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Un incipit, tanti racconti - i vincitori

Il sogno più dolce
 

© rinaldoambrosia

 
Lei si sentiva sola al termine di quella giornata, consegnata in quel perimetro di stanza tra i muri e i suoi ricordi. Non era sempre andata così, quando lui era lì - quando lui c'era ancora - erano giorni sereni, con momenti di chiassosa allegria e complicità. Il turnare delle stagioni era come cambiare quadri alle finestre e giocare con il cielo. La notte poi, elargiva il suo scorrere del tempo con parsimonia e sembrava non finire mai. Sempre stando al buio, trascinando una sedia vicino alla finestra, la donna osservava, nella via, lo scorrere frettoloso delle persone. Mondi diversi che si sfioravano. Quante vite in quei passi sulla strada. Le luci creavano curiose pozze gialle che si riflettevano sul selciato. Sembravano disegni dai contorni sfumati. Accese una sigaretta, il fumo saliva lento come i suoi pensieri, nel silenzio della camera. Era stata una lotta dura, e la vittoria, se vittoria poteva dirsi, era stata anche per merito suo. Di quell'uomo che ora gli mancava, al pensiero, due lacrime le scesero sul viso e improvvisamente scoppiò in un pianto dirotto. Lui sembrava essere lì presente nella stanza vicino a lei. Sentiva le sue labbra scivolarle sul collo, e le sue mani, con tocco lieve, spingere verso il basso la cerniera del suo vestito, sentiva il suo profumo fondersi con l'odore della pelle. Aveva chiuso gli occhi per rendere più intensa la sensazione. La finestra era scomparsa, azzerata dai suoi occhi chiusi. Subito erano partite le immagini di quel sogno, proiettate tra la mente e i suoi occhi chiusi. Non era un ricordo. C'era quel quell'incubo che la inseguiva fin da ragazza. Poteva essere un sogno, uno di quelli che ti porti dietro, come un collare, da sempre e di sicuro materiale certa per un analista. Correva... tra i sotterranei di quel castello, labirinti di pietra, inseguita da armigeri. Sentiva il vociare alle sue spalle, i rumori di ferraglia delle loro armature, le armi che cozzavano contro le pareti, che risuonavano, come i loro passi, in quel budello. A tratti, dal basso soffitto, emergevano radici d'alberi che scavavano in profondità in cerca di nutrimento. E poi quelle torce, quei bracieri con le griglie di ferro appese alle pareti, fiamme che ondeggiavano creando ombre e bagliori cupi. Le mancava il respiro in quella angosciante corsa... correva, correva... La galleria si stringeva sempre più, ora non c'erano più deviazioni, e lei si era ritrovata al fondo all'interno di una cripta. Sentiva che gli armigeri erano giunti all'imbocco, ne sentiva il loro vociare esultante. La preda era in trappola. Lentamente, e man mano che facevano rotolare un masso per chiudere l'apertura della cripta, la luce scompariva. Si era ritrovata sola, al buio, al freddo e sepolta viva. Le prime volte che aveva raccontato a lui quel sogno era stato dopo che sua madre era morta. Aveva parlato lentamente, con il pensiero che rincorreva il passato, sfogliando il loro rapporto. La sua vita risentiva di tutta la pesantezza della loro storia. Era stata dura sua madre. Una donna che si era chiusa dalle avversità del mondo inalberando una corazza per difesa. Una durezza sfaccettata che si accendeva in mille sfumature, con i suoi divieti e le sue esplosioni d'ira. Lei era una bambina solare e si sentiva sempre più allontanata da ciò che anelava come nutrimento: l'affetto. Era la sua voce di bambina che risuonava nel buio di quel sogno, chiusa in quella cripta. - Mamma... mamma. Si risvegliava da quell'incubo con il viso pesto. Gli occhi arrossati. In bagno, mentre si asciugava, guardava allo specchio quel viso, le pareva il viso di una estranea. Lui era entrato nella sua vita lenendo queste sue angosce, temperando le sue ansie. Forse quegli armigeri erano gli uomini che ronzavano attorno a sua madre... Le aveva suggerito di continuare il sogno, immaginando nel buio della cripta un pulsante luminoso di un ascensore. Lei che schiacciava quel pulsante, le porte che si aprivano e la portavano all'interno di un centro commerciale, luminoso e gremito di folla. Dalle vetrate si vedeva un sole caldo e abbagliante. Era salva. Sorrideva, mentre le proponeva quella variante di sogno, e in quello sguardo lei si abbandonava fiduciosa, contagiata dallo stesso riso e si ritrovavano a ridere insieme come due adolescenti. Poi il tempo aveva portato via lui, cancellato da un destino feroce a bordo della sua vettura, in un incidente autostradale. E i giorni erano diventati cupi, anche il sole era spento. Con un sospiro riaprì gli occhi, mentre fuori la notte avanzava lentamente. Accese il piccolo abat-jour sul tavolino, aprì il libro appoggiato di fianco, e iniziò a leggere: "Una sera d'autunno, presto: la strada sottostante era uno scenario di piccole luci gialle che trasmettevano un senso di intimità, e la gente era già infagottata per l'inverno. Alle sue spalle un buio gelido stava invadendo la stanza..."
 
 

© mariateresamorry

 
la sagoma nera e lucida del pianoforte era compatta al centro , le sottili zampe appoggiate alle rotelle, con i fermi bloccati. Sotto allo strumento a mezza coda, si stendeva la macchia rossa di un tappeto di lana. Occorreva accendere il lume, la bella lampada in opaline che stava vicino alla finestra; solo così si poteva respingere la penombra. Ma non era ancora il momento per Gustav. Si affacciò alla finestra per guardare la strada. Ah sì, c'era il solito via vai delle cinque della sera...ecco al fondo della piazza il brillio delle vetrine della pasticceria Mayer... Curioso come da casa sua Gustav potesse intuire persino le fogge dei cappelli piumati. Le signore e le signorine della città si intrattenevano tra tazzine di cioccolato e sachertarte. Certo parlavano di cose frivole, lui lo sapeva. Anzi: diciamo che quelle chiacchiere lui le detestava proprio...tuttavia come avrebbe desiderato essere là! magari anche solo per starsene zitto ad ascoltare, mentre avvertiva il colletto duro ed inamidato della camicia irritarlo alla gola. Invece no. Gustav doveva pensare al pianoforte che lo attendeva, con la curva nera, sinuosa della sua forma. Un oggetto ingombrante su rotelle. Null'altro... Gustav si distaccò dalla finestra, arretrando di un passo. Bastò perchè la piazza sottostante gli sembrasse confusa e la pasticceria Mayer quasi spenta. " Luce ! Luce per Dio! .." esclamò ad alta voce a se stesso. Ed immediatamente volle alzare la fiamma della lampada, la quale, pulsando dal beccuccio, sembrò una piccola anima palpabile.La stanza ora s'era fatta più chiara, il pianoforte appariva quasi un grosso animale mansueto, in attesa di un ordine. Gustav si sedette sulla piccola panca davanti alla tastiera. I tasti d'avorio ingialliti come denti di un vecchio fumatore di pipa. I tasti neri davano un senso di ordine scandito. Gustav si guardò le mani, e mosse con attenzione le dita, uno alla volta. Le tendeva , le richiudeva, le rilassava. S'accorse che il mignolo rispondeva poco e restava rigido. Lo spartito era sul leggio. Gustav con i piedi, chiusi in leggeri stivaletti, provò i pedali. " Devo iniziare, assolutamente", si disse serrando gli occhi per un attimo. Sapeva di non dover leggere la musica, s'era preparato bene in quei giorni, esercizi continui e ripetuti. Non doveva guardare lo spartito, le note scritte erano solo mosche fastidiose , per lui. " Forse è meglio se abbasso la luce" - si disse, convinto che ciò gli avrebbe dato ispirazione. E si rialzò infatti, andò alla lampada di opaline e la rese fioca. La stanza adesso era quasi del tutto al buio, salvo che per la pioggia di riflessi che veniva dal lampione infisso alla facciata del palazzo accanto. Gustav si risedette; la tastiera la intuiva appena. Appoggiò l'indice sul tasto del fa diesis. La nota s'alzò dolce, piena; la corda vibrò nel ventre del pianoforte e Gustav s'accorse finalmente dell' odore di legno e meccanismi che la cassa emanava. " Lo so che sei pronto, amico mio", disse Gustav al pianoforte. " Lo sono anch' io...". E raccoltosi in un respiro che pareva uscirgli non dai polmoni , ma dal suo più profondo essere, Gustav attaccò l' allegro assai de l' Appassionata. Fu una fatalità, un ordine divino - non so - ma la lampada di opaline si spense del tutto e Gustav continuò imperterrito, sfiorato appena dalla luce del lampione, mentre alla pasticceria Mayer le signorine si passavano di mano in mano il cartoncino di invito al suo primo concerto.....
 

© Pinotota

 
Il vecchio filosofo, nel suo abbaino all'ultimo piano, era ancora seduto sulla sua vecchia poltrona di velluto. Lui passa le ore così, giocando con i pensieri e li sfida a carte che tanto sa di vincere, poi quando è stanco di giocare rincorre immensità profumate dall'immobilità frenetica della sua poltrona. Accarezza cerchi e la sinuosità antica dal sapore di mandorle della vecchia amica che vive con lui, in un amore lontano dai sensi, a destra dell'anima, dove c'è l'affetto. Dalla sua finestra vede solo il cielo e i suoi cieli con rondini sonnolente che tratteggiano linee calme e rassegnate. E allora ogni tanto esce per vedere se il mondo è cambiato dal suo ultimo pensiero.
 
 
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Progettazione grafica e web editing: Anna De Vivo

 

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