In Smemoria di me [parte 3] - Giuseppe Pittà | Rosso Venexiano -Sito e blog per scrivere e pubblicare online poesie, racconti / condividere foto e grafica

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In Smemoria di me [parte 3] - Giuseppe Pittà

... evviva, riesco ancora a svegliarmi. Nonostante questo rombo di tecno, al massimo, che dal piano di sotto, da più d’un mese accompagna ogni istante della vita. Bah, riesco ancora ad aprire gli occhi e fuoriuscire dal coma, nonostante tutto questo fumo stantio che riempie i pensieri e i polmoni. Riesco ancora ad esserci, persino in una notte come questa, tra lenzuola fradice di sudore e la solita confezione da sei della tuborg già per metà pisciata. Un’altra notte di follia, con questi spasmi di musica a spezzarmi le ossa e il cuore, allontanarmi dalla pace della poesia, che non riesco più a scrivere un rigo, da quando ci siete voi, maledetti del terzo piano, a rubarmi la notte e l’ispirazione. E questi treni a passarmi accanto, a ballarmi la stanza e le luci, che entrano dentro, a lampi, folgorando occhi e ricordi. E il caldo. Duro e rovente, in questa minuscola prigione romana, a due passi dalla termini, in questo mai così infuocato luglio. Ho qui gli appunti che non ho voglia di rivedere e le quattrocentotrenta pagine da digerire, subito, prima che sia veramente troppo tardi. Il sudore, su tutto il corpo. Mi alzo. Il frigo è vuoto. Birra? Finisch! Raschio la ghiacciaia, riempio un bicchiere di nevischio puzzolente di metallo. Spruzzo mezzo limone. Giro col dito. Buono ... ho già sete. Ho voglia del mio cat stevens, che mi sussurra, ormai da lontano, di una pace che non so trovare. Non posso ascoltarti stasera, amico, saresti in pericolo, i tuoi sogni sarebbero frantumati da questi panzer minacciosi, che rombano, rombano, distruggendo ogni cosa. Da un po’, amico, hanno scelto me. Si spassano a demolirmi. Credo stiano vincendo. Comunque, rieccomi qui, in questa via urbana trentasei, mezzo nudo, a cercare un po’ di vento alla finestra. Niente da fare, neanche un piccolissimo alito. Si crepa. Notte di fuoco, stanotte. Provo a pensarti. Tra pochi giorni sarò da te, sulle nostre montagne di molise. Nel fresco delle nostre serate, forse a giocare ancora all’amore, nonostante tutto ... Provo a pensarti. Mi sfuggi, come spesso sta accadendo negli ultimi tempi. Queste onde malefiche mi rendono pazzo. Ed io ti punisco, ti voglio punire. Perché forse non c’è più niente tra noi, se non l’abitudine ad essere vicini. Non ti desidero. Non ti voglio, neanche a pregarmi. Il pensiero d’un corpo, caldo poi, a trentasei gradi e mezzo, da stringere, da baciare, da strusciarsi contro, dio, no, non è possibile, niente da fare, mi fa pazzo. Ma che dico, credo di non ragionare più. Amore, perdonami. Dio, dio, basta! Per favore, smettetela! Provo a sintonizzarmi altrove, questo nuovo chandra m’aiuta, terra rossa e pioggia scrosciante, un sogno d’india, un sogno da sempre. E mi ritorna quella meraviglia di mare di bahia, nei giochi del mio maestro jorge, mare, mare, impetuoso e suadente, così pieno di brezze e nudità, da immergerti con voluttà, a rasserenarti. Ahi, ahi, i tuoi sogni ... e quella tempesta, a spuma bianca, come di buona birra estera ... rien ne va plus, amico. Meglio fuggire. Allora mi vesto. Poca roba. Solo per pudore. Vinco la pigrizia, urlo al vento che non c’è e mi fiondo in strada. Lei è sempre lì, all’angolo. Solita mise. Minigonna inesistente, verde. Corpetto metti in risalto le tette, che per quel poco che c’è sembra giallo. Slip microscopico argentato, davvero poverissima cosa, una inutile strisciolina a separare natiche e tutto. Parrucca rossastra di qualità, scarpe tacco venti, cintura scura sotto l’ombelico. Occhi stanchi. Bocca sforzata a perenne rappresentazione di voluttà. Cervello spento, come il mio. Sigaretta accesa, come me. Strano, non ha borsa, stanotte niente borsa. Dove metterà i soldi che guadagnerà? Boh, non sono fatti miei. Però è strano assai. Mi vede, mi fa un cenno. Arrivo da lei. Saluto a bacino, sulla guancia. Allungo una carezza alla coscia. Brucia. Ride e mi stringe per un attimo al petto. Mi piace il suo nuovo profumo. Glielo dico, sorride. Ci conosciamo da una vita con la rita, da quel giorno in cui mi offrì il riparo di un letto e tante di quelle carezze, quelle che ti fanno star bene. Da quel giorno, cominciato niente male, in cui a trastevere spacciasti provocatore una tua poesia per roba di ginsberg e tutti si complimentarono, per come l’avevi recitata bene e ringraziavi questo e quello, con garbo e civiltà, persino l’altro tizio, che ti disse che lui amava tanto profondamente quella poesia al punto da recitarla nei momenti peggiori della sua vita, per farlo subito star bene. Ricordi, piccolo stronzo, ricordi? Lo guardasti ad incenerire e poi scoppiasti a ridere, da non fermarti più, che ti dovettero tenere forte la testa, come a chi sta vomitando. Finisce bene. Finisce che andate tutti a fare il pieno, compreso il tizio che pensa di prenderti per il culo, e tu ritorni a quattro zampe verso casa tua. Rita ti raccatta lì, all’angolo della stazione della metro e ti porta a casa sua, perché dice di sapere che sei studente ed abiti poco più su ed hai tanto bisogno d’aiuto. Dormii da pazzi e mi svegliai con lei accanto, che mi carezzava piano il volto. Come l’ho amata la rita. Come l’amo. Adesso giochiamo un po’ a prenderci in giro, mentre mi rapporta sul movimento. Scarso. Solo turisti per monumenti e lampi di automatiche per lo splendore di un ricordo fotografico di puttane romane e tranelli inventati. Il caldo ammazza ogni voglia, stanotte. Rita mi stringe la mano e, lanciandomi un bacio, s’avvicina alla macchina che, nel frattempo, si è fermata più in là. Un cliente. Spero per lei, mente che s’avvicina sicura ed infinita. Chissà che penserà il cliente? Penserà di certo che sono il suo protettore? Evviva, l’idea mi va. Continuo a scorrere. Risalgo via cavour, verso la stazione, in via marsala c’è sempre un bar aperto. Devo avere della birra. Fresca, a tramortirmi. Ricordo all’improvviso il bar del thriller, come lo chiamammo all’epoca dei nostri primi sospiri. Già, il bar del thriller. Cinque minuti e sono da te. Qui, una volta era la vera vita. Non a tutti era permesso entrare. Un gran locale di movimento, di smistamento. Fecero fuori un trafficante. Uno grosso e potente. A pistolettate. Questione di donne, dissero, e non si seppe mai chi l’ammazzò. Sentimmo gli spari quella notte, ricordi, mentre che giocavamo a scoparci. Fu terribile. Rimasi a metà. La prima sconfitta. Ora è solo un bar. Discreto e banale, con le bottiglie in fila, dietro il banco, un pianista scordato e bruttino che percuote, distratto, i tasti d’un vecchio piano traballante, in una musica disperata, da flagellarti a sangue. Anche qui, diomio, perseguitato dalla brutta musica! Mi faccio coraggio. Sorrido tetro e feroce. Entro. Due birre e un po’ di sale, così, tanto per cominciare. Il barista è unico. Uguale alla notte. Crudele, sudaticcio e parlatroppo. Prepara e dispone. Assaggio. Ok, bimbo. Hai la mia approvazione, le zeroquattro sono al punto giusto. Svuoto, assestando la gola e lo spirito. Altre due, compagno! Mi guarda un po’ così, ma esegue. La presenza è vicina, l’avverto dal profumo. Troppo vicina. Mi alita. Pura selvaggina flambé. Odore classico e perverso. Sapore da divorare. Gioia da rimorchiare o da essere rimorchiati. Chissà. Comunque da volare, lassù nel refrigerio delle nuvole. Qui, vicina, vicina, scoparsela tutta e al diavolo il caldo e la sete. Volerla, si, volerla. Qui, vicina, vicina. Da morirci. Il gioco mi aggrada. Perciò mi acconcio a giocatore e senza visibile fatica giochicchio con le olivette nel piattino. Mi squadra. La squadro. Tiro su con il naso un pezzo di quest’aria sconcia e isolo il suo profumo. Lei mi prende il bicchiere dalla mano, beve dove io ho bevuto. La risquadro. Scura di tutto. Trucco fatale, a noir di prima categoria francese. A soffio di carnefice. Occhio che strazia, frantumando. Bocca da meravigliose tenere sconvenienze. Pensieri a morbide cosucce sopraffine, da farti delirio e concludere così, senza toccamenti e spinte. Tenebroso, lungo sguardo dalle mie parti. Credo che approvi. Cenno d’invito, da parte mia. Risponde col corpo. Da lei, mi fa capire. E via, volando, giù in un vicolo oscuro. Le sono accanto. Alcuni gradini, una porta verde, una scalinata stretta, di pietra, consunta. Salgo, mi è davanti. Guardo. È molto bella. Strano. Mi sento tranquillo. Perché poi non ho chiesto alla rita della sua borsa? Boh ... Arriviamo, finalmente. Una stanza piccola e un telefono che squilla. Senza una parola, s’avvicina, stacca la spina. Silenzio. È come essere in una specie d’oasi, non si sente niente, nessun rumore. Si sta bene. Con un cenno m’invita a sedere. Si allontana. Al bagno. Sento il rumore. Mi agita e mi va eccitando. Cerco di distrarmi. Il gioco mi è sfuggito di mano. Me l’ha fatta, è lei a comandarlo, si, è lei. Gusto il disordine. C’è di tutto e tutto è così sottosopra. Al centro il letto, enorme, di lenzuola nere, di seta. Risulta perfettamente rifatto. L’unica cosa in ordine nella stanza. Vorrà dire qualcosa? Rientra. È in vestaglia. Siede, davanti a me, su una sedia di legno. Un attimo e la musica si fa sentire. Piano, si fa riconoscere. Strauss, si. Nel vecchio amico sconosciuto stanley, che ci hai salutato, ormai per l’ultima volta, in partenza per il futuro, nel mistero di quel monolite nero a pece di duemilaeuno. Addio. Le labbra, a brace di rosso, sono leggermente aperte. Accenna a muoversi al valzer, abbracciandosi forte ad un finto cavaliere, drappeggiandosi addosso questa fascinosa vestaglia, che ora sembra una nuvola di polvere profumata. Mi piace molto quello che sta facendo. Mi guarda, muovendosi con più lentezza. La lingua saetta, micidiale. Le mani non smettono di tormentarmi. La vestaglia comincia pian piano ad aprirsi, mostrando un corpo decisamente molto seducente. Il seno è qui, nei miei occhi, a reclamare, fortemente, baci e carezze ed altro, ancora. Capezzoli foschi, ventre piatto, ombelico a diamante raro e prezioso. Cosce a colonne di delirio, sostegno del tempio dell’amore, d’un amore folle e maledetto, che finirà alle prime luci dell’alba e che non si dimenticherà più, per l’estasi che ha lasciato nel cuore e nell’anima. Freno la voglia di avvicinarmi a lei. Sento di dover attendere. E il meglio arriva. Si siede, scostando la vestaglia. Le gambe, tutte in mostra, si vanno schiudendo. Mostrano cosce torbide, affidate al contrasto di seta e carne, con queste calze scure così magiche. E il meglio arriva nella visione della sua nudità. Nuda, tutta nuda, a sfamare, a ristorare. Nel tormento gli occhi scostano, cercano, si muovono sul suo corpo. E trovano piaceri indescrivibili. Giocano alla carezza. Sfiorano con labbra umide. Arrivano al centro e stramazzano ineluttabili in questo penetrante profumo di carne, aperta e spietata, in tutta la sua dolcezza, a urlare voraci baci ed insultanti tenerezze. E il gioco, stranamente, prende una diversa piega. Improvvisa e scostante chiude agli sguardi. S’alza di scatto. Fugge. Ho commesso un errore? Ho giocato male le mie carte? Ma se non ho giocato affatto! Non capisco. Improvvisamente ritorna, l’ombra sembra essersi dissolta. Mi è dietro. A soffiarmi dissolutezze. Scivola intorno, m’avvolge. Si mostra e nasconde e riappare. Vogliosa e vincente. Il corpo schiude spezie ed odori. Non resisto. Provo a giocare un po’ io, stavolta. Allungo le dita. S’allontana. La seguo. M’allontana. Ritorna. È sfrontata. Stuzzica. Non resisto. Va in cucina. La seguo. Ecco. Ci sono. La mia scena preferita: jessica e jack nel gioco perverso del postino che suona sempre e comunque due volte. Si. Ci sono. Ora. Va schiudendosi. È pronta. Sono pronto. È mia. L’afferro. Forte. Un ultimo guizzo. S’avvicina ad un frigo da macellaio. Lo apre. Mi fissa. Come lo vuoi il gelato, bello, alla fragola o al limone? Mormora golosa con voce da cornacchia... e va ad uccidermi, così, semplicemente...

… ancora con il nostro paso doble. Desiderio di te. Del movimento. Di te. Di me. Sintonia di palpiti e fremiti, nello sguardo d’una perpetua eccitazione . Di questa magia di ballo alla fredda presenza della luna. Che spande polvere d’argento sulla gioia dei nostri passi. Uno. Due. Tre. Quattro. Si vola …

… e ancora prima. Prima del sogno, quando eravamo fermi alla luce del solito massacro. Nel gioco antico di scorazzare lungo le strade lastricate a ciottoli e pensieri. Prima. Prima di sentirmi questo sapore in bocca che solo il sogno dei tuoi baci riesce ormai ad addolcire. Nella gradevolezza di un intero esercito di nuvole a disegno di follia, a scorrere forsennate sul nastro grigio di questo cielo piovoso. Prima. Prima che sulla collina spuntassero nuovi fiori colorati, a rompere la monotonia del verde dell' erba, a rischiarare lo sguardo con questi petali dal tenue profumo di te. Prima. Prima del risveglio, un istante prima di aver letto ad una ad una le parole che colorano le illusioni. Un solo piccolo microscopico momento prima di aver toccato con le dita timide e tremanti i segni complessi di queste nostre frasi, dove ogni parola scandisce il lieve muoversi dei sensi. Solo un impercettibile movimento e il gusto frizzante del vino si spande sulle tue labbra, quando sento questo richiamo vorace a farlo mio, il tuo sapore, confluendo ogni cosa nel mio appetito di te, nel volerti percorrere, tutta, in lungo ed in largo, a donarmi, a donarti il morbido gioco del piacere. Prima. Prima di riconoscere i segni del mio vento. Prima di questo tempo che tutto inclina al suo volere. Prima, prima del sole e della pioggia, prima del canto del gallo, prima del ruggito sconclusionato delle foglie, prima dell'ultima sigaretta, dell'ultimo programma della notte, dell'ultimo bicchiere, dell'ultimo pensiero. Prima di svegliarmi di nuovo e salutare il dopo. Prima del silenzio, prima della negazione della voce, prima della follia e del delirio. Prima di domani. Un solo sublime istante prima della fine del nostro ballo…

… nella notte il cuore batte più forte io almeno lo sento più forte i battiti sembrano scoppiare nelle orecchie ed ogni volta penso la stessa identica cosa ogni volta mi chiedo quanti altri battiti mi rimangono quanti ancora potrò ascoltare quanti altri mi sono stati assegnati ed ogni notte sembra che ad un certo punto si vanno esaurendo e sempre sempre pochi istanti prima che mi si chiudono gli occhi ho come la tristezza immensa che ce ne restano ancora troppi pochi per me ieri notte ho provato distrarmi pensandoti e così ho trovato il gioco di questa stupenda monotonia di te che mi giri e rigiri nelle vene riscaldandomi ogni volta il cuore e così mi spingo nel credo più intenso che è quello di legare te ai battiti e legarti anche ai respiri perché anche i respiri fanno parte del mio conteggio notturno quanti ancora me ne restano quanti ancora gli aliti della vita quanti è un gioco che può essere infinito perché tutto si conteggia tutto può diventare numero e pensiero come questa stupida voracità del dirmi di quante carezze ancora dispongo quante carezze da dare e carezze da ricevere e quanti sono i baci e quanti i sospiri dell’esplosione infinita dei sensi ed è una gioia ogni volta svegliarmi aprendo gli occhi al giorno che il primo pensiero è che ancora ho possibilità delle tue carezze e di baci e di respiri e di questi stupendi battiti del cuore …

… vorrei che potessimo farlo tutte le notti significherebbe che tutte le notti sei qui con me ci teniamo la mano ci respiriamo restando in silenzio si perché non abbiamo parole che non sono necessarie a volte le parole solo sospiri e piccole dolci carezze e baci dolci baci come zucchero filato sulle labbra baci in gran quantità e noi soli nella penombra della luna a guardare insieme le strabilianti figure che si compongono sul soffitto dove in ogni minuto le figure mutano e noi vicini a seguire il filo dei pensieri con le teste distese sui guanciali il tuo seno a premere il mio braccio e la magia profonda dei calori che si mischiano vorrei le tue dita a percorrere la mia pelle le unghie a segnarmi come seguendo un percorso fatale ed ammaliante l’allettante viaggio che ti regna nella mente vorrei abbandonarmi alle tue attenzioni perché so che a te piacciono che a te le carezze che mi dai sono come dispensarmi di un liquido ristoratore una pozione a ridarmi forza e sicurezza e così muovo anche io le dita a cercare la tua pelle che la tua pelle è morbida e senza impurità che io adoro percorrere con le mani aperte ma molto lentamente senza farti sentire il peso del mio desiderio che tutto mi strega e mi inebria come questa follia di volerti per urlare in silenzio soltanto il tuo nome e finire insieme a te nel sacco oscuro del sonno un sonno senza sogni perché non sono più necessari che l’unico sogno che vorrei sarebbe con me finalmente addormentarmi stringendoti finalmente svegliarmi nei tuoi occhi trovandoti e ritrovandoti finalmente mia finalmente …

sotto lo sguardo della mia luna rovente …

ed eccomi qui, in questo sogno, a rincorrerti, ancora una volta. Joe torna a tormentarmi dal vecchio palco a luci stanche dei giorni, divini, nella pioggia e nel fango della nostra parete mascherata a piccola Woodstock. Dolce malinconia, eccomi, ancora qui, con te, a spiccare il volo della notte. With A Little Help From My Friends. Urla Joe. E nel sole del mattino, della luce su questi tuoi occhi sereni, qui, nel risveglio, tra lenzuola in disordine e tutti i fogli, a scarabocchi di parole, sparsi sulla nostra pelle, ti stringo, ritrovandoti. Poesie, stolte, folli, incredibili, poesie. Mie. A dedicartele da sempre. Segnate sugli autobus, nei lunghissimi viaggi a separarmi da te. Dolcissimo amore. A risentirti, pazza e felice, tra l’urgenza delle mie braccia. Sussurrarmi il desiderio, struccandoti nei baci. E Jimi strugge nella tempesta dei cuori. Gioca di sospiri in questi nostri giorni di libertà, a contare ciuffi di fiori, nella villa dei cigni, accanto ai raggi, sulle tue adorabili labbra. Dolce sapore di te, dolce abbandono nelle notti sudate. Qui, accanto al silenzio lunare, a ricordarmi delle parole, sdraiati a seguire le stelle dalla collina, fresca di vento. Giocando all’amore, sempre e comunque. Delle nostre fughe tra le persiane socchiuse, su all’ultimo piano, di questa via Urbana numero novanta, a dissetarci nel canto fragile dei miei Zeppelin, a fonderci dentro, mentre che le campane elettriche chiamano alla funzione serale le vicine di casa. Qui, nella gioia della nostra Roma suprema, a correre infiniti verso il futuro, amore mio. Allora eccomi, ancora al tuo fianco. Ancora. Sfioro il seno, avvolto dalla tunica Made in India che mi uccide, ogni volta, di tenerezza. Mi perdo nella profondità dei fruscii del nero di seta, mentre ti soffio, per l’ennesima volta, l’amico Evtusenko, che tanto ci fa bene, nelle giornate della crisi. Che tu costruisci a dubbio ed io, più che morto, riprendo a rivolta. Eccoci ancora in guerra, sul deserto notturno del nostro quarantasei barrato, a volare nel dolore dell’ennesimo "lasciamo perdere, non possiamo più continuare...così". Qui, nella fuga terribile, a cercare di riempire le mie giornate, già definitivamente piene di te. Strade, strade, vuote di sogni, strade. Per poi ritrovarci ancora, ogni volta. Con la gioia della disperazione. Vicini e sempre più distanti. Stretti, a finirla, così, lentamente. Come adesso, in questo Convento occupato dalle parti del Colosseo, abbagliati dalla bravura di Hal, del suo mimare la vita e il dolore, sulla pietra nuda del Chiostro a cercarci, urlando tutto il silenzio del desiderio folle che ci scoppia dentro. E prenderci nel sussurro di un’ansia terribile e sconvolgente come nella consapevolezza del nostro definitivo naufragio. E donarci gli ultimi istanti dell’estasi. E negarci ancora nel buio di questa sala di seconda visione, nell’accoppiata perdente del mio Godard, del delirio, del sogno di accarezzarti mia cinese Vèronique, forza viva dell’idea, qui, del tuo Bellocchio, a sognare insieme la vicinanza della Cina, a morire d’amore, poco a poco. Nei ritorni silenziosi, verso il cielo di Monte Mario e lasciarci, profondamente mutati, stavolta senza un bacio, una carezza. Addio. Giorni rumorosi, poi, a seguirmi nel disegno di volerti scordare, di doverti scordare. Lo stadio e l’urlo della Roma, evento meraviglioso, a negarti il posto d’onore dei miei pensieri. Finzione. E la sera, ancora così buia, a spiarti nelle serate magiche dei tuoi splendori, dei nuovi amici, delle carezze ritrovate, del gioco a rincorrerci nei teatri e nei cinema, a far finta d’ignorarci, colpendo forte, addolorando. Si, come in questo istante preciso, qui, nel sole degli aranci, nel giardino dei nostri incontri, con l’alba tra le dita ad aspettarti. Sentire la tua presenza più che vederti. Scoprirti in un raggio di tristezza, vicina al sogno delle notti, degli incubi. Venirmi incontro. Sorridermi. Dio come sei bella. Sangue e passione. Così torniamo a correre, scalzi, nel soffio del mattino, schiacciando l’erba al nostro rotolarci, felici, finalmente. Ed eccoci qui, in un altro stupido contrasto. Vieni da me, stavolta. "dovrei andare per un po', un impegno già preso". L’assoluto silenzio, poi il sibilo "non ci sarò ad aspettarti" e via, verso l’inferno, tra rimproveri e derisioni, rinfacciandoci debolezze, qui, nel consueto riprovare a vivere uccidendoci con odio, poco a poco. E scopriamo di star perfino bene, questa volta, tu, con lo psicologo dio del momento ed io con la docile lanciatrice nel diamante d’uno sperimentale softball. Qui, per caso alla "Rinascita", a scontrarci al banco dei tascabili, nel sogno feltrinelliano d’America. Presentiamo i nostri, guardandoci negli occhi. Ritrovo i fremiti. Allora ti prendo dal mucchio di comete uno dei nostri blues, quello che so dovrà piacerti, sfoglio lentamente e comincio a leggere piano: "qualcuno che io sono è nessuno / qualcosa che ho fatto è niente / qualche posto dove io sono stato è nessun posto / io non sono me / che dire delle risposte per le quali devo trovare domande / tutte queste strane strade / per le quali devo trovare città / grazie dio per i beatniks". Oh Leroi, Leroi Jones, amico. Ci lasciamo così, all’improvviso, senza una parola di saluto, soltanto con questo cenno, tra noi due, per trovarci ancora, ora, adesso, stanotte. E saliamo le scale, a due a due, del vecchio palazzo di piazza Mazzini. Dalla nostra Adriana, complice di sempre, nella vecchia stanza, di questo piumino a coprirci appena e del mio maglione sulla tua pelle, nuda, a sfidare l’impazienza del desiderio. Qui, nel grido delle sirene, della notte senza riposo, a mischiare le follie dell’amore, del tormento. Oggi, il risveglio. Il profumo del caffè, le gocce della grappa a ridarci la vita, la prima sigaretta, l’ultima carezza. Poi. Poi via, verso il sole del mattino, verso la normalità. Alex mi aspetta per un suo progetto culturale, devo portargli i pezzi, le foto dell’ultima mostra del gruppo a casa, in Molise, e questo triplo di Woodstock, portato da Cleveland, per la gioia mia e per quella di voi altri, dal vecchio Nichi, compagno della mia infanzia. Via, amore mio, da questo nostro amore, così forte, da farci perdere la testa, e così difficile, da distruggerci l’anima. Via, amore mio, da questo volerci bene a momenti, facendoci sempre più male, persino quando gioiamo, pieni di felicità e desiderio. Lontano, forse a scoprire un mondo diverso, dove possiamo stringerci addosso la nostra idea del futuro, senza contaminarla con le scelte che, sembra, debbano essere fatte apposta, senza dubbi e tentennamenti, perché così è, così dev’essere. Lontano, amore mio, verso questo silenzio che ci avvolge, che, se ti fermi un attimo, riesci perfino a sentirlo. Qui, nel nostro andare comunque avanti, consapevoli della bellezza del sentimento, a cancellare questa moda che ci vuole insensibili e crudeli, freddi e calcolatori, forti di certezze e verità, incrollabili. Qui, amore mio, forse nel pezzo di cielo che ci meritiamo, tra i ruderi delle mie poesie, nel viaggio quotidiano dello splendore di Roma, nella meraviglia del tuo sorriso vero e il profumo dei nostri baci, degli abbracci e l’ultima scena del nostro film preferito. Qui, nell’ebbrezza e nella disperazione di questo Dustin appena laureato, della madre della sposa, della fuga da tutto il marciume delle nostre case, di questo fuggire il tempo, tra strani destini di cartone, dipinti dall’abitudine dei maestri, del piccolo nostro scrigno delle idee, venduto sfacciatamente al banco della chincaglieria, a Porta Portese, e della musica ad accompagnarci, nell’estate di quest’anno, con Simon e Garfunkel e un sacco di cose buone e complicate, a cominciare dall’aria. Qui, nel canto crudele d’un nuovo giorno, a soccombere di crolli ed attentati. Nell’antica storia dei soprusi, a scambiarci colpi disastrosi. Qui. Nel sogno insensibile della malattia della memoria. Addio, anima mia, a non sentirci più ...

* ( la citazione di Leroi Jones è tratta da " Poesia degli ultimi americani " ne Le Comete - Feltrinelli - 1964 ).

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-Associazione Salotto Culturale Rosso Venexiano
-Direttore di Frammenti: Paolo Rafficoni
-Supervisione: Manuela Verbasi
-Editing: Manuela Verbasi, Emy Coratti
-Racconto di Giuseppe Pittà [ohrasputin]
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