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Il tappeto volante

Ho le palpebre pesanti, di piombo. Provo a passare la mano libera sul viso, mentre con l’altra reggo il volante. Scuoto la testa, muovendola a destra e a sinistra, senza togliere gli occhi dalla strada. Fuori è ormai notte. E piove. Una pioggia leggera, che lascia un velo d’acqua sull’asfalto. Nella corsia di destra i TIR la sollevano in una nebulosa di gocce piccolissime, che rifrangono ogni tipo di luce. Il rosso degli stop, l’arancio delle frecce. Il bianco dei miei fari, che crea una specie di sipario di fronte alla macchina, un telo opalescente che non posso scostare né penetrare, indifferente al frenetico avanti e indietro delle spazzole sul vetro. Che ondeggia pigramente secondo la quantità di acqua sollevata, ma non scompare mai. Faccio fatica a vedere dove vado.
E’ stata una giornata faticosa, come sempre quando c’è la riunione con i venditori. Una giornata lunga, alla fine di una settimana fuori casa. Il sonno mi sale prepotente dalla base del collo, avvolgendo il cervello in una calda coperta. Sarebbe bello lasciarsi andare, sprofondare nell’oblio. Ma non voglio. Combatto con tutte le mie forze per restare vigile. Metto della musica, mi muovo sul sedile di pelle come se fossi in preda a un attacco epilettico. Cerco qualcosa che tenga desta la mia attenzione. Mi concentro sulla guida. Dove sono adesso? Non lo so, non ho punti di riferimento. Manca ancora parecchio, questo è sicuro. Avrei potuto dormire in albergo e ripartire domattina, riposato. No, nemmeno per idea. Uno sforzo, un piccolo sforzo e sono da lei.
Cosa fa quello lì? Soliti camionisti, si è buttato a sorpassare senza nemmeno mettere la freccia, meno male che ero attento. Ecco, ora ci mette un secolo a superare quell’altro. E io dietro ai novanta, mentre vorrei volare. Gli lampeggio, più per rabbia che altro. Gli abbaglianti non gli fanno un baffo. Illuminano per un attimo l’enorme posteriore del mezzo, che incombe davanti alla macchina. Riconosco il tipo: è il camion di una famosa ditta di trasporti. Da un po’ di tempo mettono sul telone posteriore dei disegni di bambini. Li riproducono in dimensione gigante e ci addobbano il telone. Forse sono i figli degli autisti. Deve essere bello guidare portando in giro il disegno di tuo figlio. Se ce l’hai un figlio. Il soggetto è sempre lo stesso: come il bambino vede il papà che guida il camion. Questo mi piace particolarmente. Il bambino deve avere una grande fantasia, perché ha disegnato una cabina di guida montata su di un tappeto volante che si libra leggero sopra il paesaggio.
Il bestione rientra lentamente sulla corsia di marcia. Premo delicatamente sull’acceleratore e lo sorpasso. Mentre mi sfila a lato mi inclino verso il lato passeggero per cercare di vedere la faccia di quel papà. Riesco a scorgere chiaramente i segni di una strusciata sul fianco del mezzo, ma lui è troppo in alto, non lo vedo. Pazienza, affondo il piede e non ci penso più.
Dove sono adesso? Non si vede un tubo, non ci sono cartelli. Guardo l’ora sul cruscotto e cerco di farmi un’idea in base al tempo passato da quando sono partito. Che ora era? Forse le cinque e mezza o forse più tardi, perché mi sembra di essere stato un sacco di tempo a parlare, dopo la fine della riunione. Comunque manca ancora parecchio e il sonno mi confonde i pensieri. Ma sono testardo e tiro avanti, fisso sulla corsia di sorpasso. Voglio tornare da lei, mi manca troppo. Almeno smettesse questa pioggia! Sfioro file interminabili di TIR, sfumati nel pulviscolo che tirano su con le gomme. Bisarche, frigo, cisterne; ancora gruppi di telonati che procedono in formazione. Di nuovo quelli con i disegni dei bambini, paesaggi stilizzati con le montagne a punta e l’autostrada disegnata con un semplice frego di matita grigia. Di nuovo il camion con il tappeto volante.
Mi scuoto: come è possibile? L’ho superato più di mezz’ora fa e non mi sono mai fermato. Eppure eccolo davanti a me che sorpassa un collega. Cosa sta succedendo? Ho bisogno di riposare, la mente mi fa brutti scherzi. No, ci deve essere una spiegazione, forse non sono tutti diversi, avranno replicato i disegni su più mezzi. E’ senz’altro così. Mamma mia, per un momento ho avuto paura di qualcosa di strano, di essere capitato in una situazione da film di fantascienza. Però mi devo riposare, almeno qualche minuto; farò così: al prossimo grill mi fermo e faccio un pisolino. Mezz’ora, anche meno, giusto il tempo di riprendermi un po’. Purché il bestione rientri e mi lasci passare. Ecco ci siamo, gli sfilo rapidamente a fianco, dando tutto il gas che posso. Voglio dimenticarlo in fretta.
Mi resta però il tempo di vedere la strusciata sul fianco. Il cervello mi va subito in fiamme. Come è possibile? Non riesco a darmi una spiegazione. Provo a ricordare ciò che ho fatto in questa mezz’ora, ma le idee mi si confondono. Vado avanti per inerzia, incapace di formulare un pensiero. Forse dovrei chiedere a lei. Do un’occhiata al sedile di fianco: lei, la mia Lilli, sta dormendo. Lo fa spesso, quando viaggiamo. Tira su le gambe, si gira di traverso piegandosi in avanti e si mette a dormire. Non so come faccia a stare per ore in quella posizione, con la testa ciondoloni sul finestrino, ma lei dice che ci sta comoda, che le facilita il riposo. Non è il caso di svegliarla. Anche perché lo so già cosa mi direbbe. Ma sei cretino, cosa ti sei messo in testa? Non ti ricordi che ci siamo appena fermati a far benzina? Lei è così, capace di riportarmi alla realtà con una battuta. E’ il mio baricentro. Non so se sarei capace di vivere senza di lei. La sua concretezza, la capacità di capire cosa è meglio per noi senza tante elucubrazioni, andando al sodo della faccenda. Sono cose che mi fanno stare bene dentro. Però del rifornimento io non me lo ricordo. Forse è la stanchezza. Forse. Se l’ha detto lei, però, è senz’altro vero. Sì è vero, non c’è dubbio, anche se ora non me lo ricordo. Sbircio l’indicatore della benzina, ma ho la vista annebbiata dallo sforzo continuo di guardare nel buio e non riesco a metterlo a fuoco. Cerco di non pensarci, tanto è sicuramente uno scherzo della mente troppo stanca. La guardo ancora, per darmi coraggio. Com’è bella! Ne sono innamorato oggi come il primo giorno. Stiamo bene insieme, anche se figli non ne ha voluti. Ci completiamo, io così estroverso, sognatore, sempre all’inseguimento di qualche progetto. Tanto più cocciuto quanto quello che voglio fare è irrealizzabile, secondo lei. E anche un po’ incazzereccio, aggiunge con un pizzico di malizia, che io non sopporto. Lo ammetto, posso esserlo, ma solo un po’, quando mi si contraddice sulle cose a cui tengo. Allora sì che vado fuori di testa. Meno male che c’è lei. Lilli è la mia tranquillità, è l’unica capace di farmi sbollire la rabbia, di farmi ragionare con le sue semplici osservazioni. E’ lei che decide le cose da fare insieme e a me va bene così. Ha sempre ragione, sono io che a volte prendo delle cantonate. Mi fido di lei, totalmente. Se solo a volte non si impuntasse su certe cose.
Mi sono un po’ ripreso. Guido più sciolto, anche se la pioggia continua ad appannare la vista. Ho appena passato un’area di servizio, ma non mi sono fermato. Sono abbastanza sveglio e ho voglia di tornare da lei, di rivederla, di abbracciarla. Sto andando forte, incurante del traffico. L’autostrada in questo pezzo è rettilinea e divoro i chilometri. In un’ora, forse meno, sono a casa. Il lavoro che faccio mi piace, mi dà un sacco di soddisfazioni, sono diventato Capo Area e posso ambire al posto di Direttore Vendite di qui a qualche anno. Ma mi costringe a stare quasi sempre fuori casa e questo mi pesa. Un mezzo pesante si butta di colpo in corsia di sorpasso, senza nemmeno mettere la freccia. Inchiodo, urlandogli contro la mia rabbia. Questa volta c’è mancato poco. Ho il respiro accelerato, gli occhi dilatati. Vorrei tagliargli la strada, tirarlo giù dalla cabina e riempirlo di schiaffi. A mano aperta, di dritto e di rovescio, fino a farmi indolenzire il braccio. Quel cretino, che per poco non mi mandava all’altro mondo. Invece di lasciarmi andare da lei. Guardo con frustrazione le sue luci posteriori, un paio di metri davanti a me.  Sembra che mi prendano in giro, che mi invitino a buttarmici contro. Cerco di riprendere il controllo, faccio un lungo respiro. Alzo lo sguardo sullo schermo gigantesco del telone posteriore, con il disegno del tappeto volante. Batto con stizza un pugno sul volante. Ma allora ce l’hai con me! Cosa ti ho fatto, bastardo? Cos’è questa storia che ti sorpasso e poi ti ritrovo ancora davanti, eh? Mi vuoi fare andare fuori di testa? Lo so che sei tu, non mi serve vedere la strusciata sul fianco. Ormai ti conosco. Sei qui davanti a me e non dovresti esserci. E’ semplicemente impossibile. Ma ci sei. Approfitti in maniera vergognosa della mia stanchezza, del fatto che non sono lucido e ti diverti a tormentarmi. Lo so che il problema non sei tu, ma io. Cosa vuoi dirmi, che la colpa è mia, se sei qui davanti? Che sono io che, in realtà, non voglio tornare a casa? E perché non dovrei, eh? Dimmelo tu il perché, se sei così bravo! Ma te lo faccio vedere io, se ci voglio tornare. Ecco, bravo, scansati, che ti faccio vedere. Guarda come filo, lasciandoti a mangiare il fango che sollevo. E non farti vedere mai più.
Che cosa ridicola. Io che non vorrei arrivare. Che mi invento questi salti all’indietro nel tempo, che ripercorro all’infinito lo stesso pezzo di autostrada pur di non andare da lei. Ma se è esattamente l’opposto: sto facendo questa fatica bestiale solo per abbracciarla, per sentire la fragranza della sua pelle, per poter percorrere con le mani le curve meravigliose del suo corpo. Per sentire come si abbandona contro di me. Per confermarmi una volta di più che è qualcosa di reale. E che è mia, mia per sempre.
Ora guido con decisione, concentrato. Voglio finirla con questa storia. Arrivare, fare una doccia, rilassarmi assieme a lei. La radio trasmette una musica noiosa, cambio canale. C’è il notiziario. Parlano di un delitto, di quello che ha ammazzato la moglie. Giovane e bella. Ma come si fa? Eppure l’ha uccisa. Guardo il sedile vuoto di fianco a me, dove si siede Lilli quando andiamo in giro. Ventotto coltellate. Una, due, tre … fino a ventotto. Sono tante, bisogna provare per capire cosa significa affondare ventotto volte il coltello. Roba da sfiancarsi, occorre essere allenati altrimenti ti viene un gran dolore al braccio, sicuro. Davanti a me, lontano, confuso nel pulviscolo d’acqua, un lampeggiare di luci gialle. C’è un rallentamento, speriamo sia roba da poco. Mi metto dietro a una Mercedes. Procediamo lentamente, mentre il notiziario dice che è stato il marito a ucciderla. Gli investigatori ne sono sicuri e sono sulle sue tracce. Roba di poco e lo prenderanno, anche se sta provando a fuggire. C’è un restringimento, la strada diventa a una sola corsia. Il camion al mio fianco mette la freccia per spostarsi dalla mia parte. Mimo con il braccio il gesto di dare una coltellata, mentre rallento quel tanto per farlo passare. Com’è possibile farlo? Il solo gesto mi fa orrore. Il TIR comincia a spostarsi nello spazio fra me e la Mercedes. I fari inquadrano la strusciata. D’istinto stringo il pugno e lo brandisco davanti al vetro, come per minacciarlo. Comincio a urlare tutto quello che mi passa per la mente. Vorrei distruggerlo, ridurlo a pezzettini. Batto il pugno forte sul volante una, due, tre volte. Continuo a menare fendenti senza fermarmi mentre gli occhi mi si riempiono di lacrime. Quattro, cinque, sei, sette. Il braccio comincia a dolermi. C’è la polizia sulla strada che fa deviare le auto in una area di sosta. Stanno cercando qualcuno, ma non me ne curo. Devo buttare fuori tutto il mio odio per quel camion che mi perseguita e continuo a tempestare il volante di coltellate. Diciotto, diciannove, venti. Non mi fermo, no, non posso fermarmi. Ventuno, ventidue, ventitré. Conto ogni colpo con tutta la rabbia che posso e a ogni fendente sento qualcosa lacerarsi dentro di me. Un poliziotto mi inquadra con il faro alogeno e mi fa cenno di fermarmi, mentre gli altri si dispongono tutto intorno. Ventisei, ventisette, ventotto. Lilli, perdonami, io non volevo, te lo giuro! Non lo so come è successo, Lilli amore mio …

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