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su "Un divorzio tardivo" di Abraham Yehoshua

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Identità e conflitto. Il destino di un uomo e di una terra sono spesso legati a questo doppio filo. Filo d’amore e di memoria; di rabbia e delusione; di passione che ferisce e insieme lenisce. Con questi ingredienti si possono tracciare meravigliosi drammi; storie che non vanno a capo perché non hanno soluzione o ce l’hanno solo apparentemente. Come le storie che ruotano attorno a Israele, terra martoriata e in perenne fuga da se stessa: terra alla continua ricerca di se stessa. Chi scrive di questa terra e di questi uomini sa che è sempre in agguato un filo rosso di sangue e una frattura che solca la mente e l’anima. Sa, che la felicità è un’ambizione meschina che passa attraverso  ferite mortali. Perché scrivere è medicamento e nascondiglio. Inganno degli occhi e del cuore. Scrivere è ricomporre qualcosa dentro; dire del proprio dolore e raccontare di un tenace legame di patria e di famiglia. Un po’ come rincorrersi.
Tra le più alte espressioni della letteratura contemporanea, la scrittura di Abraham Yehoshua si addentra in questo solco confessionale. Si imbeve totalmente di senso di pietà e di senso del riscatto; si colloca consapevolmente quasi sempre sul limite di una crepa. E medica. E’ una scrittura introspettiva e sedimentosa, individuale, corale, terragna e siderale, etica e irrimediabilmente politica. Yehoshua è forse lo scrittore che meglio ha appreso la lezione novecentesca di una prosa tentacolare e avvolgente capace di procedere per scatti e ripiegamenti fino a essere espressione esatta e puntuale della mente e del pensiero umano; capace di esprimere il senso del dolore e della separazione nella sua più profonda radice. Occorre risalire a Joice e a Faulkner per trovare analoghe impennate. Dai suoi libri erompe un immaginario mentale ricchissimo e una altrettanto inesauribile sensibilità che gli rendono una scrittura vivace e impegnata. Yehoshua  tiene in piedi ogni cosa, persino i deliri e le allucinazioni.  Qualsiasi voce inventi, qualsiasi personaggio costruisca, Yehoshua lo lascia esplodere agli occhi del lettore come voce vera, uomo vero, prodotto della realtà più che della fantasia, di cui non resta che goderne gli atteggiamenti, i tic, le manie, le passioni, le miriadi sensazioni, gli odori. Quando abbandoni quei personaggi, sai d’abbandonare qualcosa a cui sei stato vicino, sai che qualcosa di essi resterà con te, in ogni angolo di strada, in ogni taccuino riposto sul letto, in ogni sguardo che incroci e che t’incendia gli occhi.
In un angolo qualsiasi d’America vive un vecchio israeliano, Yehudà kaminka, la cui storia d’uomo Yehoshua pone in parallelo a quella del suo paese d’origine, Israele. Sua moglie Na’omi, combatte contro la propria follia, arrivando un giorno a scagliarsi contro di lui, ferendolo con un coltello da cucina. Quest’episodio viene preso come pretesto per internare in manicomio Na’omi e come molla di una fuga che porterà Kaminka a rifarsi una vita in America, trovando addirittura una nuova compagna. Tutta la storia muove da queste premesse, e si chiude nel ritorno in patria di Yehudà deciso, in accordo con Na’omi, dalla cui pazzia talvolta sgorga una saggezza prorompente, a concludere un divorzio che è anche metafora di un impossibile concordia tra mondi diversi. Un corollario di personaggi si dispiega al loro seguito, come tanti piccoli universi esplorabili a distanza ravvicinata (famiglia patria, benedetta fonte): dal piccolo Gadi, da cui muovono le prime pagine, a Kedmi, grillo parlante stupido, a volte sorprendentemente capace di sensibilità profonda; a Yeal, moglie e figlia devota, avviluppata nel suo nervoso romanticismo; ad Assa, di cui oltre che apprezzarne le doti di storico, resta da afferrare il senso della sua posizione al mondo; alla sua giovane moglie Dina, a cui tanto ci si affeziona, non foss’altro che per le sue vocazioni letterarie, attraverso cui forse Yehoshua media le sue inclinazioni poetiche; a Zwi, disinvolta pedina di una scacchiera senza regole, a cui è demandato il compito d’essere amico e antagonista di tutti, persino di se stesso, in ragione di una diversità solo apparentemente difficile, ma più probabilmente degna e paga di se stessa. E per concludere alla piccola Rakefet, dove la purezza dell’infanzia sembra reggere le fila di un equilibrio altrimenti difficile da scorgere, nelle cui pieghe non manca qualche sprazzo di leggera, inconsapevole follia. La storia di una famiglia diviene così  la fotografia di un paesaggio in cui si dispiegano tanti più piccoli e svariati paesaggi che raccolgono uno sguardo d’insieme e contemporaneamente più infiniti e particolareggiati sguardi volti a scoprire del tessuto globale le pieghe più tortuose e i lineamenti più sublimi.
Giovanni Perri

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