Stanotte non ho voglia di dormire - Rendel | Rosso Venexiano -Sito e blog per scrivere e pubblicare online poesie, racconti / condividere foto e grafica

Login/Registrati

Sfoglia le Pagine

Sostieni il sito

iscrizioni
 
 

Stanotte non ho voglia di dormire - Rendel

Sarà la luna che non c'è, sarà il caffè di due ore fa. Sarà l'abitudine che ogni tanto va interrotta, sarà la mente e le sue malattie.
Sarai tu, e sarò io. Quanto ci rimane prima che la fiamma si spenga, soffocata da passioni più urgenti? Non credo nell'amore, non credo nelle donne, non credo nella fedeltà, non credo nella vita, non credo in nulla, meravigliosamente ateo, come faccio a credere a te e al tuo carico di promesse? Sei la prima, sai, che varca la soglia di casa mia e non la lascia dopo poche ore. Sei la prima i cui vestiti abbiano visto il mio armadio, e le labbra la tazza, e lo spazzolino la bocca. Sei mesi cosa sono in confronto alla vita, nulla dicono tutti, ma in confronto all'amore sono un'eternità, per me è così, lo sai anche quando dormi, lo sai perché te l'ho detto, con mio stupore e meraviglia, lo sai perché me l'hai carpito dalle labbra, tentandomi con le tue. Amo il modo in cui scivolano sul petto, incontrando l'addome, e più giù il tuo giocattolo e il mio piacere. Amo varie cose di te, non tutto, certo, se così fosse ti divinizzerei e tu, come qualsiasi donna cui si offra tutto quello che dice di cercare, scapperesti spaventata come il gatto con il piede che impietoso cade a incontrar la terra. I miei limiti sono tanti, i tuoi forse di più, sei donna, fragile che lo si voglia o no. Forse perché più complice alle passioni, chissà. Quel che vi rende il sesso debole non è che la vostra sensibilità, tanti altri prima di me sono arrivati a questa conclusione, tanti altri hanno spinto su questa leva per ribaltarvi, e far di voi ciò che più piace, in accordo con le fantasie soggettive. Eppure ogni uomo è inerme innanzi a voi, se vi dimostrate più abili di lui. Irretite i suoi sensi, e potrete vantarvi di tenerlo per le palle. Rigiratelo, ma non troppo. Se mai prendesse coscienza della cosa, se è uomo, andrebbe incontro alle reazioni più imprevedibili, non escluso l'uso delle mani quale strumento punitivo. Che orrore, penseresti, fossi sveglia. Dipende, credimi, ho avuto la tentazione più di una volta. Il fatto è che voi sbagliate a far conto sulla morale, e prenderla quale legge universale che mai nessuno si sognerebbe di infrangere, pena la dannazione eterna post-mortem, e in vitam l'emarginazione, ultimo dei sette sigilli della personale apocalisse umana. La morale è una legge che ci siamo auto-imposti, e ci governa meglio di tante altre, è vero, ma il fatto stesso che è legge, rende attraente, inconsciamente, la possibilità di infrangerla. Quante volte l'hai fatto, per cose meno gravi forse, ma meno gravi secondo una tua scala di valori, che per chiunque altro potrebbe risultare ribaltata! E ne hai goduto in segreto, ti posso quasi vedere, nelle notti insonni e nelle veglie inutili, di quell'atto così piccolo e così straordinario. Forse l'hai ripetuto, per trarne ulteriore giovamento, e solo allora ti sei resa conto che quel che rende grande un'azione è la sua unicità. Che verità spiazzante per noi, che passiamo la vita a ripetere le stesse azioni!
Passerò la notte a guardarti dormire, stesa su un fianco con il lenzuolo che lascia intravedere la curva del seno sinistro, e starò vigile, occhi aperti orecchie allerta, affinché nessuno possa farti del male. E se sarai tu stessa, con i tuoi incubi infantili, a procurarti dolore e fastidio, allora ti sveglierò quanto più bruscamente è possibile, sicché il passaggio dal tuo mondo al nostro sia immediato e totale, e potrai sentirti al sicuro tra le mie braccia, se di esse avrai bisogno.
Mi spaventi, in fondo, ed è la più strana delle paure mai provate, credimi, come quando trovi un portafoglio per strada e ti chini a prenderlo, e subito t'allontani, stupito e impaurito. Tu sei il portafoglio, Elektra, e io il fortunato passante. Ti ho preso con me quando un altro ti aveva perso; ho paura che ti venga a cercare, ho paura che comprenda il tuo valore. E non temo la mia incolumità, ho muscoli sufficienti a stendere un bisonte, temo un tuo scombussolamento, e il successivo dubbio. E i dubbi, specie nelle donne, non portano mai niente di buono. Forse ci pensate troppo, non potrò mai saperlo. Probabile, anche, che non pensiate affatto, e vi lasciate trascinare dal fiume violento delle emozioni, travolte dalla corrente, sbattute sulle rocce, masochiste quanto basta per evitare qualsiasi appiglio, fino a cadere giù nella cascata più impetuosa. Se così fosse non saremmo poi così diversi, la differenza tra i due sessi si limiterebbe al mero aspetto fisico, e qualche inezia filosofica. Nessuno lo ammette, ma in quel fiume ci cade anche molta gente con gli attributi. Anche loro non tentano di sottrarsi ai flutti, seppur quanto fanno è mascherato da un ego più o meno gigantesco, che vela di volontà l’inevitabile.
Quant’è piccola la nostra specie, quanto è fragile. Il pensiero è la nostra croce, sebbene molte religioni lo spaccino per dono divino e diritto teologico. Ci rende deboli, giacché in assenza di esso solo l’istinto prevarrebbe, e mai si è visto animale alcuno soffocato da amorosi sensi, o dolori intimi.
Credimi, e fallo mentre dormi se è possibile: mi spaventi, perché sei una finestra sul futuro più incerto. Sei mesi fa vivevo il presente, e l’avvenire era per me come il più luminoso dei soli: mai guardarlo per più di qualche secondo, la retina ne risente. Nella fattispecie ne risentiva il mio umore, perché la mancanza di prospettive inevitabilmente spaventa chi conserva un briciolo di amor proprio.
Eppure quando esse risaltano, seppur sfumate e confuse, all’orizzonte, nondimeno causano medesimo sgomento: se è vero che non possiamo sopportare il buio davanti a noi, altrettanto certo è che la luce più flebile lascia intuire quanto ci aspetta. E’ una condizione psicologica antitetica ma essenziale. Il profilarsi di gioie o dolori più o meno possibili porta con sé processi mentali dall’esito sfavorevole per chi li produce.
E’ il cambiamento, che ci spaventa. Me come chiunque altro. Tutto ciò che è nuovo è per natura spaventoso, tutto ciò che ci porta a deviare dalla monotonia ci attrae allo stesso modo di un manicomio abbandonato un gruppo di bambini.
E sono curioso quanto loro, credimi. Solo per questo sei ancora qui, tra le lenzuola pregne del tuo sonno.
Ricordo il nostro incontro con una nitidezza rara a trovarsi nel campo dei personali souvenir. E’ un momento in cui posso rifugiarmi quando più mi piace, e viverne le stesse sensazioni, volendo esagerare, ma è capitato anche questo, e più d’una volta. Il mio passato, allora, era una gabbia dalle sbarre in acciaio, di quelle d’un metro per uno, con fattore claustrofobico tendente a più infinito. La chiave l’avevo gettata via io stesso, più di tutto mi mancava la forza di evadere, così preferii conferire alla certezza del fallimento le fattezze della fatalità. E’ una magra consolazione, sai, e insopportabilmente ipocrita agli occhi di amici e parenti, peraltro dal canto loro ben fuori da gabbia alcuna, eppure per quanto sottile è un qualcosa che ti fa andare avanti, in un modo o nell’altro, una bugia che rende più sopportabili, se possibile, quei mesi, quegli anni o quella vita. Sarebbe normale cedere al desiderio di un annullamento totale, se presi dalla consapevolezza che sei tu stesso a determinare la tua condizione, e cosa più importante, sei tu stesso a impedirti di uscirne. Più saggio, allora, scaricare responsabilità su qualcun altro o su nessuno, comunque non la propria persona,fino a quel momento in cui, giunti al fondo del pozzo, non s’accende, da qualche parte, la volontà di rifarsi,e allora inizia la lenta risalita, e non c’è fatica più bella e gratificante di quella.
E forse già bruciava, quel giorno, pur timida e insicura come ogni giovane fiamma, bruciava in silenzio, ma c’era. I miei occhi, in caso contrario, avrebbero incontrato i tuoi per abbandonarli, indifferenti, pochi istanti dopo: come quando guardi la folla per strada, o il traffico la mattina. Era lo sguardo che riservavo a chiunque, che fossero cento, che fosse una. Nel tuo caso invece sono rimasti li, piantati al pari d’una macchina ingolfata, e devo esser sembrato pazzo o maniaco e quant’altro, eppure il tuo sguardo mi ha risposto, affondando con voracità nel mio. A che serve parlare, se bastano quattro occhi che s’incontrano per cucire nella memoria il più bello dei momenti?
Dovesti pensarlo anche tu, perché per tutta la sera andammo avanti così, occhi negli occhi, ed era un nostro modo per conoscerci e prendere confidenza, inusuale certo, appunto per questo degno di nota.
La banalità è il peggiore dei mali che affliggono un uomo, oggi; lo sapevi tanto quanto me, ed è andata così, in un modo inusuale, per questo lo ricordo con nitidezza estrema in ogni suo particolare, che poi si riduce all’essenziale dei tuoi occhi incorniciati in un viso che mi parve perfetto, e tutt’ora conserva questa sua piccola e magnifica magia.
Si creò una complicità non supportata da parola o gesto alcuno, della specie più rara a trovarsi, di quella specie che fa scattare qualcosa, e ti ritrovi a pensare a quel viso pur avendolo ancora davanti, guardi e pensi, chi mai lo fa? Pare assurdo, ma in fondo è così: normalità vuole che prima si rimanga colpiti, e poi, solo più tardi, preferibilmente la notte, ci si pensi. E si parte con i chissà, e da quelli, e solo da quelli, nasce il resto.
Così dopo una buona mezzora mi sono avvicinato, ti ho detto il mio nome e tu mi hai detto il tuo. Alle 8 passo a prenderti, e così è stato. Essenziale.
Il motivo per cui la notte sia l’ora di punta per pensieri e interrogativi riguardanti te stesso e la tua condizione attuale passata e futura non me lo spiego proprio. C’è chi dice che è così perché, al giorno d’oggi, è l’unico momento che ti resta per riflettere su te stesso. Ma se davvero funziona in questo modo, allora staremmo sempre a pensare agli altri, o a qualcos’altro. Io agli altri ci penso poco, fatte le dovute eccezioni, a qualcos’altro sicuramente di più, ma le 17 ore di veglia non le riempio comunque. Sarà che pensiamo a tutto, e di fatto ci rimane il niente. Sarà che siamo talmente occupati a vivere, che di rado pensiamo alla vita.
Che roba, però. Sono convinto che l’epoca in cui viviamo, in un lontano futuro, sarà guardata con un misto d’orrore e incredulità, forse anche una punta di divertimento, perché l’incomprensibile suscita o sdegno o risate, e non so proprio quale reazione tra le due è preferibile.
La risposta in fondo non mi interessa, vado avanti dedicandomi le veglie notturne, quando capitano. Me le faccio bastare, e sto bene così. Ai tempi attuali, poi, non è il caso di dedicare troppo tempo: questa notte è mia, mia soltanto.
Sai che c’è? Potrei passarci la notte e salutare l’alba, pensando a come potrebbe andare tra noi due. Ma mi accorgo che non ha senso farlo, comunque vada non potrò farci niente. Tutto questo riflettere è dovuto a quelle che ti hanno preceduto, e che niente hanno lasciato se non il piacere d’un attimo, la percezione più intensa, che si snoda attraverso pochi secondi di nulla assoluto.
Sei la novità dell’anno, ed è normale che abbia nei tuoi confronti un occhio di riguardo. Ma sto esagerando, scadendo nella paranoia.
Sono fatto così. Invidio coloro i quali non pensano alle conseguenze. Che poi finiscano spesso nell’occhio del ciclone, non è negativo: certo non si annoiano, e se lo fanno è un tedio che, quando sarà passato, non lascerà il ricordo di sé, e tenderà a riproporsi solo dopo molto tempo, offrendo un disagio tutto sommato accettabile.
Li invidio perché vivono più di altri, perché provano tutto, ma proprio tutto, della vita.
Ma in fondo non mi importa poi tanto, a ben vedere sto bene anche così, e non potrei essere altrimenti.
Questa mattina, dopo che sei uscita lasciando tra le coperte tiepide il tuo ricordo più intimo, mi sono gingillato per un po’ con l’idea di una mia eventuale reazione ad una notizia totalmente inaspettata, portata da te medesima, una di quelle cose che ti vengono vomitate addosso un giorno qualunque, e che tuttavia posseggono la capacità di trasformare quegli istanti in qualcosa che ti porterai appresso per molto tempo, forse per sempre, oltre al fatto di eliminare la concezione del domani come un susseguirsi di eventi di routine, conferendogli invece una più sfumata gamma di imprevisti, elucubrazioni e preoccupazioni che, pur rendendolo da un certo punto di vista più eccitante, altrettanto certamente portano la mente a rimpiangere quei giorni tutti uguali, perché in fondo non chiedevi altro,e altro non volevi.
Ti ho immaginato entrare da quella porta che ti eri appena lasciata dietro, valigetta alla mano, i capelli scomposti come li hai fino a metà giornata. Il volto pallido, ma stemperato dal trucco; l’insicurezza nel viso, il nervosismo tra le dita. Ti ho visto avvicinarti e soffiarmi nell’orecchio due sole parole, un’unica croce.
Sono incinta.
Da questo punto in poi ho valutato le più diverse possibilità d’evoluzione d’una storia che, dopotutto, ha una base decisamente banale, quasi seccante. Ma non erano le fondamenta, a interessarmi, quanto la costruzione in sé, con la sua architettura dalle infinite opportunità di sviluppo.
Tra queste ne ho scelto una sola, forse la più probabile, non so. Non ho idea di come andrebbe se tutto ciò dovesse proporsi realmente. Non posso saperlo. Il campo delle elucubrazioni non trova quasi mai riscontro nella realtà dei fatti.
Ho ideato una situazione in cui la mia unica reazione a quelle due parole sarebbe stata la più comoda e la più terribile, ovvero il silenzio. Quando questo genere di notizia è seguito da un mutismo decisamente troppo prolungato, probabilmente è scattato qualcosa, una macchina si è messa in moto per incepparsi subito dopo, producendo una sequenza di immagini che scorrono via come un vecchio film in bianco e nero, davanti a te e solo per te, e sono immagini del tuo passato. Quando finiscono, si passa a quelle del futuro: A colori alta definizione, contrasti accesi come in un film iperrealista.
Quando s’esauriscono, lì nascono le parole.
Non possiamo tenerlo.
E’ semplicemente pazzesco, io non posso crederci, tutto questo è folle, e l’hai saputo quando?
Quando l’hai saputo? Come se cambiasse qualcosa saperlo. Ma potrei chiedertelo: prenderei tempo, temporeggiando per non affrontare ancora in modo diretto la realtà, ma quella è li, davanti a te, e guarda un po’ ha la forma della tua ragazza conosciuta sei mesi prima e che per quanto credevi fosse importante,per quanto unica e bella e capace di farti provare cose mai viste, e mille altri pregi ancora, ma, Cristo, perché ti ha fatto credere di essere uscito da un pozzo, per poi gettarti in un altro, più liscio e profondo?
No non rispondermi, non è importante, importante è capire cosa faremo ora, cosa cazzo faremo ora. Io..io credo che non si possa tenerlo, voglio dire ho 31 anni, a volte il sabato sera mi ubriaco ancora con gli amici, non è una cosa plausibile, non è..
Ecco, come mi sono visto. Spaventato a morte da un bambino tanto piccolo che più che a un uomo somiglia allo schizzo che l’ha portato ad esistere.
Chiameremo l’ospedale, possiamo fare così. Forse si può ancora rimediare, forse possono ancora togliertelo.
Potevo quasi vederlo il tuo volto sfarsi sotto il peso d’una disperazione che non ho avuto cura di evitarti. Potevo quasi sentirti chiedermi perché facevo così, la voce resa tremula dai singhiozzi, mi chiedevi di tenerlo, mi dicevi che si poteva fare, che avevamo un lavoro, che potevamo pensare a costruirci una famiglia.
Ero li a guardarmi mentre uscivo dalla porta lasciandoti seduta in terra con la tua disgrazia, per andare ovunque lontano da te, per pensare a come togliermi fuori da quel casino.
Ero al tuo fianco quando la sera ho visto me stesso rientrare, e dirti che avevo preso l’appuntamento, che era la cosa migliore per me, per te, per tutti quanti. Infine ero te stessa, mentre mi rispondevi che la mia famiglia l’avresti tirata su con o senza di me. Mi son visto implorarti di rinunciare. Infine, dopo ripetuti dinieghi, chiederti di andartene.
Allora via, riprendi tazza vestiti e spazzolino, fai quello che vuoi, ma non coinvolgere me nelle tue follie. Ho ancora troppo da fare per pensare a questo. Se vuoi tenerlo tienilo, ma vattene da questa casa, e porta via tutto: fallo adesso, subito.

Che scena, a immaginarsela. L’ho seguita con interesse mentre prendeva forma nella mia testa, e mentre la mia proiezione distruggeva quanto aveva dato un senso alla vita che mi è propria, mi sorpresi nel constatare che quella era davvero una possibilità, e in quanto tale, quelle parole sarebbero potute un giorno uscire dalla mia bocca. I motivi sono tantissimi, troppo ovvii per pensarci su. Eppure credo che basti un solo termine a racchiuderli tutti in sé, senza privarli di significato e sfumatura alcuna: Codardia.
E bada bene, c’è da discutere sull’accezione negativa universalmente conferita a questo termine. Molti si consumano nel cercare di attenersi alle proprie responsabilità, altri crollano sotto il loro peso. Ne ho visti tanti inciampare così, e rialzarsi ogni volta per proseguire stoicamente, moderni Gesù Cristo impegnati in un’eterna via crucis. Con il risultato che la loro vita risulta sicuramente piena, ma altrettanto infelice. Tra abbondanza e qualità, beh, anche il più infimo degli spot sa dirti cosa scegliere. Credo che un po’ di sano egoismo sia indispensabile per percorrere serenamente il proprio percorso. La coscienza poi sono un altro paio di maniche. E’ frutto del più grande dei condizionamenti cui inevitabilmente la quasi totalità del genere umano viene sottoposto. La coscienza non ci è propria. Per questo chi ha un minimo di intelligenza non la ascolta.
Credo di essere andato troppo oltre, in ogni caso. Questa notte è andata così. Ma va bene, va bene, ogni tanto posso permettermi simili digressioni.
Non so davvero come andrà a finire tra noi due, Elektra, né mi importa azzardare previsioni in merito, l’ho già detto. Se domani dovessi scaricarmi addosso quella croce cui pensavo prima fallo pure: può darsi che decida di tenerla, può darsi che te la rilanci indietro. Nessun vaneggio notturno potrà mai stabilire un percorso obbligato. Sono solo fantasticherie, quelle cui ogni tanto volontariamente mi abbandono, quelle di cui ho bisogno per capire di più me stesso, esplorando il probabile e il neanche lontanamente tale.
Chissà se anche tu, qualche notte, lo fai. Chissà cosa pensi, chissà quali sentieri decidi di percorrere, quali argomenti esplorare, quali certezze discutere.
Ti rifugi anche tu in questa dimensione troppo personale per essere descritta a chiunque non rifletta la tua stessa immagine? Pensi a noi, al bambino, all’inizio e alla fine?
Non mi interessa saperlo, e non oso chiederlo. E’ bene che ognuno di noi abbia qualcosa di segreto, solo per sé, una casa dove rifugiarsi quando più piace, uno specchio cui mettersi davanti e parlare, parlare fino a quando i pensieri perdono coerenza, e il sonno chiede, prepotente, le sue ore. Allora, sconfitto e felice della tua condizione, lasci sfumare via l’universo che ti eri creato, osservandolo mentre si dissolve come nebbia al sole. Forse puoi arrischiarti su quanto farai domani, ma scoprirai ben presto che non hai la forza di farlo. E così è. Buonanotte.

Rendel


-Associazione Salotto Culturale Rosso Venexiano
-Direttore di Frammenti: Paolo Rafficoni
-Supervisione: Manuela Verbasi
-Editing: Rita Foldi
-Racconto di Rendel
-tutti i diritti riservati agli autori, vietato l'utilizzo e la riproduzione di testi e foto se non autorizzati per iscritto

Cerca nel sito

Cerca per...

Sono con noi

Ci sono attualmente 0 utenti e 1323 visitatori collegati.