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“Tempi difficili” di Charles Dickens.

 Ultima grande narrazione, mite e magnanima, del grande scrittore inglese. Dove getta una luce di riprovazione sulla stoltaggine dei “cattivi”, i quali comunque si puniscono da sé, e un’altra di nobiltà sulle figure dei “buoni”. Su tutto aleggia una sorta di comprensione benaugurante, in cui anche il dolore di chi è innocente viene comunque ricompensato nella memoria. Il tono è un po’ affine a quello del Falstaff di Verdi, nonostante il contesto differente, il che ci invita a riflettere sul che i “grandi vecchi” mantengono sempre la loro aura di saggezza, se sono grandi...
Vero che, pur con tutta la sua ineguagliata grandezza, Dickens indulge spesso a una certa “esuberanza” sentimentale (il che oggi passerebbe per “buonismo” da parte dei mentecatti della destra). Ma il fatto è che la sostanza della sua epica risiede nell’umanesimo e pur con quel suo aurorale socialismo umanitario un pochino lezioso e “commovente”, bisogna ammettere che ciò che gli interessa è l’uomo, l’essere umano nel suo spessore spirituale e intellettuale, con le sue potenzialità, le sue cadute, le sue catarsi.  Leggo che una interpretazione “di sinistra” (di Orwell) del suo mondo, gli imputa una certa carenza di prospettiva politica, un orizzonte limitato ad una visione appunto sentimentale, o solo psicologica, di processi che non sono analizzati dal punto di vista socio-storico. Ma questo, pur parendomi legittimo per il tempo in cui è stato formulato, mi fa pensare a Zdanov e allo stalinismo, sia pure da un versante, diciamo, “benevolo”. Dickens sprofonda dentro l’animo umano e trova lì quello che necessariamente e solo può esserci, e cioè la fragilità, l’incoerenza, l’avidità, da un lato. Ma anche, dall’altro, la virtù. Perché è così che siamo fatti. Inutile illudersi sulla lotta di classe: qualsiasi classe, attraversato quel sottile filino che le divide, diventerà nemica dei precedenti compagni e cercherà di sopraffarli. Così, da buon conoscitore delle contraddizioni umane, lo scrittore ci mette dinanzi a ceffi neanche malintenzionati, ma scaltri e calcolatori, i quali, che s’incarnino nel sindacalista, falso difensore della classe operaia, ovvero nel giovane rampante della classe dirigente, mirano sempre al medesimo egoistico obiettivo di blandire la massa e farsi dalla medesima mantenere. Cosi, già alla metà del Milleottocento, Dickens ci svela il suo scetticismo nei confronti sia dei “difensori dei diritti dei lavoratori” (e dio sa se aveva ragione), sia in quelli del padronato. Anzi, il “padrone” per antonomasia del racconto è anche l’unico “imbecille” di tutt’e quattrocento le pagine.   
Non mi resta che innalzare una sacra ode orante alla maestà di questa letteratura che, insieme a quella di Dostoevskji, staglia i vertici più alti mai raggiunti dall’arte del narrare.  

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