, è l’inconscio. E con ciò, siamo già fuori dal dominio della materia: l’inconscio non è fatto. Anche se il suo corso dipende da determinati processi chimici all’interno del sistema nervoso, noi non possiamo già più affermare che l’inconscio dimori in una qualche forma anatomica. L’anatomia, con le sue reazioni chimiche, arriva ai sentimenti e questi alla ragione. L’inconscio è già nel regno dell’astratto. Diciamo che esiste, ma postularlo è pura astrazione, perché non trova una collocazione adeguata nell’anatomia umana.
Adesso, se noi dicessimo: la machina del corpo apre alla ragione, quella della ragione apre all’inconscio e l’inconscio non è che un’altra scatola, un'altra porta che apre a… l’ignoto?… Se noi formulassimo un Ignoto come inconscio dell’inconscio?… Se ipotizzassimo un altro lato ancora dell’essere, un lato oscuro che, come l’inconscio per le infinite interpretazioni e determinazioni delle attitudini umane, fungesse da catalizzatore di essenze sconosciute e magari escatologiche del nostro destino?… Se dicessimo che supponiamo qualcosa come un senso, una spiegazione totale, una sorta di Summa Teologica del significato (oltre che del significante) dentro e oltre l’inconscio- una specie di sottostruttura invisibile, ineffabile, che trascende e spiega quella pur già in sé astratta e immateriale dell’inconscio…?
Se la nostra realtà fisica si palesa come unità indagabile, offerta alla speculazione della ragione, la quale invece fuoriesce, si sottrae, da tale unità mercé il moltiplicatore dell’inconscio, potremmo postulare un terzo ente, completamente astratto, che esce dall’inconscio, o che magari vi entra, per connetterlo con la sua propria spiegazione ultima. Un Senso globale che chiuda il cerchio dell’esistenza con una sorta di compimento epico tragico e trascendente del particolare nell’universale.
Prendiamo ad esempio un computer: il computer è una scatola, o un archivio se vogliamo, che reca al proprio interno un’altra scatola, la quale ne prevede a sua volta altre ancora e così via. Il suo obiettivo è la conoscenza, l’informazione, e questa, da ultimo, racchiude il proprio segreto soltanto nelle sue ultime diramazioni. Ora, se il computer è una realtà fisica e sensibile, i suoi “segreti” sono tuttavia incompenetrabili ed astratti a chi non sia in grado di decodificarne le funzioni. Le quali di “fisico” non hanno che il supporto - lo schermo su cui appaiono le informazioni, per esempio – ma che in sé non appartengono proprio al mondo sensibile. Ossia, l’esistenza di un altro mondo, oltre quello rilevabile dai sensi, non è solo postulabile, ma è lì, alla portata di chiunque si prenda la briga di testimoniarlo. Questo altro mondo è quello del conoscere, della coscienza, del logos, il che implica l’estensione all’infinito dell’inconscio. Ora, noi non sappiamo se in questo territorio infinito dell’inconscio non esista qualche altra cosa che non si vede, non si sente, non si tocca. La nostra scienza muove dall’osservazione dei dati sensibili della realtà cosiddetta concreta, verso quelli astratti della conoscenza dei medesimi. Su questi grava altresì  la oscura incognita dell’inconscio, il quale è come il superacceleratore di Ginevra: spara le monadi intellettuali a una tale velocità che esse finiscono per generare nuova materia, per così dire, sia pure ontologica, incorporea, invisibile.
Di qui la mia illazione sulla possibilità di una ulteriore struttura, al di là dell’inconscio, che, come questo sovrintende alla coscienza, governa la fragilissima geometria ontologica dell’essere. Un terzo ente soprasensibile (non perciò necessariamente trascendentale) che legherebbe insieme la materia e la coscienza (l’auto-coscienza) in un nodo essenziale tra l’essere esteso, il mondo, e quello inesteso, contratto, ossia il logos; tra l’interno e l’esterno; tra il cosmo, massima dilatazione aperta di “ciò che è”, e l’io, sua massima contrazione che però lo contiene- perché, non ci fosse io a dire “il cosmo”, chi altri potrebbe dirlo?.
 
 
 
 

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