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"A" è anche "non-A" - Dogen e Aldo Tollini

"A" è anche "non-A". LA A/LOGICA DI DOGEN E DELL'ANTICO PENSIERO ORIENTALE (Negazione dell'esistenza per negare la non esistenza)
 
<< Quando tutti i dharma (le cose, la realtà) sono (sono definite in base a) il Buddha-Dharma, allora esistono "illusione/risveglio", la pratica, la nascita, la morte, tutti i Buddha e le persone comuni. Quando la moltitudine dei fenomeni non sono basati sull'io, allora non esiste l'illusione nè il risveglio, non esistono i Buddha nè le persone comuni, non esistono la nascita nè l'estinzione. >>
 
(Dogen, "Genjo koan", "Shobogenzo")
 
<< Due frasi contrastanti: la prima, affermativa, significa che quando la realtà viene vista come insegnato dalla dottrina del Buddha, cioè dal punto di vista umano, allora esistono le cose del mondo del dualismo. Ma la seconda, negativa, dice che quando la visione non è basata sull’io, e quindi è obiettiva, non esiste più nulla, e non rimane altro che negare.
Nella realtà, “illuminazione”, “Buddha”, nascita” “estinzione”, ecc. non sono altro che parole che cercano di etichettare dei fenomeni, che però, come tali, non hanno alcuna esistenza. Quindi, non resta che negare...
In definitiva, l’illuminazione non è altro che la visione della realtà oltre l’illusione creata dal nostro proprio io, e questo è quanto Dōgen vuole portarci a comprendere. Infatti in “Bendōwa” (Discorso sullo studio della Via) dice che non si devono costruire «idee del tipo che i Buddha esistano oppure non esistano.» Affermare che i Buddha esistono, così come negare la loro esistenza significa dare sostanza a un fenomeno, che, come tutti i fenomeni, non hanno sostanzialità, secondo il principio fondamentale della dottrina buddhista. Negazione dell’affermazione, e d’altra parte negazione della negazione non lasciano scampo: non solo non esiste la cosa in sè, ma non esiste neppure il suo non essere. Negare l’esistenza conduce a sostenere la sua non esistenza, e la negazione della sua non esistenza conduce a smantellare la concezione della sua non esistenza. Nel capitolo “Gyōbutsu igi” vi sono le espressioni: “assenza di Buddha” (無仏), “assenza di Via” (無道), “assenza di mente” (無心), “assenza di estinzione” (無滅), e anche “assenza di non-nascita” (無々生), “assenza del mondo del Dharma” (無法界), “assenza della natura del Dharma” (無法性), “assenza di morte” (無死)”, e anche “assenza di non-nascita” (無無生). Tuttavia, il massimo della strategia negativa si trova in “Busshō” (Natura-di-Buddha) in cui troviamo: «Come può l'“essere di tutti gli esseri” non ricevere il Dharma dal “non-essere del non-non-essere” (無々の無)?».
L’assenza dell’assenza non è naturalmente presenza, ma assenza del non-essere. Le sequenze negative sono una strategia per negare la presenza dell’io sostanziale nel modo più radicale possibile: anche sotto forma di assenza. La parola MU 無 non è semplicemente la negazione “no” o “non”, ma indica assenza o mancanza, e va reso con “non c’è”. Questa è una differenza sostanziale poiché dire, mushō 無生 è “non c’è nascita”, e mumushō 無無生 è “non c’è la mancanza di nascita”, per indicare, non che esiste la non-nascita, ma che la nascita non c’è, e che anche il suo contrario, la mancanza o assenza di nascita non c’è.
Certamente, siamo molto lontani dal principio di non-contraddizione della logica classica aristotelica che afferma la falsità di ogni proposizione implicante che una certa proposizione A e la sua negazione, cioè la proposizione non-A, siano entrambe vere allo stesso tempo e nello stesso modo. Per Dōgen, invece, la rottura di questo principio, asserisce che una proposizione del tipo: "A è anche non-A" non solo non è falsa, ma è, anzi, espressione della verità vera! Nel Buddhismo classico il concetto di anattā (in Pāli) o anātman (in sancrito) descrive il “non io” o “non sè”, cioè l’illusorietà della presenza di un io/sè concreto, stabile e sostanziale nei fenomeni. Tuttavia, esiste il rischio che “non-io” o “non sè”, oltre che come negazioni, possano essere prese per affermazioni negative, cioè esistenza di una negatività. E questo stravolgerebbe il senso della dotrina buddhista. Si consideri che per attenersi alla logica del principio di non-contraddizione è necessario che “A” abbia una esistenza concreta e ben definibile, tale che lo distingua da tutti gli altri esseri. Nel Buddhismo, invece, i fenomeni sono aggregazioni di cinque elementi, detti skandha3, privi di io sostanziale. Quindi il principio di non contraddizione perde ogni senso. Questo conduce a sostenere umu no mu 有 無 の 無 (“Busshō”), “l’assenza contemporaneamente di esserci e non esserci”: “c’è” e “non c’è” sono contemporaneamente negati.
Per esempio in “Busshō” si dice: «Il tempo della vita è natura-di-buddha, è non natura-di-buddha. Il tempo della morte è natura-di-buddha, è non natura-di-buddha.»4
L’illuminazione esiste e allo stesso tempo non esiste: se non esistesse come potrebbe essere cercata? E se esistesse potrebbe essere in qualche modo definita, ma pur potendo cercarla una volta trovata non esiste. Quindi, il praticante cerca e (forse) trova quello che non c’è, o forse trova qualcos’altro rispetto a quello che inizialmente cercava, perché quello che cercava, comunque, non c’è. Quindi l’illuminazione, cioè l’assoluto, viene negato sia nella sua esistenza, sia nella sua assenza: come oggetto definito non esiste, ma d’altra parte è anche sbagliato sostenere che non esiste, poiché, esiste, ma non è definibile come “esistenza”.
La dottrina buddhista pone nella visione dualista della realtà la radice dell’errore: definire i fenomeni in buoni e malvagi, vantaggiosi e svantaggiosi, positivi e negativi, essere e non-essere è il regno dell’illusione poiché è una dicotomia che nasce dall’egoismo dell’individuo, quindi da una visione illusoria. Dōgen non si stanca mai di ripetere che la reatà, e quindi l’illuminazione, non sono riconducibili a una logica dualista, che è eccessivamente semplificatoria e mistificante. Così nel Sūtra del Diamante si dice: «Un bodhisattva, un grande essere, non deve propendere per l’esistenza né per la non esistenza delle cose.» (Marassi, 2011, p. 105)
Qualunque cosa possa essere identificata con il termine “assoluto”, trascende la dimensione della lingua, della descrizione. È al di là di affermazione e negazione: li travalica. Definire in modo positivo o negativo significa restringere l’ambito dell’assoluto e quindi, è di per sé un’azione in contrasto con l’assoluto indelimitabile.
Molte tradizioni religiose e filosofiche a orientamento mistico, si astengono dal dualismo affermazione e negazione. Così, per esempio in Occidente troviamo la “Via Negativa” nel Cristianesimo che ponendo a fondamento l’ineffabilità di Dio, sostiene una teologia apofatica. Anche nella tradizione religiosa indiana dei Veda si trova l’approccio negativo alla realtà con il neti neti che in sanscrito significa “né questo, né quello”. Ciò che rimane dopo ogni negazione è l’essenza inesprimibile. O, infine la tradizione cinese che nel più famoso testo daoista recita: «Il Dao di cui si può parlare, non è l’eterno Dao» e «I nomi che possono essere detti, non sono gli eterni nomi.»
Lo Zen stesso si autodefinisce una scuola furyūmonji 不立文字, cioè “indipendente dai testi scritti” che attua una trasmissione dell’insegnamento direttamente da maestro a discepolo in “una speciale trasmissione al di fuori delle scritture” kyōge betsuden 教外別伝, direttamente “da mente a mente” ishin denshin 以心伝心, poiché la lingua è inaffidabile siccome non esce dai limiti della convenzionalità e non ha la capacità di descrivere in modo adeguato la realtà assoluta ineffabile e non convenzionale. >>
 
(Aldo Tollini)
 
(da http://www.zenfirenze.it/…/il-pensiero-di-dogen-al-di-la-di…, 7-8-2016, h 9:05)

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