Perduta musica | Rosso Venexiano -Sito e blog per scrivere e pubblicare online poesie, racconti / condividere foto e grafica

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Perduta musica

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1-
 
 Facciamo un gioco di immaginazione. Poniamo che un giorno un pittore abbia l’idea di introdurre nei suoi lavori delle frasi, dei messaggi a parole per sottolineare il significato del dipinto, o magari per aumentarne l’espressività; per realizzare la sua idea. Il nostro pittore ha bisogno di dare al messaggio scritto la giusta posizione all’interno dell’insieme – per questo motivo rimpicciolisce il soggetto, che occupa troppo spazio, rubandolo alle parole, non perde troppo tempo a lavorare sulle ombre e sceglie dei colori che approssimativamente si armonizzino al messaggio.
Poniamo poi che questa opera ottenga un successo notevole alle mostre, a cui viene esposta, tanto che al suo autore ne vengono commissionate altre simili. Gli altri pittori, legati ai precetti artistici tradizionali, non rimangono indifferenti alla nuova tendenza che il loro mercato sta prendendo – anche gli artisti devono vivere – e cominciano così a ricalcare, prima timidamente, poi con sempre meno pudore, lo stile del primo pittore destinatario dell’ “illuminazione”. Messaggi sempre più eclatanti, periodi più elaborati, caratteri ricercati….e intanto soggetti pittorici sempre meno originali, colorazioni sempre più svogliate, profondità di campo a malapena accennate.
Ecco dunque il risultato di quanto abbiamo finora immaginato: un mondo in cui la pittura è in uno stato di agonia stagnante, ridotta a mera cornice nella cornice, per servire all’eloquenza di qualcos’altro, in una situazione di generale degrado e decadimento che, se farebbe inorridire Klimt, di certo non farebbe nemmeno sorridere Carl Barks.
Completiamo ora il nostro esperimento. Trasformiamo i dipinti dell’immaginata nuova corrente in spartiti musicali: i soggetti diventano melodie, i colori si trasfigurano in tonalità, le prospettive divengono ritmi. Cos’ abbiamo ottenuto, come risultato della nostra astratta costruzione?
La risposta è lapidaria: lo stato dell’arte musicale nell’era moderna.
Pessimismo eccessivo? Astrazioni infondate?
Nessuna di queste accuse è giustificata, e i lettori tengano conto che la storia, in metafora sopra narrata, avrebbe potuto avere una forma ben più nera, e ciononostante mantenere integra la propria sostanza. Ma un breve preambolo si rende opportuno: non ci si proporrà in questa sede di lanciare un’arida serie di j’accuse sociologici o addirittura etici in nome di una mitologica morte dell’arte, ma piuttosto e molto più semplicemente (e, ove possibile, a-tecnicamente) di tracciare una diagnosi dello stato attuale della creatività musicale, nelle sue ormai ineccepibili derive patologiche e nelle cause storiche di ciò.
E per fare questo occorrerà cominciare con un salto indietro nel tempo: non molto, giusto qualche decennio…. 
 
2-
 
Oltre un secolo fa si è cominciato a decretare il decesso della cultura occidentale. L’arte, espressione più diretta del sentire di una civiltà, ora più ora meno, ha innegabilmente seguito il flusso di questo naufragio. Tra i venti di questa tempesta, la situazione della musica è un urlo che si leva disperato.
Ma quanti sono capaci di sentirlo?..
Ripercorriamo in breve gli eventi.
La seconda guerra mondiale è stata la coltellata definitiva ad un sistema di valori che da decenni stava franando su se stesso; guardiamo al mondo all’indomani della fine del conflitto – che società abbiamo intorno? Nessuno lo sa. L’arte segue di pari passo la parabola degli uomini suoi creatori, e in questo periodo storico anch’essa non sa bene che direzione prendere. Antichi metodi e modelli vengono definitivamente abbandonati per intraprendere un percorso sempre più introspettivo, sempre più legato all’intimo dell’artista creatore e di conseguenza sempre meno apprezzabile secondo un punto di vista puramente oggettivo. E la musica? Cosa ne è di lei? Da un lato alcuni autori musicali tentano strade perigliose simili a quelle sopra descritte, ma con la musica c’è un bell’inghippo al voler sperimentare senza confini: essa si basa su dei parametri oggettivi che sono insiti nel nostro cervello fin dalla nascita, e da cui non si può prescindere oltre un certo limite senza sfociare nel campo del rumore (poiché, più di quanto si possa pensare, la linea di confine è distinta, tra musica e suono). Si tratta di una questione più familiare agli addetti ai lavori che alla generalità delle persone, ma in realtà non completamente, poiché ciascuno di noi possiede gli strumenti neurologici per definire razionalmente un ritmo, una melodia o uno schema armonico: il musicista nella fattispecie è colui che di questi strumenti è a conoscenza, ne ha appreso il funzionamento e sa farne uso. Poiché se il suono in generale consiste in vibrazioni che raggiungono il nostro orecchio attraverso un fluido (normalmente l’aria), la musica consiste in particolari frequenze di quelle vibrazioni – frequenze che associate insieme secondo determinati rapporti matematici, e quindi fissi, provocano determinate emozioni all’ascoltatore.
Questa è una verità, con cui coscientemente o meno hanno a che fare tanto il direttore d’orchestra quanto il ragazzino che suona la chitarra elettrica nella sua stanza.
Dunque, poste queste premesse, quali possibilità per la musica in un panorama così delineato in cui tutto (metodi, tradizioni, conoscenze, regole) viene messo in discussione e rigettato? Una parola: STOP.
Stop non solo all’evoluzione, ma anche alla consapevolezza di ciò che si sta facendo quando si compone: a macchia d’olio si diffonde un appiattimento delle produzioni musicali su pochi semplici standard, poiché del resto – e questa è la ciliegina sulla torta – quasi nessuno tra gli ascoltatori è ormai in grado di accorgersene
 
3-
 
Cerchiamo dunque di sommare gli elementi di questa situazione scoraggiante. Innanzitutto va considerato che negli ultimi decenni si è diffusa una strana e malsana concezione della conoscenza generalmente intesa, per cui chiunque può fare qualsiasi cosa senza preoccuparsi di saperla fare: la competenza tecnica sacrificata, in nome di un non precisato spirito di espressione catartica. Va da sé che tale ingenua - ed irresponsabile - impostazione, non potendo più di tanto applicarsi a materie operative e professionali, ha piuttosto trovato appoggio nel più “svincolato” mondo dell’arte. Ed ecco ciò che questo ha comportato per la musica, soprattutto entro i nostri confini: complici l’importazione a valanga della cultura musicale americana (molto più improntata alla semplificazione rispetto a quella europea), nonché le forti facilitazioni di realizzazione consentite dalle tecnologie discografiche, è accaduto che la musica sempre più è stata degradata, de-mansionata, ridotta a reggere i fili di messaggi poetici o politici più o meno vari. Lo studio delle sue basi quasi del tutto tralasciato poiché tutto doveva essere accessibile a tutti - e quindi semplificato. Non da meno, la già citata importazione americana ha contribuito a questo anche (e forse soprattutto) con un ulteriore elemento: l’universalizzazione dell’elemento chitarra, strumento assurto negli ultimi cinquant’anni al ruolo di imprescindibile base per quasi tutte le performance musicali: Vi è da rilevare che non è tanto la relativa semplicità d’uso di questo strumento (che non può comunque prescindere da una certa preparazione), quanto il fatto che esso, per la sua conformazione strettamente vincolata alle possibilità muscolari e dimensionali delle mani, ha di molto ridotto le possibilità compositive, quanto alle combinazioni armoniche. Ci si faccia caso: quasi sempre, tra le moderne canzoni, quelle con una struttura più originale e varia vedono coinvolto l’uso di un pianoforte (che dei suddetti limiti non soffre, se non minimamente).
Per dare una base concreta a quanto abbiamo affermato finora proponiamo un esperimento pratico che chiunque può provare: ascoltate la canzone “A te” di Lorenzo Jovanotti, e all’attacco del pianoforte che accompagna il verso cominciate a cantare “Alba Chiara” di Vasco Rossi – rimarrete stupiti dal risultato. Ora chiedetevi se ve ne eravate già resi conto. La vostra risposta darà un senso a tutto questo articolo.
Ma perché tutto questo? Perché voler aumentare la fruibilità di un’opera deve necessariamente comportarne la semplificazione? Siamo sicuri che in realtà queste non siano maschere per una, diciamolo, pigrizia culturale ormai diffusa e proprio per questo anche accettata? Per prima cosa il binomio popolare/semplice non si giustifica, e anzi per quanto riguarda la cultura artistica è particolarmente irritante: si ascoltino le antiche ballate celtico-irlandesi, del tutto a loro agio con tempi irregolari e incursioni fuori dalla modalità, o ancora la tradizione musicale napoletana, i cui drappeggi, che mescolano sapientemente atmosfere maggiori e minori, sono un affresco di storia della cultura mediterranea e delle sue commistioni. Si ricordi poi che “Il Flauto Magico” di Mozart, opera lirica più rappresentata da sempre negli Stati Uniti, fu a suo tempo intesa per un pubblico di estrazione popolare (che nella Vienna del 1791 significava cameriere, garzoni, vetturini…).
E poi ancora - perché la canzone? Delle tantissime forme di espressione musicale un tempo presenti nel mondo occidentale, oggi solo questa ha mantenuto una pregnanza diffusa. Non è forse anche questo, allaluce di quanto si è detto finora, un tristissimo impoverimento?
 
 
Enrico De Zottis
 
 
 
articolo originariamente pubblicato su Flipmagazine.eu
 

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