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Tragedy

L’inferno è ora. Siamo vivendo un’era tragica ove tutti i segni preannunciano l’abisso già intravisto da Anna Frank nel suo celebre diario. Con questa lieve variante: l’abisso odierno non ammette resurrezioni. Quando le sue crepe si spalancheranno sfavillando sotto di noi, sarà per sempre.
Può sembrare strano, ma colgo uno di tali segni in un luogo imprevedibile: il sindacalismo italiano. Che sta, ineluttabilmente, inconsapevolmente, sprofondando nel fascismo. E nel modo che sembrerebbe coincidere col suo proprio e più ovvio mandato, che sarebbe quello di difendere i diritti dei lavoratori. Ora, non solo il “diritto al lavoro” suona, sin dai tempi di Anna Arendt, come una specie di “diritto alla schiavitù”, ma connettere l’idea del lavoro alla struttura del diritto non trova una fondazione cognitiva adeguata e inoltre emana l’aroma novecentesco di un sogno necessariamente mendace. Perché?! Perché il “lavoro” come fu concepito in quel secolo e nel precedente si è estinto, dileguato, e difenderlo come diritto trabalta in una sorta di corporativismo di salvaguardia di un passato, oramai al gusto di privilegio. Così il diritto si cangia in privilegio. Viene in mente “Fronte del porto” il famoso film di Elia Kazan…
Qui la domanda cade sul concetto di “diritto”. Cos’è il diritto? E perché diciamo che, applicato a quello di lavoro, risulta privo di fondazione cognitiva?
Il lavoro è il fare, il darsi da fare. Cosa che il previdente sceglie liberamente per sé e i suoi cari, onde proteggere e sfamare ambedue. Altri lo evitano e preferiscono cicaleggiare beatamente finché dura, poi si vedrà. Il che si traduce di massima nel saccheggio da parte dei secondi dei beni serbati e custoditi dai primi. Introdurre un principio di diritto qui, equivale a ridurre tale eventualità e quindi l’occasione di delinquere per alcuni, i quali magari lo faranno uguale, ma contravvenendo al codice morale e civile così istituito. Ma ciò non è sufficiente a convalidarlo cognitivamente, ossia logicamente. Il diritto trae necessità da un sistema di regole costruite razionalmente sulla base dei rapporti intersoggettivi concepiti in chiave egualitaria e legittima. Ma il lavoro è scelto, è libero, quindi non può essere legittimo (ossia a rigore di legge), altrimenti sarebbe inculcato e non si potrebbe scegliere. Avere diritto al lavoro sarebbe perciò qualcosa di eccentrico che privilegia ciò e chi vorrebbe invece “uguale”.  Così, mentre l’accesso ai beni, in primis la casa e il cibo, può essere considerato un diritto umano, quello al lavoro è pura invenzione dell’ingegno e in sé moralmente ineccepibile e meritorio, mentre dal punto di vista legale  e legislativo è una lodevole, apprezzabile forzatura. Perciò decade e si trasforma in  privilegio, perché il mondo del lavoro non è stabile e definitivo. Al contrario, esso non è mai il medesimo e varia col variare delle condizioni reali dell’uomo. Di modo che oggidì assistiamo ad una metamorfosi epocale: mentre da un lato il lavoro umano si eclissa surclassato dal lavoro delle macchine, che sempre più ne prendono il posto; dall’altro si affacciano sul mercato del lavoro milioni e milioni di individui disposti a sottoporsi a schiavitù e sfruttamento pur di sopravvivere. In queste condizioni, difendere il lavoro di singole categorie che svolgono un  lavoro che non serve più, assume i contorni del corporativismo che difende i privilegi oramai obsoleti di classi in via di estinzione (cfr., per esempio, i metalmeccanici).    
Altro è laddove il coté morale dell’approccio al lavoro resta tale. Se il lavoro viene permeato di moralità, diviene un obbligo nobile, sottrarsi al quale diminuisce in sé la propria bontà. Di modo che il lavoro s’investe di eticità e chi vi si sottrae troverà dentro se stesso il referente della propria auto-inquisizione. È il caso germanico: l’etica nordica e un po’ luterana del lavoro imbriglia e sussume il concetto di diritto a quello dell’obbligo morale, affrancandosi dal gravame di possibili fomiti di discordia e di iniquità correlati al rigore della costituzione. È l’unica possibilità di salvare il salvabile del mondo del lavoro. Che ognuno ne sia auto-responsabile, oltre che coautore. Altrimenti, pur affiancato dall’enorme macchina del diritto, si dissolverà. 
Raccordandoci adesso alla cupa intestazione qui sopra, ci interroghiamo per primi su quel filo un po’ surrealista col quale abbiamo annodato tragedia e sindacalismo. Il fatto si è che si trae segno, dalla vicenda sindacale nostrana, di quel non voler cedere, quel volere arroccarsi in difesa di un privilegio concepito come diritto e che sa un po’ di sogno spezzato; di illusorio sentiero verso la felicità – per di più soltanto economica -, di un generale sgomento davanti all’incalzare dei nuovi fermenti epocali che provoca chiusura e arretramento verso il passato di chi è già troppo “demodé” per il presente e addirittura astratto ed inerme rispetto al futuro. Per altro, quel diritto alla felicità di un lavoro somiglia fin troppo al “diritto alla felicità” tout court sancito dalla costituzione statunitense e che fin troppo, negli stessi ambienti sinistrorsi di cui parliamo, è stato esposto al pubblico ludibrio come imbroglio capitalista.
Ma qui trattiamo di migliaia, di centinaia di migliaia di poveracci che, come noi d’altronde, si ritrovano davanti a un “nuovo che avanza” irriducibile e più ingiusto che mai. Già, ma non è difendendo un lavoro che non esiste più che ne usciremo. Queste controspinte alla conservazione non fanno che alimentare un odio generale tra chi ha poco, chi sta per perderlo e chi non ha nulla, con grande giubilo dei parassiti, generalmente destrorsi, pronti a cavalcare qualsiasi sintomo di patologia umana e sociale, pur di avanzare di qualche gradino sulla scala del potere (vedi l’orrendo Hitler padano, Salvini).
Il tramonto del lavoro è ineluttabile. Presto le macchine toglieranno alla facoltà del fare ogni backround operativo e l’opposizione digitale servirà soltanto ai pollici, per manipolare gli smartphone. Ma se non inventeremo un altro mondo, meglio di questo, la spinta della disperazione universale si scaricherà in quell’abisso tragico e senza ritorno che captiamo già provenire dalle diverse, inconciliabili sfere di sofferenza che dilagano sul mondo. Cosicché, quando il dolore degli uni impatterà contro quello degli altri, andremo al collasso finale, all’”Apokalypse Now”.
 
 
 

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