Come ogni mattina tra poco lo vedrò; non c’é giorno che non se ne stia seduto su quel marciapiede appoggiato al muro di quella bottega; piove, nevica, splende il sole? Lui è lì. Lo vedo tutte le mattine, gli passo davanti andando al lavoro; per assurdo non saprei dire quali articoli ci siano nel negozio o com’è fatta la commessa, se carina o meno, se con l’anello al dito o no, se bruna o bionda, ma mi accorgo subito del mio amico e lo fotografo con gli occhi. Io giro l’angolo ed eccolo, trenta metri più avanti, ventinove, ventotto, ventisette… a quanto vado? Circa ottanta, novanta centimetri a passo, una bella falcata, ho sempre camminato così, quanto ci metto a fare un passo? Mezzo secondo; quindi ho a disposizione circa venticinque passi, dodici secondi per studiarlo e fantasticare sulla sua vita, sul perché se ne sta lì, se è una sua scelta o se è successo qualcosa che l’ha obbligato… tre, due, uno… eccomi davanti, non volto neanche la testa per paura di essere notato, se lo guardo dritto negli occhi lui se ne accorge e poi qualcosa cambia, in me, in lui, non lo so; se lo guardo negli occhi ho paura di vederci sofferenza o rassegnazione o, per assurdo, soddisfazione e se poi così facendo, creando un precedente, un primo contatto ne facessi seguire altri? Tutta la magia che ho regalato alla figura di quella persona svanirebbe nel limbo della routine e io perderei l’interesse che tanto è cresciuto. Una sorta di “teoria di indeterminazione di Heisenberg” che funziona alla rovescia, io guardo quindi constato, “misuro” e l’azione invece di sottoporre a cambiamento il soggetto “misurato” modifica il “misuratore”!
Certo, mi piacerebbe sapere qualcosa di più, potrei fermarmi una mattina e coprirlo di domande, così, per soddisfare la mia curiosità, ma non lo faccio primo perché lui potrebbe sempre rispondermi di farmi gli affari miei e secondo, sono sicuro che tutte le ipotesi che ho fatto, tutte le idee fantastiche che ho nutrito nel corso di questi ultimi tre anni verrebbero a cadere e mi assalirebbe la malinconia di aver perduto un appiglio di cui mi servivo ogni mattina per agganciarmi a questa vita e farmi credere che la mia sia migliore della sua; ah, che smacco sarebbe se venissi a scoprire il contrario; ecco di cosa ho paura in verità ed ecco perché proseguo sempre per la mia strada.
Lo supero e inevitabilmente la mia attenzione viene rapita da qualcos’altro, il passaggio pedonale al semaforo, quel giaccone di pelle in quel negozio dove non vedo l’ora che arrivino gli sconti e poi arrivo al palazzo dove c’e’ il mio ufficio, venticinque piani da fare con un ascensore vecchissimo, qui ho tutto il tempo di retrocedere con la memoria e analizzare quello che ho visto stamattina di quell’uomo. Tutte le mattine l’ascensore diventa la camera oscura della mia mente, mi servo di questi interminabili due minuti per imprimere per sempre, quasi a fuoco, le immagini e le valutazioni di quel fugace passaggio.
Solo così mi accorgo se qualcosa è cambiato, di solito non accade nulla, la solita mancanza, molto strana a dire il vero, del piattino dell’elemosina, il berretto girato di tre quarti, a volte un po’ più basso altre un po’ più alto, una scarpa slacciata piuttosto che la giacca abbottonata male, la testa che pende di lato invece che in avanti, ma questa volta no, per Dio questa volta c’era veramente qualcosa di diverso; come ho fatto a non accorgermene subito? Che stupido, troppo preso dal non farmi notare, non mi sono accorto che mi seguiva con lo sguardo!!
Che si sia accorto di me? Che mi abbia scambiato per un’altra persona? Che stesse semplicemente cambiando direzione dello sguardo? O, più spaventoso ancora, che mi sia entrato così dentro da esserne diventato paranoico, mi sono trasformato in un personaggio uscito di fresco da un racconto di Poe…
Quasi quasi stasera invece che farmi accompagnare come al solito dalla mia collega torno in stazione a piedi così quando gli passo davanti vediamo se mi guarda ancora… o no, ma no dai tanto domani quello è li ancora, sicuro come il nascere del sole e poi stasera avevo deciso di chiederle di tirar dritto fino a quel ristorantino tanto intimo e restare solo con lei!
Ed ora invece eccomi qui con in mano dei fiori che non ho portato io, a rammaricarmi, a piangere davanti al negozio di… di nessuno, vuoto, in rovina, senza neppure il numero civico; si era scelto un posto anonimo, aveva scelto di non dare fastidio a nessuno, aveva scelto di restare l’involucro di una vita ormai passata, di una vita fatta solo di episodi tramutatisi in ricordi; forse aveva causato un incredibile dolore a qualcuno e aveva deciso che una cosa così non sarebbe più dovuta accadere, aveva scelto questa vita perché nessuno più soffrisse per lui; non c’era riuscito, anche se per poco; io e il misterioso personaggio che aveva lasciato i fiori sul suo giaciglio di sofferenza lo rimpiangiamo, in un certo qual modo ci manca e almeno da parte mia è nato un doloroso rimorso nel cuore per non aver capito che forse ieri quell’occhiata era una timida richiesta di aiuto, se ne stava andando e lo sapeva, ma come aveva deciso di vivere, così aveva anche deciso di morire, solo!
Diego Rocco
-Associazione Salotto Culturale Rosso Venexiano
-Direttore di Frammenti: Manuela Verbasi
-Supervisione Paolo Rafficoni
-Racconto di Diego Rocco
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