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Un'altra storia - Miresol

Non sono una leonessa, non lo sono mai stata.
- Acqua cheta - mi chiamavano per il mio silenzio, ma non logoravo ponti, non consumavo rocce, erano onde che scavavano e incidevano lontananze solamente in me.
Mi ero abituata a tacere fin da piccola, osservando le labbra di mia madre, quando diventavano una linea dritta, avara, intesa a combattere un dolore o solo la fatica quotidiana dell’esistere. In quei momenti avevo imparato a sparire, dietro quel muretto, vicino a casa. Allora era ancora il tempo dei prati ed erano tutti miei da bambina. Mi nascondevo nel mio solito angolo e in silenzio scavavo. Mi piaceva affondare le mani nella terra, sentirne il calore, raccogliere i sassi. In quei momenti mi sentivo ricca e ogni volta disperdevo i miei tesori, tanto sapevo che li avrei ritrovati il giorno successivo. Ma più di tutto mi piaceva guardare le formiche trascinare, in fila, piccole briciole, mi divertivo a sentirle camminare sul palmo o tra le dita. Sottoterra - lo sapevo - c’era una grande città e le formiche, le laboriose formiche che la mia maestra non smetteva un attimo di glorificare per la loro industriosità, di certo non erano mai sole.
Le ripensavo a scuola, quando tentavo, faticosamente, di leggere. Le lettere che formavano parole erano come piccole formiche immobili. Ma il foglio bianco non si faceva scavare, non si lasciava conoscere. Rimaneva estraneo e freddo come una lastra di ghiaccio a farmi paura, a paralizzarmi la lingua. Erano formiche gelate da un inverno precoce, avrei voluto farle tornare alla terra, riportarle in vita, ma inutilmente. Compitavo i singoli suoni ma non riuscivo a decifrare
una parola, ad intuire un senso.

- La bambina è svogliata
- Forse un po’ ritardata
- Ma no, solo distratta – commentava mio padre, quando si ricordava, fra un’avventura e l’altra, di avere una moglie, di aver contribuito a mettere al mondo una figlia.

Poi ripartiva e in quei giorni il silenzio si faceva ancora più grande. Allora le formiche si radunavano tutte dentro la mia testa, si muovevano sotterranee, oscuravano pensieri, arrivavano agli occhi, fino a non farmi vedere, d’improvviso nemiche. Allora correvo e urlavo, urlavo, e ancora una volta urlavo, rompendo il silenzio per non avvertire quell’onda densa, scura invadere tutta la mente.
A volte, invece, riuscivo a calmarmi sussurrando storie: rimettevo in fila le formiche dentro la mia testa, le incantavo con le mie favole, le cullavo come in una ninnananna. Erano le storie che mi raccontava Piero in estate, quando andavo in vacanza in montagna, nella casa che era stata dei nonni. Piero parlava in uno strano miscuglio di bergamasco e italiano, ma noi bambini, raccolti in crocchio attorno a lui, lo capivamo perfettamente, per il movimento delle mani, il tono della voce, l’espressione arguta del viso. E quelle parole in me si trasformavano, ne generavano altre, avevano il potere di rassicurarmi, anche quando ero sola.
Ho imparato a leggere tardi, svogliatamente; le storie racchiuse in una pagina non mi parlavano, mi lasciavano al freddo, ostili ed estranee. E’ stato lungo il cammino per farmi amiche le parole scritte, per capire che erano il prolungamento di una voce, che potevano conservarne il calore.
Fa sempre un certo effetto vedere quello che nel tempo cambia, ciò che invece rimane uguale: le mie mani hanno mantenuto l’amore per la terra, hanno continuato a scavare.
Passo ore nel mio laboratorio a modellare vasi, a dar vita a piccole sculture. Plasmare l’argilla mi rasserena, mi dà pace; in me respira ancora quella bambina, china dietro un muretto.
La rivedo nel visetto affilato di mia figlia: stessa frangetta, stessi occhi scuri, solo più ostinati; anche lei raccoglie sassi, s’imbratta le mani di terra, ama il contatto con la creta, le piace dar forma alle cose. Ma ha voce più squillante e allegra, affronta l’esistenza con piglio da piccola leonessa e quando mi vede assorta, irrompe nei miei pensieri, con prepotenza, senza timidezza, proprio come suo padre.
Per lei sto imparando a sciogliere il mio silenzio; a volte ho paura di farmi sorprendere con la stessa piega amara di mia madre sulle labbra, di poterla ferire, ma Laura è diversa da me, sa mettere in fila senza soggezione piccole formiche nere su un foglio bianco, non si nasconde dietro un muretto e di certo è in grado di farsi sentire. La sua è un’altra storia.

Miresol


Associazione Salotto Culturale Rosso Venexiano
-Direttore di Frammenti: Manuela Verbasi
-Supervisione Paolo Rafficoni
-Editing: Alexis, Livia Aversa
-Immagini tratte dal Web
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