L'ex ospedale psichiatrico di Volterra è vissuto quasi un secolo, dal 1888 al 1978, anno della legge Basaglia che impose la chiusura dei manicomi e istituì i servizi di igiene mentale pubblici. Migliaia di vite si sono consumate e bruciate tra le sue mura, migliaia di storie disperate e di legami affettivi annientati nella segregazione forzata e nella malattia rifiutata, senza riposo e senza sorriso, senza calore, senza pietas. Molti anni sono passati da quando il cancello dell'ex manicomio è stato finalmente aperto, per poi richiudersi sul vuoto e sul silenzio. Il tempo ha lavorato, portando polvere, ruggine, umidità, sporco. Le mura si sono scrostate, gli infissi corrosi, i tetti sventrati. L'erba è spuntata tra le fessure del pavimento, e i gesti vandalici dei tanti passeggeri avventuratisi tra le rovine ha compiuto l'opera di degrado e corruzione.
Le venticinque fotografie di Ivano Cheli raccolgono l'eredità pesante del duplice strazio, quello fisiologico scolpito dal tempo e quello intimo, umano, straziante delle vite sconvolte tra quelle mura. Ce ne restituiscono il dramma e la verità silenziosi. L'io narrante scelto dall'autore è la luce. In ogni singola fotografia la luce agisce, racconta, sussurra, urla. Sia squarcio abbagliante, sia chiarore incerto nel fondo, sia pura allusione attraverso il suo contrario - l'ombra, il buio -, la luce scolpisce e staglia, spingendo il nostro sguardo verso un'illusione, una falsa via d'uscita, porta, finestra, corridoio. La vita non c'è, la vita è fuori, straniata, irreale agli occhi di chi ha la mente ferita e non sa perché. Gli oggetti delle venticinque scene sono lì, muti, come attoniti: la sedia vuota, il muro crepato, l'interruttore spento, i graffiti allucinati incisi dai degenti sulle pareti, gli arredi inutili sono senza voce e senza senso, come lo erano anche tanto tempo fa, quando la vita pulsava intorno a loro. Mutilata. E l'uomo di oggi, il visitatore che vuole conoscere e sapere per tentare di capire, è nelle fotografie di Ivano Cheli una figura evanescente, che non lascia traccia, una creatura senza peso. Tra quelle mura oppresse infatti il presente non esiste, non si aggrappa alle cose, non le copre con la sua consistenza. E' respinto, rifiutato, annullato perché la voce dello strazio sofferto è troppo alta, e riesce a sopraffarlo. Un viaggio nel dolore, dunque, in cui la Fotografia è storia, è testimonianza, è ricerca di verità, è idea. Un viaggio triste e coraggioso, da cui si torna con immagini potenti negli occhi e corde nuove nel cuore
Maricla Martiradonna