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Zvetnaja - Taglioavvenuto

Terzo episodio

Per chi giustamente non li avesse letti.
Sunto dei due episodi precedenti:
Dalieko, della tribù dei Sami, è un pastore di renne della penisola di Kola;
il suo branco è stato decimato da una misteriosa malattia. Gli altri pastori lo hanno abbandonato;
una notte si sveglia e si alza avendo avuto una visione: che quella notte accadrà qualcosa di miracoloso;
raggiunge a fatica, cercando di non farsi sperdere dal vento, Vita: la sua capobranco.

Già, parlarle, perché Dalieko ( Lontano nella lingua degli altri ) non sapeva cosa volesse dire scrivere.
Nessuno glielo aveva insegnato: fra i Sami, la cosa si riteneva non avesse alcuna importanza.
Che anzi, per così dire, fosse deleteria per l'anima degli uomini.
Come si può mai pensare di cristallizzare qualcosa: un pensiero, un sentimento, un discorso, lo sguardo di una donna, il riso di un bimbo, il lento fluire dei fiumi, il loro parlare coi sassi, dello sciogliersi della madre neve, dell'alito del vento padre a stormire i fili d'erba, dell'impeto che viene dal Nord più profondo scompaginando e piegando le foreste nude, dei loro rami tesi all'insù come ad una disperata, ultima preghiera di rinverdirsi, del sospiro di un uomo che si volta e rivolta sul letto odoroso di erica e pensa che a trenta quaranta centimetri appena da lui dorme la morbidezza disposta, setosa della sua femmina, che pur assonnata lo accoglierà aprendogli il seno e le cosce, e le labbra che sanno di notte, e si farà avvolgere la lingua insaporita già del suo ventre, che mai si rifiuterà al desiderio improvviso, che lo farà scivolare, oleosa come il burro, dentro di sé.
Donandogli la pace necessaria ai pensieri.
Che gemerà con lui attendendolo, o facendosi attendere, sotto la lanterna di grasso di renna, fioca ormai.
Che gli cercherà il naso col naso, nel notturno, immerso silenzio ammantato di coltri candide come le nuvole della stagione secca, in un trattenuto sussulto, rispettoso del sonno dell'altra moglie e dei figli.
I Sami, nella loro infinita saggezza, lo sapevano da sempre.
Sapevano che loro, gli " uomini", un istante prima sono felici, che ad un minuto appena, possono divenire tristi.
Che un figlio, o una moglie, o una renna, o tutto il branco, i pascoli, oggi ci sono, domani no.
Lo sapevano per fatti, e non per astrazioni; lo sapevano sulla propria pelle.
Nessuno, ma proprio nessuno, avrebbe mai imposto loro di scarabocchiare queste cose, di disegnare queste immagini su di una corteccia, su di un masso lì da sempre, sull'interno di una pelle.
Di fermarle.
Come se le cose fossero immutabili, calcificate nel tempo: come se non corressero a perdifiato nel cielo, nell'orizzonte piatto ed infinito, in ciò che li circondava, che non apparteneva ad alcuno, come la terra nera che si scorgeva a tratti, quando il bianco immacolato, a volte traformato in grigie e rilucenti lastre di infido ghiaccio, voleva lasciarli.
Come se già gli " uomini " non cambiassero di per se.
Come volendo fuggire dalla realtà, e solo stamparsene un frammento infinitesimo. Un nulla, rispetto al tutto.
Dalieko accarezzò la testa della bestia, di Vita; così chiamava la sua capobranco.
Fin da quando era venuta al mondo.
Si intendevano, si erano sempre intesi.
E cominciò a raccontarle cosa lo angustiasse.
Le chiese, per primo, " da dove viene la malattia ?".
E stava per proseguire in questi suoi solitari ragionamenti quando, ella, inaspettatamente, gli rispose, " da lontano !".
Da me ? Domandò allora il giovane pastore.
No, non da te, da lontano, "lontano". Dove tu non sei mai stato !
Non ti capisco.
Non importa.
Importa, invece.
Non so dove sia precisamente, non è un luogo dove sia mai stata. Forse essa viene da oltre quelle creste azzurrine in lontananza, quelle montagne ad Est che puoi vedere solo quando noi non siamo più qui, quando abbiamo già attraversato tutti e tutti i boschi di betulle, e quelli degli abeti, e le radure si aprono improvvise ai nostri occhi, e l'erba nasce continuamente dalla terra, nasce e rinasce come se la terra, sotto, non avesse altro da buttar fuori.
Dici ? E perché dici questo ?
Perché quello è un luogo di morte.
Ti riferisci a tuo padre, e a tua madre ?
A loro e non solo a loro. Ad essere sincera, mi riferisco a tutte noi.
Dalieko le passò il guanto destro sugli occhi. Perché Vita non vedesse, non sentisse l'incombere sul capo di quelle azzurre ondulazioni di morte.
Non voglio intristirti. Lo so di cosa parli. Io non ci sono mai stato, ma c'è stato mio padre, e il mio fratello maggiore. E ci hanno portato le orbite vuote di tua madre e tuo padre, lo so. Ho ascoltato i racconti degli anziani: racconti che mi hanno fatto rabbrividire anche se, essendo il più piccolo di loro, sedevo vicino al fuoco assieme ai vecchi.
Li ho sentiti anch'io, quei discorsi. Me li ha portati, una sera, il vento, ed anch'io ho rabbrividito.
Li hanno sentiti anche le altre ?
Questo non lo so. Ma il vento era così radente, quella notte, così impetuoso e gelido, che forse avevano già le orecchie nascoste, infossate nelle pance tiepide delle sorelle e delle madri.
Tienitelo per te.
Lo farò.
I maschi più grossi, quelli con le corna più alte e belle, più ramose, sono quasi tutti scomparsi; giacciono riversi con i ventri molli di neve e di vermi, e d'aria che sta per esplodere, a chilometri da qui. Non li riconoscerebbe più nemmeno la loro madre. Come fai ?
E' dura, per una femmina come me !
Cara notte, Vita. Cerca di dormire !
Anche tu, padrone Dalieko.
Tornerò domani notte, e parleremo ancora.
Si lasciarono così. Mentre la notte non voleva scostarsi dal giorno, e continuava a confondersi con questo ed a smarrirsi, ventiquattr'ore su ventiquattro, in un "continuum" che perdurava uguale da più di un mese.

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-Direttore di Frammenti: Manuela Verbasi
-Supervisione Paolo Rafficoni
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