Quarantotto antiche scale | Lingua italiana | Antonio Cristoforo Rendola | Rosso Venexiano -Sito e blog per scrivere e pubblicare online poesie, racconti / condividere foto e grafica

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Quarantotto antiche scale

Siamo quarantotto antiche scale divise in quattro rampe, di cui le prime due sono appena rischiarate da storiche lampadine che resistono negli anni mentre le altre due rampe sono rischiarate dalla luce naturale che passa attraverso il lucernaio: il sole di giorno e la luna di notte, e quando non c’è né sole né luna, pazienza…
                  In verità noi quarantotto non siamo altro che bistrattate scale di servizio che, altissime, consumatissime e strettissime, si inerpicano a chiocciola su una piccolo terrazzo. Come scale di servizio, ora come ora siamo cadute in disuso (sic), tant’è che alcune porte che danno su di noi sono addirittura murate. La verità è che nessuno ci sale più perché i soppigni[1] che si trovano sul terrazzino ora sono tutti disabitati.
                  Una volta non era così, eravamo cale che servivano alla gente che abitava su e soprattutto servivamo a tanti bambini. Ogni mattina li vedevamo scendere nel loro grembiulini neri, con i loro colletti bianchi inamidati legati al collo con nastri multicolori. A S. Remigio ne sentivamo l’emozione per il primo giorno di scuola. In altri giorni percepivamo la loro gioia per un onomastico o per un compleanno. Purtroppo sentivamo anche il loro dolore per una delusione o, peggio, per la perdita di un loro caro. Ne ascoltavamo il candore nei loro semplici discorsi. Udivamo l’innocenza dei loro pensieri, i turbamenti del loro cuore.
                  La domenica partecipavamo con gioia ai giochi che venivano a fare tra di noi. Era un’allegria sfrenata, un divertirsi senza pari, e che strilli! Ma, in mezzo a questi bambini pieni di vita ce n’era uno sempre triste che si autoescludeva dai giochi e rimaneva pensoso seduto su una di noi. Era, quindi, un tipino malinconico, solitario, ma dolce  e tranquillo. Egli aveva un problema con noi: aveva paura di attraversarci sia che fosse solo, sia che fosse in compagnia, in special modo nelle ore serali e soprattutto in un punto particolare: un nostro breve pianerottolo sul quale affacciava una di quelle porticine sempre chiuse.
                  Il bambino, spesso, sognava che quella porta si apriva e che da n’ombra tenebrosa veniva fuori lentamente la figura di una belva pronta ad azzannarlo, ma nel momento in cui la bestia spiccava il salto, egli si svegliava di colpo madito di sudore ed ansimante. Era un sogno strano che si ripeteva anche quattro o cinque volte in un mese e che nessuno sapeva dare una spiegazione, tranne noi quarantotto. Noi lo sapevamo spiegare quel sogno. Noi quarantotto conoscevamo vita, morte e miracoli di tutto quanto avveniva tra quella nostra atmosfera chiaro-cura.
                  Nel 1940, in uno dei soppigni allocati proprio di fronte alla nostra finitura abitava una coppia di giovani sposi. Lui, Giovanni, si guadagnava da vivere facendo il Pulcinella per i turisti in Villa Comunale. Lei, Maria, badava alle faccende domestiche. I due, innamoratissimi, si contentavano di quel poco che avevano e vivevano in armonia tirando avanti con tanto amore, tanta fantasia e…poco pane. Durante la notte, quelle di noi che erano situate sull’ultima rampa di scale ascoltavano…ehm…la loro intimità e, nel sentire il loro intrigante ansimare, provavano ad immaginare per quanto sarebbe bello se esistesse per le scale un “principe scaletto”, magari signore di un pianerottolo. Ma un brutto giorno venne ad abitare vicino a loro Mario, un losco individuo che campava borseggiando sui tram e sugli autobus. Era costui un giovane di molto bello aspetto, di
 
 
 
 
un’accattivante affabilità e, nonostante si dicesse di lui tutto il male possibile, conquistò l’amicizia di Giovanni e Maria.
 
                  Accadde così che sempre più spesso Mario fosse ospite a cena dei due coniugi o che essi, viceversa, fossero suoi ospiti. Accadde altresì che, essendo Maria una bellissima ragazza, Mario se ne invaghì e lei stessa non fu insensibile alle sue attenzioni. Accadde, infine, che, mentre Giovanni faceva il Pulcinella in Villa Comunale, i due si ritrovarono a letto insieme l’uno sull’altra.
 
“Cantate, sunate…
sparate li botte.
Sciacquitte facimme
 pe’ tutte ‘sta notte!
E a ‘stu bellu pubblico
che cu ave sentite
facimmele sempe
 ‘nu bellu salute…”
 
Recitava Giovanni concludendo il suo numero da Commedia dell’Arte. Ma un giorno il gruppo di turisti annunciato non arrivò, e Giovanni, vestito da Pulcinella, suo malgrado, mogio mogio, se ne tornò a casa. Noi tutte le quarantotto scale sapevamo che propri in quel momento Mario e Maria stavano a letto a fare…come si dice a Napoli? ‘O malamente! Facemmo di tutto per fermarlo: lo facemmo inciampare, scivolare, sollevammo polvere con l’amico vento, avremmo voluto anche gridare:- Giovanni fermati! Non aprire quella porta! Occhio non vede, cuore non duole! Ma invano…Pulcinella , maschera alzata sulla fronte, saliva verso la discesa del suo destino. Giunto che fu aprì la porta e trovò i due proprio durante il loro amplesso  amoroso. Noi scale restammo di sasso! Non sapevamo che fare anche se avessimo potuto fare e che dire anche se avessimo potuto dire. Al cospetto di tale degradante spettacolo Pulcinella calò la maschera sul volto per nascondere le lacrime. Come colpito da un’improvvisa coltellata, avrebbe voluto lanciare un grido di dolore, ma la voce non gli uscì, così uscì di corsa dal sopigno e si lanciò nel vuoto della tromba di noi scale e morì in un lago di sangue proprio davanti alla porta sognata dal ragazzino.
 
“Palummella, zompa e vola,
addò sta nennella mia.
Vancelle a dicere
che io mo more…”
 
                  Ma torniamo agli anni cinquanta, a quel ragazzino timido ed introverso quasi sempre triste, così convinto dei suoi sogni da confonderli con la realtà. Abbiamo detto che viveva con i nonni, la madre lavorava a servizio pieno come colf in casa di gente nobile e danarosa. Del padre si sapeva poco, se ne era andato che il ragazzo era ancora infante e ne conosceva le sembianze solo grazie a qualche foto che la mamma aveva conservato. La nonna, quale convinta cattolica, non, comunque, bigotta, gli aveva impartito un’educazione religiosa quasi fondamentalistica alla quale egli, tuttavia, grazie ad una fervida fantasia che lo portava in viaggio senza neanche muoversi di casa attraverso i più disparati luoghi del mondo. Chiudeva gli occhi ed eccolo proiettato a Mompracem tra i tigrotti di Sandokan o nel Texas ad inseguire ombre rosse o in Africa ad udire l’urlo di Tarzan o in medio oriente tra le grinfie del feroce Salah al din Yusuf.
                  Il ragazzino raccontò ai nonni che a proteggerlo dal suo enorme terrore nell’attraversare quel pianerottolo era giunto un fatto nuovo: un Pulcinella, la cui bianca figura veniva fuori lentamente da un oscuro anfratto e ricacciava la belva nell’ombra. Ma eran cose di ragazzini, si sa, fantasie di altri mondi così diversi da quelli adulti. Figuratevi che spesso parlava con noi scale e noi scale gli rispondevamo:
- Scalinatelle, do’ sta Pullecenella?-
- Pullecenella, guarda oi neh sta sempre vicino a te!-
Poi si stendeva su di noi a testa in giù e si lasciava scivolare via velocemente. Un giorno scomparve nel buio dello scantinato e ne uscì poco dopo stravolto: era diventato adulto,
 
 
[1] Abitazioni di una stanza in cima a palazzi.
 

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