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Un fiotto di luce ha svegliato la stanza

 
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Un fiotto di luce ha svegliato la stanza, dietro le tende bianche. Prima del solito.
E pure me.
Subito scoppiato nello stomaco e in testa quel vuoto. Come un dente levato. E senti il buco. Come faccio. Come faccio. Gira in testa come una mosca nera, nera. Ronza. L’assenza.
Poi ripenso a ieri. Porca miseria. Che giornata. Pure il piantarello.
Ti amo ancora di più, avevi detto, e mi abbracciavi stretta, ti bagnavi la faccia
Con tutte quelle lacrime. Rivestiti dai. Non fa niente.  Dai. Eri tenero, povero.
Ma che cavolo di storia. Che cavolo di storia. Non serve.
E io penso a Diego. Ancora. Sempre. Accidenti.
 
Proprio strani questi intrecci.
Sembra quel gioco che facevo da piccola, dalle suore, in giardino. In cerchio.
Ognuna dava la mano all’altra, tutte femmine, coi fiocchi al colletto del grembiule. E le scarpette candide pulite col bianchetto.
Ognuna dava la mano e procedeva e prendeva l’altra, di un’altra ragazzina. Nel giardino sotto le querce. Alte, alte. Sotto quei cieli lontani e pieni di promesse. Si credeva. Anzi no. Non ci si pensava proprio. Bastava il gioco. E che non piovesse.
Che poi era pure carino da vedere. Il gioco, dico. Ogni mano da legare ad un’altra, per continuare il giro. Intrecciate. Danzanti come piccole foglie nel vento.
 
Siamo tutti intrecciati. Questo. Si cerca d’andare avanti, attaccati uno all’altro. È un cerchio. Se si spezza, ti fermi. Almeno per un po’.
Ogni tanto trovi una mano che stringe di più. Un attimo. Poi ti lascia. Il giro continua.
Ma come devo fare con te? Dici sempre. Parli, parli, stai vicino, telefoni, messaggi… fai compagnia. Fai le coccole. E io.
 
Certo, sempre piaciute le coccole. Fatto a meno di quelle di mo padre.
È per quello, dice la psicologa.
Che mi ricordo pure l’unica volta che m’ha preso in braccio, mio padre, mica la psicologa…
Due, forse tre anni. Forse. Ero piccola.
Un sole, a piazza S.Pietro, che c’era il papa che benediceva e poi ho pure vomitato.
Dice che erano state le pesche. E il caldo.
Guarda come mi ricordo. Più di cinquant’anni!
 
Cerchi ancora la sua approvazione. Sono tutti padri. È per quello.…ridice la psicologa.
Quelle poche volte che parla. Che non parlano mai, loro. Però ti fanno capire.
Qualche calcetto di mosca… e capisci.
Ti devi approvare da sola. Devi sapere da sola se vali o no.
Sì, sì, lo so.
Le so queste cose.
Tutti quei cavolo di libri “fai da te” (il manuale dell’autoanalisi)
 
Mah…mi stiro nel letto. Come si sta bene. È tiepido. Il lenzuolo profuma ancora del profumo di ieri.
Ma quanto cavolo me ne sono messo. Poi perché? Ci provo a farmela andare, quella storia. Ci provo, ma.
 
Ma, ma, ma… troppi ma, oggi.
Poi le coccole piacciono a tutti, no?
Sì, ma un conto è piacere, un conto essere indispensabili. Come una dose di morfina. Uffa. Ho detto solo che fanno piacere.
Basta. Basta stare a letto. Che rimugino. C’è un sole! Tra un po’ è primavera.
Almeno fuori, tra un po’ è primavera. Devo provarci. Farmela entrare nel cuore. Oggi, niente lavoro. Disinfestazione. Belli topolini miei!
Vi amo! Oggi.
 
Devo dare una pulita a casa, prima di uscire. Anzi no. Dopo. Se stavo a scuola mica pulivo.
Mi sistemo e esco.
Messaggio al cellulare. Una coltellata. Un tuffo. Uno schianto. Presto. Presto, presto!
 
Buon giornooooo!
 
Mai che fosse Diego. Mai.
Al diavolo.
(by poetella)

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