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Al mercato di Monghidoro

Era brulicante di vita  il mercato di Monghidoro, in una vallata stretta tra abeti e latifoglie, accovacciato tra l’edera e il muschio, all’inizio della salita. Dolce come l’oblio del tempo, con uno scampolo di sole che indugiava sulle stoffe rovesciate, sulle verdure fresche, sui lenzuoli candidi di bucato sparsi sulle bancarelle. Sono rimasti dentro di me i suoi odori, i suoi colori continuando a disfarsi e reinventarsi nello scorrere dei giorni, pesando sulle mie membra, diventando ricordi sottili di memoria bambina, dolci rimpianti d’infanzia col sapore del vino caldo. Quasi un segreto, un piacere interiore, i contorni delle cose che diventavano malinconia, le persone ormai scomparse che si trasformavano in sogni, scheggiando ineluttabili il ciclo senza sosta della vita. Iniziava quasi all’alba nel borgo sonnolento, allargandosi fino a coprire tutta la strada fino alla piazza della chiesa: rubiconde donne di campagna si affannavano a vendere galline ed uova di giornata, contadini con i pantaloni di velluto offrivano mucche o vitellini appena nati. Erano centinaia i banchi che si ammassavano l’uno sull’altro, a cominciare da quello che vendeva i chicchi grossi di caffè  tostato, a quelli che mostravano croccanti appena fatti, bastoncini a righe lunghe di zucchero caramellato. Il giovedì mattina si riempiva di un via vai incandescente, in un tempo teso al nulla, mischiato ad affari di cortile e a compere sfiziose. Ci si perdeva nelle enormi ciotole di terracotta in vendita accanto alla farmacia, e le bocce di vetro con la neve che scendeva, facevano pensare alla pigrizia ovattata dell’inverno che stava per arrivare. Luccicanti, eteree, sgusciavano dalla stoffa sottile del banco in mille forme, con i fondali popolati da pupazzi con il naso a carota, candidi e azzurri, di una dolcezza fittizia. Inebrianti nel fondo dell’acqua. Più in sù si vendevano maglioni autunnali, di lana calda, smorzati nell’intensità della luce, profumati di pere cadute dall’albero, bruni come castagne di novembre. Maglie verde Irlanda, ruvide e solitarie come campi di torba, malinconiche come i boschi della brughiera. Lana che comprava il calore dei giorni, il conforto della malinconia. Un po’ nascosto nella piazza principale c’era il banco dell’intimo, venivano esposti in modo pudico top a fiori e reggiseni a balconcino, mutandine svolazzanti di ogni forma e colore. Stuzzicante lingerie nera era indossata dalle modelle e appesa con discrezione in foto colorate a grucce che ondeggiavano nell’aria. Si passava poi ai canovacci di cotone, agli asciugamani ornati di ciliegie e fragole mature, ai rocchetti intrecciati di filo che come serpentelli creavano suggestioni uniche di colori, e ancora grembiuli, bottoni e mille altre civetterie pronte per riempire gli occhi degli animi femminili. C’erano venditori con capelli crespi e berrettini rossi che esponevano la merce in banchi angusti, pieni fino all’inverosimile, il gatto acciambellato che corteggiava stoffe a pois rosse e blu confondendosi con la merce in vendita. Erano centinaia le opulenze sciroppose che invadevano l’aria, brigidini fumanti,  zuccherini bolliti, crostate, pinze di more e di mirtilli, cioccolato bianco e nero e altre languide dolcezze. A mezzogiorno gli uomini si fermavano per bere un bicchiere di vino rosso in un appesantimento tiepido, in una avidità istintiva, lo assaporavano piano, come fosse oro, seduti su tavolini sgangherati chiazzati di sole. Saliva al cuore il profumo delle mele verdi,  accatastate in casse nell’ultima contrada, il loro profumo volava in alto travolgendo l’olfatto in una lucidità zuccherosa. Donne e bambini si accalcavano sui bordi del marciapiedi, camminando piano, con crescentine gonfie di lievito in mano, mentre si attraversava l’azzurro e il grigio per arrivare a mezzogiorno. Poi la luce cambiava all’improvviso,il mattino si trasformava piano piano in pomeriggio, il tempo si dilatava in chiacchiere complici, in bottiglie di birra bionda da stappare lentamente. Si stava bene con il nostro male di vivere in una vita fragile di uomini felici. Verso le quattro del pomeriggio i banchi cominciavano a smontare cristallizzati nella luce degli ippocastani di via Marconi. Il cielo diventava profondo, di una crudeltà viola. Si diluiva il passaggio e la memoria, mentre ci sparpagliavamo di viuzza in viuzza, contando le ombre brunite sulle pietre. Arrivava la corriera blu, tonda e mezza sgangherata. Si saliva a cuor leggero, in un brusio di parole bisbigliate,  abbandonandosi alla malinconia frivola della sera.

Attraversavamo, sazi di respiri e di sorrisi, i campi di neve e a quel punto sapevamo che l’inverno avrebbe potuto cominciare.

 

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