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Troppoamore - Miresol

<i>Faceva sempre un sogno. Sognava che il suo treno partiva senza di lei. Arrivava in anticipo alla stazione, aveva un abito buono addosso, comprava una rivista poi camminava sotto la pensilina tranquilla. Il treno era lì che l’aspettava, un treno elegante, rosso e grigio. Stava per salire, ma ecco che perdeva tempo, frugava nella borsetta, in cerca del biglietto, ma quando lo trovava, non vi leggeva nessuna destinazione, nessun nome di città, nessuna stazione d’arrivo, solo quella di partenza.

Intanto il treno si allontanava e lei si sbracciava, tentava di urlare con tutte le sue forze per richiamarlo indietro, ma la voce le usciva smorzata, del tutto inefficace, così rimaneva a guardarlo incredula. Il sogno si interrompeva ogni volta allo stesso punto, per il suono della sveglia o per la luce che filtrava dalle persiane; certe notti, invece, era incalzato da immagini confuse che si sovrapponevano fin quasi a cancellarlo.

Al suo risveglio Troppoamore si sentiva disorientata come se davvero fosse stata in stazione e si fosse persa nel dedalo dei binari. E sì che lei odiava i treni, non ne aveva mai potuto sopportare il rumore sferragliante, neppure da piccola, quando l’avevano portata al mare: si ricordava di una striscia color grigio pallido, intravista dal finestrino, sfocata e lontana, ancor più degli occhi di sua madre. Non aveva mai capito perché fossero andate a Sanremo in quella giornata piovosa di novembre, chi si dovesse rincorrere: c’era sempre un uomo nella loro vita da dover inseguire e c’era sempre il viso inespressivo della madre, dopo. Nessuna lacrima, solo le unghie confitte nelle mani chiuse a pugno.

All’anagrafe era Ester ma in paese la chiamavano Troppoamore per via di quell’amore venduto così facilmente; lei, che di affetto ne aveva ricevuto ben poco, portava quel soprannome quasi con indifferenza. Era dotata di scorza ruvida Troppoamore e anche di un corpo possente, quell’appellativo era l’unico scherzo che gli altri potessero concedersi nei suoi confronti. Aveva due occhi castani, lucenti, che diventavano lame d’odio, quando si sentiva raggirata e ravvisava negli altri l’inganno, allora poteva prendersela con chiunque le capitasse a tiro: con gli impiegati di banca che le rubavano i soldi, con il sindaco o l’assessore voltagabbana per le promesse non mantenute, persino con il parroco faccia da morto e manolunga, a sentir lei. E quella sua rabbia sortiva un certo effetto, alla fine riusciva a strappare alla sua magra sorte qualche piccolo vantaggio.
Ormai non esercitava quasi più, per l’intervento di un’assistente sociale era stata assunta dal Comune come aiuto cuoca in una scuola con la richiesta implicita di starsene in cucina, lontano dai bambini e lei rimaneva nel suo angolo in silenzio, ma con lo sguardo vigile, fiammeggiante, pronta a reagire se qualcuno le avesse detto qualcosa. Anche Marco, suo figlio, avrebbe potuto starsene lì con gli altri, se non gliel’avessero mandato, tempo prima, in istituto. Ogni tanto Troppoamore toglieva dalla borsa la sua foto: era proprio un bel ragazzino, con gli occhi scuri, grandi, la linea morbida delle labbra, un ciuffo impertinente di capelli a nascondere la fronte. Tutti i mesi andava a trovarlo e ogni volta lo trovava un po’ più alto, presto sarebbe diventato un uomo.
Il fine settimana, quando non si recava in istituto, Troppoamore prendeva l’auto metallizzata nella quale aveva investito gran parte de suoi risparmi e partiva da sola verso il mare: rimaneva lì a guardare la striscia azzurra all’orizzonte mentre fumava l’ennesima sigaretta.
Una domenica ci avrebbe portato anche Marco, di sicuro gliel’avrebbero permesso, avrebbe fatto la voce grossa, se necessario. Ma doveva essere una giornata luminosa, con il sole scintillante sull’acqua e nel cielo almeno una promessa di azzurro.

(Le righe in corsivo che costituiscono l’incipit appartengono al romanzo "Non ti muovere" di M. Mazzantini.)

Miresol


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-Direttore di Frammenti: Manuela Verbasi
-Supervisione Paolo Rafficoni
-Editing: Alexis, Livia Aversa
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