Il mio amico Giuli | Prosa e racconti | Gino Ragusa Di Romano | Rosso Venexiano -Sito e blog per scrivere e pubblicare online poesie, racconti / condividere foto e grafica

Login/Registrati

Commenti

Sostieni il sito

iscrizioni
 
 

Nuovi Autori

  • Gloria Fiorani
  • Antonio Spagnuolo
  • Gianluca Ceccato
  • Mariagrazia
  • Domenico Puleo

Il mio amico Giuli

copertina lacrime e sorrisi.jpg
Giuli era nato in un paesino dell’entroterra della Sicilia, in una famiglia di buona educazione civile e religiosa, ma, soprattutto, umana.
L’economia della famiglia non era florida, ma la povertà era vissuta dalla famiglia medesima con molta dignità. Giuli aveva studiato e del contenuto dei libri e dell’educazione familiare ne fece i precetti della sua vita. Niente passava a lui inosservato, ma tutto con interesse veniva dallo stesso analizzato e poi elaborato, onde trovare qualcosa che desse qualche frutto, qualche idea per migliorare sé stesso o la collettività.
Giuli fu sempre educato al bene, al rispetto del prossimo, a pensare al sacrificio dell’Uomo in croce, a guadagnarsi il pane quotidiano con mezzi leciti, a guardare la luna e non il dito che la indica, a parlare sottovoce, a lasciare spazio agli altri per potere esprimere il loro pensiero e poi trovare insieme il punto di convergenza migliore per risolvere i problemi della vita sociale.
Tutto ciò che era in antitesi con quanto sopra scritto era sempre motivo di costruttiva disquisizione con l’interlocutore, il quale, avendo capito che nessun interesse personale vi era nelle parole e nei fatti di Giuli, magari dopo molte obiezioni si convinceva, dandone il consenso. Ma quel consenso era troppo effimero, durava poco e fino a quando l’altro, cioè l’interlocutore in questione, non incontrava altra persona, che nel suo dissertare taceva sulla parola sacrificio, che, purtroppo, inonda la vita dell’uomo dalla nascita al morire. Il sacrificio, se sentito e posto in essere in tutte le relazioni della vita umana, è il teorema che dimostra efficacemente che la pace sta ai popoli come il sacrificio sta ad ogni uomo.
Giuli, infatti, intendeva il sacrificio come il presupposto necessario per raggiungere lo scopo in tutte le sue forme e situazioni poliedriche della vita umana. Giuli perché intendeva in tal modo il vivere dell’uomo per poter ritrovare la pace? Perché la sua esperienza di vita familiare, improntata su quanto sopra descritto in merito alla sua educazione al sacrificio ed a sapersi accontentare fece sortire una buona qualità di rapporti col prossimo.
Giuli aveva ventiquattro anni, così pensò di conoscere una giovane donna, disposta al matrimonio. Così avvenne, ma la descrizione per adesso la tralascio per ricordare una parte delle vicissitudini del mio amico Giuli dall’infanzia alla vecchiaia.
Il padre di Giuli, Francesco, era un impiegato d’ordine in una agenzia telegrafica, gestita dalla sorella, dipendente dalla direzione provinciale delle poste e telecomunicazioni. La quinta elementare, di cui era in possesso Francesco, allora era sufficiente per svolgere le mansioni, che gli erano state assegnate in relazione alla sua qualifica; infatti, in quel tempo, la quinta elementare poteva paragonarsi ad una licenza media di qualche decina di anni fa conseguita bene e non come le lauree o diplomi o altra carta straccia, che hanno valore legale e che si conseguono da molti anni con espedienti che tutti conosciamo o alzandosi la gonna e scendendo le mutande o pagando o per raccomandazione, insomma prostituendosi in un modo o in un altro ai politicanti, ecclesiastici, professori ed ad altri delinquenti di turno.
Francesco, ripeto, era un buon impiegato, rispettoso dell’orario di lavoro, cortese nei confronti degli utenti, preciso nel gestire la lira e i centesimi, che riceveva per la trasmissione dei telegrammi e che poi venivano spediti mensilmente alla Direzione provinciale; Francesco era una persona rispettata da tutti per il suo ottimo comportamento. Per molti anni svolse il suo lavoro e ne percepì gli onesti emolumenti mensili, che la sorella, capo dell’agenzia telegrafica, gli erogava.
Un giorno pervenne all’agenzia una circolare da parte della Direzione provinciale delle Poste che invitava Francesco a presentare entro un certo tempo il titolo di studio di licenza media per poter passare nel ruolo degli impiegati delle Poste e telegrafi, poiché anche i telegrafi non dovevano più essere agenzie, gestite da privati e che, ove di tale titolo, Francesco, non fosse stato in possesso allo scadere della data descritta nella circolare, lo stesso sarebbe stato licenziato.
Il brav’uomo ebbe questa notizia dalla sorella e, non essendo in possesso di quella carta straccia, cadde a terra, come dice Dante: “Come corpo morto cade”. Fu rianimato e poi alle 12,30 ritornò a casa, come un cane bastonato; i suoi conoscenti che, salutandolo ogni giorno al suo passaggio in quella strada piena di botteghe artigiane, ricevevano con sorriso gioviale la risposta al loro saluto, si accorsero che quell’uomo in quel momento era spento e tra di loro, guardandosi con stupore, dicevano: “ Oj don Franciscu nun ie cchiù iddu”.
Francesco, quando avvennero quei fatti, contava 52 anni. Arrivò a casa, voleva mostrarsi allegro, e, come di solito, baciò la moglie, che però immantinente si accorse, guardandolo negli occhi, che il marito aveva lo sguardo fisso e il corpo vacillante. - Siediti - gli disse con amore. Poi lo spinse a raccontare sul cambiamento del suo buon umore. Francesco non voleva dare alla moglie sì grande dolore e quindi taceva; ma la moglie gentilmente s’impose e Francesco a malincuore così rispose: “Non avrei mai voluto, Pina, darti una cattiva notizia per non farti rattristare, ma oggi devo, purtroppo, farti partecipe di quanto fra non molto dovrà accadere alla nostra famiglia e cosi cominciò a parlare, come Enea a Didone nel secondo libro dell’Eneide : “ Infandum, regina, iubes renovare dolorem”. Pina tacque e Francesco espose i tristi fatti.
La donna, ascoltando la disavventura del marito, si pose vicino a lui e, carezzandogli il viso, lo rincuorava, dicendogli che il Signore non li avrebbe abbandonato e che avrebbe fatto trovare loro la strada per evitare il grave danno che avrebbe messo in ginocchio la famiglia, composta da Francesco, da Pina e dal figlio Giuli, che abitava e studiava fuori dal suo paese, in quanto il liceo classico, come tanti altri istituti scolastici, nel predetto paese non esisteva.
Giuli, infatti, per un certo tempo non fu messo a conoscenza della grave situazione, in cui si sarebbe trovata in breve tempo la sua famiglia.
Durante le vacanze di Pasqua, come per le vacanze di Natale e quelle estive, a conclusione dell’anno scolastico, Giuli ritornava al suo paese e in quell’occasione gli fu riferito dalla madre quanto era successo al padre.
Il ragazzo ebbe un momento di sgomento, ma senza far capire lo strazio, che attanagliava il suo cuore, con voce decisa e con animo risoluto, stringendo la madre delicatamente al suo petto, soggiunse: “ Non preoccuparti, mamma, mio padre resterà nel suo posto di lavoro, non sarà licenziato, perché io esporrò questo sopruso al preside del liceo e lo stesso sicuramente ci aiuterà”. Così si espresse il figlio e quando ritornò il padre dal lavoro gli corse incontro e lo abbracciò forte senza proferire parola alcuna; in quell’abbraccio c’erano tutti i sentimenti di gioia e di dolore che un figlio prova per il proprio padre e viceversa.
Le vacanze pasquali volsero al termine e Giuli con tanto anelito ritornò al liceo. Un giorno con garbo chiese ad un suo professore se poteva fargli la cortesia di fissare un appuntamento col Preside al fine di poter parlare con lui; il docente, essendo il ragazzo stimato dagli insegnanti e dalla scolaresca, rispose subito che durante la ricreazione avrebbe chiesto al Preside un’ udienza per lui.
Il Preside accettò subito di ascoltare il ragazzo e, pertanto, lo stesso fu chiamato in presidenza, dove fu accolto con tanto riguardo.
Espose il ragazzo il suo cruccio e poi chiese aiuto a quell’uomo di cuore gentile, che, indignato per sì grave angheria, sentì il dolore che attanagliava il ragazzo e immantinente si espresse così: ” Io farò tutto quello che posso, Giuli; un diploma di licenza media lo troverò e tuo padre non perderà il suo posto di lavoro. Nel millenovece… una Scuola media s’incendiò e tutti i documenti andarono perduti; quindi, esponendo quanto è successo a tuo padre, chiederò al Preside di quella Scuola il favore di poter rilasciare un titolo di studio di licenza media risalente a quell’anno”.
Diede, Giuli, tutti i dati del padre; il Preside ne prese nota ed affettuosamente accompagnò il ragazzo alla porta. Giuli strinse la mano al Preside, ma il Preside lo abbracciò e gli disse che l’avrebbe chiamato presto per dargli la buona notizia.
Giuli si congedò con tanta gioia e subito, tornato in classe, scrisse una lettera ai suoi genitori, preannunziando loro la bella notizia sul colloquio, avuto con il preside. Terminate le lezioni, Giuli uscì, comprò una busta e spedì subito la lettera.
Dopo una ventina di giorni il Preside fece chiamare Giuli, che, entrato, dopo aver bussato alla porta della presidenza, trovò quell’uomo di buon cuore in piedi dietro la scrivania con una grande busta trattenuta col pollice e con l’indice della sua mano destra, che sventolava come una bandiera e, soddisfatto, con gioia così esclamò: “Abbiamo vinto, ragazzo! Ha vinto tuo padre e la tua famiglia è salva”.
Giuli non riuscì a rispondere, ma con tanta riconoscenza si avvicinò al suo benefattore e, guardandolo negli occhi, gli strinse forte la mano.
In quella stretta di mano vi era l’immensa gratitudine che unisce gli uomini durante la vita e li rende amici per sempre. La gratitudine, infatti, è il parametro della grandezza umana.
L’anno scolastico volse al termine e Giuli ritornò al suo paese e alla stessa stregua del Preside benefattore, dopo aver riposto in un angolo della sua casa i bagagli, sventolò quella busta, saltellando allegramente. I genitori, che l’aspettavano, come sempre, per godere della presenza del figlio per un più lungo periodo di vacanza, capirono subito che il contenuto della busta era la loro salvezza e tutte e tre si strinsero l’uno all’altro, condividendo la triplice gioia.
Francesco, il giorno dopo ritornò in ufficio e della grande gioia, che invase la sua famiglia, mise a conoscenza anche la sorella, di nome Filippina, donna devota al marito, di nome Lillì, pur essendo lo stesso un fannullone e un giocatore di carte, insomma un individuo poco affidabile, che lei teneva nel suo ufficio. Filippina in qualsiasi occasione era sempre d’accordo col marito, pur comportandosi male col fratello Francesco, quando lo stesso prendeva le difese della sorella medesima. Lillì era un giocatore di carte e più che vincere, perdeva. Un giorno, avendo perduto tanto e non potendo pagare il vincitore, essendo la somma di denaro troppo alta, pensò di rifornirsi di denaro con un espediente. Infatti, essendo il periodo della raccolta delle olive, dopo la molitura delle stesse, vendette una parte dell’olio ricavato al frantoiano, trattenendone solo una quantità sufficiente, sopra la quale, dopo averla fatta versare nelle giare, in accordo col mezzadro, avrebbe aggiunto dell’acqua. Filippina, la moglie, si accorse in seguito del fatto e ne chiese spiegazione al marito, che subito incolpò il mezzadro, il quale per non perdere la mezzadria si fece carico dell’accaduto. Continuare la descrizione dei fatti postumi non vale a niente, perché dal predetto accenno viene fuori già il “personaggio” Lillì.
Lillì, infatti, che non vedeva di buon occhio il cognato, ascoltò la notizia che lo stesso dava alla sorella e con ipocrita gioia si congratulò con Francesco, porgendogli la mano e dicendo: “Bravo Francesco, sei davvero fortunato, ma soprattutto in gamba”. 
Francesco e la sorella si abbracciarono e Filippina sollecitò il fratello a portare subito il titolo di studio al direttore provinciale per gli adempimenti di sua competenza.
L’indomani Francesco con l’autobus andò in provincia e si recò direttamente dal direttore, al quale, dopo averlo salutato con deferenza, espose il fatto, cioè che era in possesso del titolo richiesto per far parte del ruolo degli impiegati statali del Ministero delle Poste e delle Telecomunicazioni. Il direttore si complimentò con Francesco, anzi gli offrì un caffè, invitandolo al bar.
Quel direttore era una persona per bene e mise subito a suo agio Francesco, dicendogli che appena la sorella andava in pensione fra pochi mesi lui avrebbe avuto la titolarità dell’ufficio. Francesco ringraziò sentitamente, com’era suo costume, il suo direttore e, salutandolo con un inchino, si avviò verso la porta per andarsene.
Ritornò al suo paese con lo stesso mezzo e, arrivato a casa, gioiosamente abbracciò la moglie e il figlio, raccontando lo svolgimento dell’incontro col direttore.
Pranzarono i tre, parlando poco tra di loro, ma, guardandosi, con gli occhi si trasmettevano il grande affetto che li univa.
Alle tre del pomeriggio Francesco ritornò in ufficio; infatti, allora si andava in ufficio dalle 8,30 alle 12,30 e dalle 15,00 alle 19,00 e non vi era lavoro straordinario. Lì trovò, arrivati da poco, la sorella, il cognato e il fattorino, che sostava però in un’anticamera.
Toltosi il cappotto e indossato un camice nero per non sporcarsi il vestito con inchiostro o altro, subito raccontò ai due quanto già aveva esposto ai suoi familiari e al solito, dopo sorrisi e gioia, si mise immediatamente al lavoro.
Dopo circa due mesi da quando fu consegnato il titolo di studio al direttore provinciale, la sorella di Francesco, che fra tre mesi circa sarebbe andata in pensione, ricevette per via telegrafica una comunicazione con la quale si chiedeva a Francesco di recarsi al più presto dal direttore provinciale. La sorella informò il fratello e Francesco l’indomani mattina con l’autobus delle otto si recò dal direttore provinciale, il quale disse a Francesco di sedersi e di ascoltare: “ Lei, è stato sempre, come risulta dagli atti, un ottimo impiegato, ligio a tutti i doveri d’ufficio ed è veramente encomiabile tutto il suo operato, però oggi devo riferirle che lei potrebbe essere incriminato per avere presentato alla pubblica amministrazione un titolo di studio falso, unitamente a qualche altra persona, che ha rilasciato illegalmente il predetto titolo da lei mai conseguito, in quanto nella stessa data, riportata sul falso diploma di licenza media, lei conseguiva la licenza elementare e questo, a cuore aperto, non è stato notato da me né quando me lo ha presentato, né in seguito; il titolo, infatti, fu messo agli atti e basta, perché avevo tanta fiducia in lei ed ero felice che lei, ottimo impiegato, avrebbe diretto l’ufficio con diligenza. Però una persona che le vuole male, anche se ha fatto bene a riferire in merito, si è presentata qui, chiedendomi di rivedere i documenti; questo è stato fatto e lei ormai ne è a conoscenza. Con immenso dispiacere le devo comunicare che lei per evitare un procedimento penale deve dimettersi ed io cestinerò quel titolo, ovvero, se dovesse decidere di restare in servizio, io la devo purtroppo denunciare, signor Francesco”.
Così parlò quel direttore, ma, commosso per quanto era accaduto a quel padre di famiglia, aggiunse: “ Lei non aveva nessun bisogno di possedere il diploma di licenza media, perché la sua preparazione è equivalente. Penso, talvolta, che una carta straccia di titolo di studio di qualsiasi ordine e grado, che tanti conseguono illegalmente e poi da perfetti impreparati con la solita raccomandazione occupano anche posti di alto livello e di prestigio, rubando così lo stipendio, non dovrebbe avere corso legale e che solo il merito dovrebbe prevalere”.
Quindi, stringendo la mano a Francesco, il direttore gli diede anche un caloroso abbraccio, mentre Francesco rispose con un fil di voce e col cuore a pezzi: “ Signor direttore, domani riceverà le mie dimissioni. Le sono grato per quello che ha fatto e la ossequio cordialmente”.
Francesco, infatti, per disavventure familiari aveva conseguito la licenza elementare all’età di tredici anni, proprio nell’anno in cui s’incendiò quella Scuola media, che aveva rilasciato quel diploma di licenza media. In siciliano si dice: “Quannu la sorti nun ti dici, iettati ’nterra e cugli vavaluci”.
Ritornò a casa Francesco, ma da uomo forte davanti alla moglie non pianse la sua triste sorte e raccontò la disgrazia che gli era successa, perché non era possibile nasconderla, e subito dopo, nel pomeriggio, informò dell’accaduto anche la sorella, che rimase stupita, ma stranamente non si turbò tanto; invece, il marito della sorella, Lillì, fece finta di essere costernato tanto, da portarsi le mani agli occhi, come chi piange per disperazione, e in relazione al triste evento esternava ipocritamente sentimenti e parole di conforto verso il cognato. Era stato lui, infatti, Lillì, il cognato di Francesco, la persona che lo voleva male, a cui aveva fatto riferimento il direttore provinciale durante il colloquio, ma Francesco non lo seppe mai.
Giuli ne venne a conoscenza dopo qualche anno, per caso, in un periodo di tempo, in cui la sorella del padre, molto malata e già in pensione, avendo saputo che era stato suo marito ad informare il direttore, per togliersi quel senso di colpa che le pesava tanto, confidò al nipote la brutta azione commessa da Lillì, pregandolo di non riferire niente al padre, che sicuramente, se ne fosse venuto a conoscenza, anche se brav’uomo, avrebbe ucciso il cognato.
Scrisse le sue dimissioni Francesco e, ripeto, da vero uomo forte dignitosamente le consegnò alla sorella, suo capo, e la pregò di inviarle al direttore provinciale. Si chiuse così quel triste capitolo della vita di Francesco. Tutto era perduto.
Era l’anno 1960 e Francesco all’età di cinquantadue anni si trovò senza lavoro e senza guadagno, ma, avendo un appezzamento di terreno dove insisteva anche una piccola casa rurale non lontano dal paese, si mise a seminare verdure, ad allevare galline e qualche pecora e dopo qualche tempo iniziò a raccogliere i frutti del suo lavoro e così riusciva a nutrire poveramente, ma dignitosamente la famiglia. 
Anche la moglie diede non solo tanto conforto al marito, ma anche, essendoci un forno nella predetta casa rurale, impastava il pane e, infornandolo e poi sfornandolo, nella piccola casa si diffondeva il caratteristico profumo.
La Provvidenza non aveva del tutto abbandonato quella famiglia; infatti, poiché Giuli studiava e le risorse economiche di Francesco, suo padre, stavano per esaurirsi, venne in suo aiuto una donna, che per ciò che fece e per quel che disse, fu terrena sol perché visse e questi fu la sorella della madre di Giuli.
Non è necessario descrivere la zia di Giuli, perché ritengo che alle poche righe, già testé scritte sopra, non è necessario aggiungere altro, avendo focalizzato la soave donna nel suo sublime e virtuoso comportamento nei confronti del prossimo.
Oltre agli insegnamenti della madre e del padre, Giuli fece sua anche la dottrina della zia e i suoi comportamenti nella vita sociale dallo stesso furono tali, da non essere mai nocivi agli altri, ma soprattutto favorevoli ai deboli.
Su gli ottimi comportamenti del mio amico Giuli riferirò durante la narrazione. Sostentato dalla zia, Giuli, portò a termine i suoi studi e subito dopo iniziò a sostenere concorsi nelle varie amministrazioni dello Stato. Partecipò a tredici concorsi sin dall’età di diciannove anni ed ebbe una valutazione degli scritti da otto a nove e mezzo su dieci, ma agli orali, pur presentando in più, oltre alle materie obbligatorie, anche facoltativamente una lingua straniera, e pur preparato nelle singole discipline, non avendo mai cercato espedienti disonesti attraverso disoneste persone appartenenti ad istituzioni politiche, ecclesiastiche et cetera, veniva scartato con un voto inferiore al sei su dieci o di poco superiore, in modo di non essere alcune volte inserito in graduatoria ed altre volte inserito con un voto basso, restando quindi sempre tra gli idonei.
Con le pive nel sacco e senza soldi ritornava col solito treno al suo paese, portando con sé l’amarezza più profonda, pensando che, dopo aver tanto studiato e dopo avere speso inutilmente il denaro per recarsi a Roma sia per gli scritti che per gli orali, tutto era perduto a causa di commissioni di esame truccate e corrotte. 
Comunque, dopo dodici anni di inutili attese, nell’ultimo concorso, espletato in una delle pubbliche amministrazioni dello Stato italiano, al solito rimase tra gli idonei, ma, poiché vi era interesse da parte di più politicanti nei confronti dei loro raccomandati, fu aumentato il numero dei posti della graduatoria e finalmente, dopo tanta attesa, Giuli, fu dichiarato vincitore e, quindi, assunto alle dipendenze della predetta amministrazione pubblica.
Aveva compiuto trentuno anni ed era già sposato da sei anni con a carico i primi tre figli. In relazione al suo matrimonio è da notare come la sorte avversa volle che ci fossero sempre difficoltà anche questa volta; ebbe, infatti, una falsa gioia, poiché i due fidanzati ebbero, come si dice, a fuggire ed essendo due fuggitivi, cioè avevano fatto la cosiddetta “fuitina” in dialetto siciliano, un prete ignorante, indegno della parola del Creatore, diede il suo colpo di “grazia” o meglio di disgrazia: li sposò davanti ad un altare secondario, dicendo che due fidanzati “fuggitivi” non potevano essere degni di essere sposati davanti all’altare principale di una chiesa.
Il lettore capisce bene che razza di “sacerdoti” affollano da molti secoli la cosiddetta chiesa cattolica, di cui non dico altro, essendo palese a tutto il mondo il suo operato a tutt’oggi 23 febbraio 2013.
Giuli, ad onore del vero, aveva, come si suole dire, “rispettato” la moglie fino al matrimonio. Comunque i due sposi misero al mondo quattro figli, che educarono, impartendo lezioni di vita con parole ed esempi; soprattutto, la sua amabile consorte, Stella Maris, stella del mare, che, oltre ad essere un’ottima insegnante, stimata per trentacinque anni dagli alunni, dai genitori degli stessi e dai colleghi, fu sostanzialmente, come per i naviganti, la stella polare per tutta la famiglia. Giuli non trasse mai benefici personali dal piccolo potere che aveva, svolgendo le sue funzioni alle dipendenze dello Stato; infatti, i figli dopo avere studiato cercarono e trovarono il loro posto di lavoro, non inchinandosi a nessuno, migrando entro e fuori dall’Italia.
Durante tutto quel periodo, in cui partecipava ai sopra citati concorsi, Giuli, si adoperava per trovare lavoro comunque, espletando qualsiasi lavoro come bracciante agricolo alle dipendenze dell’ispettorato forestale con le mansioni di acquaiolo, come operaio in una fabbrica di materie plastiche, come emigrato in Germania per il tramite dell’Ufficio Provinciale del Lavoro e qui capì perfettamente come funzionava il servizio emigrazione. Infatti, partito dalla Sicilia ed arrivato al Centro di Emigrazione di Verona, dove era operante la Commissione tedesca che, dopo un’accurata visita medica, decideva se il soggetto poteva firmare uno dei contratti di lavoro bilingue, depositato lì da tanti datori di lavoro tedeschi. Il contratto era perfetto nella forma e nella sostanza, ma di fatto quando ci si recava sia sul posto di lavoro che nella casa di abitazione, sia il lavoro sia la casa non rispondevano per niente ai requisiti contenuti nel predetto contratto. Ma i lavoratori, che partivano da disperati, accettavano qualsiasi situazione pur di potersi guadagnare quel pezzo di pane che la loro patria non dava loro a causa della disonesta amministrazione della cosa pubblica.
Giuli non sopportava quella situazione indegna e, pertanto, si recò al Consolato italiano in Germania per chiedere di intervenire in relazione alla mancata applicazione del contratto di lavoro nei punti sopra descritti. Ma il Consolato italiano in Germania era un’istituzione di facciata, che di fatto valeva quanto il due di coppe quando non ha valore di briscola, perché non si adoperò, né intervenne affatto affinché quel contratto fosse rispettato dal datore di lavoro tedesco. Vista l’assenza dell’istituzione italiana, Giuli si rivolse subito all’Arbeitsamt, che è l’Ufficio del Lavoro tedesco, e, essendoci lì un impiegato che parlava la lingua francese, espose nella stessa lingua, che conosceva, le rimostranze in riferimento alla mancata applicazione del suo contratto di lavoro firmato a Verona.
Il funzionario ne prese atto e rispose che alle ore 18,00 di quello stesso giorno sarebbe intervenuto per i relativi atti di sua competenza. Alla predetta ora il funzionario si presentò puntualmente presso l’indirizzo dov’era ubicata la casa inagibile, avendo prima visitato la fabbrica di profilati di zinco, e resosi conto delle divergenze contrattuali, chiamò immediatamente il datore di lavoro, intimandogli di provvedere all’applicazione del contratto di lavoro entro e non oltre quindici giorni dalla data della sua visita ispettiva.
Quel datore di lavoro si adoperò per trovare altra abitazione, ma non riuscì; quindi, chiamati gli operai, inquilini della predetta casa, disse loro che avrebbe provveduto, ma aveva bisogno di più tempo. Pertanto, chi non accettava quella provvisoria situazione poteva recedere dal contratto ed avrebbe avuto anche le indennità previste per la mancata applicazione contrattuale.
Molti restarono, accettando quella situazione; Giuli, invece, prese subito tutte le spettanze e ripartì per la Sicilia, ricordando sul treno che lo riportava a casa qualche episodio avvenuto quando si recava in Germania.
Il primo: sul treno a Napoli salì un uomo dell’apparente età di quarant’ anni, tarchiato ed apparentemente allegro, che, entrato nello scompartimento, dopo aver situato il suo grande scatolo di cartone nell’apposito contenitore e dopo essersi seduto, rivolse la parola a Giuli e gli chiese se anche lui emigrava. Giuli assentì. Così i due sventurati parlarono di ciò che li spingeva a lasciare la famiglia e gli affetti che sono gli interessi e i valori più sentiti da chi ha una sensibilità umana. Ad un tratto quell’uomo, che Giuli chiamò Pompetta per la sua conformazione fisica, ma di alta sensibilità, chiese a Giuli di uscire fuori dallo scompartimento e di andare in corridoio. Così fecero e lì Pompetta con le lacrime agli occhi raccontò i suoi affanni e le sue difficoltà, in cui versava la sua famiglia a causa della sua forzata disoccupazione. Tanto parlò Pompetta e Giuli attentamente ascoltò la triste storia e i crucci di quell’infelice, a cui si sentiva fratello; ma, pur col pianto in cuore e non agli occhi, Giuli rincuorava quell’uomo, che non riuscì a sopportare il dolore del distacco dalla famiglia e quindi appena arrivato alla stazione di Bologna disperatamente prese il suo scatolo di cartone e subito, salutando frettolosamente Giuli con un abbraccio, scese dal treno per riprenderne un altro che l’avrebbe riportato a Napoli. “Addio, Pompetta!”. Esclamò, molto commosso, Giuli.
Vi sono tanti Pompetta al mondo; infatti, l’uomo prima è uomo con la sua humanitas e con la sensibilità e poi è altro.
Il secondo episodio fu quello di un altro emigrato, che Giuli trovò nella casa antigienica, descritta nel contratto di lavoro, e precisamente nella piccola stanza per quattro persone, dove il suo letto era situato quasi dietro la porta della latrina. L’uomo era brutto: aveva il viso smunto e il corpo asciutto tanto, da sembrare il rappresentante della morte e, proprio per restare in argomento, al suo paese, Tartaglia, così lo chiamavano, svolgeva per brevi periodi anche il lavoro di becchino. Lui era ladro, non si sa se per bisogno o per vocazione, ma rubava qualsiasi cosa ed a chiunque appena voltava le spalle. Lui era un individuo senza scrupoli; infatti, derubava chiunque, anche un morto di fame, dicendo che più morto di fame di lui vi era solo chi era al cimitero ed altre brutte cose, che qui non descrivo, degne di chi nella vita non ha mai avuto la fortuna d’incontrare un ascoltatore interessato a migliorare l’altro. Era di sabato ed anche la domenica Giuli e Tartaglia uscirono insieme. Durante quei due giorni Giuli ascoltò Tartaglia e poi lo sollecitò ad ascoltarlo, ricevendo, dopo un lungo dialogo, a sorpresa, da quel becchino la gioia di una immediata risposta categorica: “Seguirò il tuo consiglio, amico. Tu hai rimosso in pochi giorni ciò che da tanti anni avevo di marcio nella mia mente ”.
Ritornò in Sicilia Giuli, ma sarebbe potuto restare in Germania, in quanto allora vi era veramente tanta possibilità di lavoro. Il motivo saliente che lo spinse però a lasciare la Germania fu lo stesso che spinse quel Pompetta, perché anche Giuli aveva lasciato al suo paese la moglie e i figli, nonché altre tre persone, che immensamente voleva bene: il padre, la madre e la zia, già sopra menzionata.
Ritornato in Sicilia, Giuli, trovò un posto di lavoro precario presso un ufficio giudiziario e poi le sue esperienze si estesero anche nel campo assicurativo. Esperienze che lo fecero crescere tanto, da applicare le stesse poi, quando si trovò a dirigere vari uffici della pubblica Amministrazione da cui dipendeva.
Per la sua preparazione e per la sua intelligenza comportamentale fu stimato dai colleghi e da tutti gli utenti con cui veniva a contatto.
Giuli sentì forte il problema dei giovani disoccupati e, poiché tutti i politicanti dei vari partiti si sciacquavano la bocca contro la disoccupazione, che per loro è un altro piedistallo di false promesse su cui si ergono, ideò poco dopo sposato il partito dei disoccupati che ebbe un vessillo, dov’era scritto: “Riscossa disoccupati. Svegliati!”, che un pittore barrese realizzò, ma il predetto partito non ebbe fortuna: visse, come si dice, da Natale a Santo Stefano.
Si allontanò dai politicanti, Giuli, avendo capito quali erano i loro interessi verso il popolo, ma non dalla politica, intesa in senso classico, e quindi attraverso tutte le attività lavorative, sopra citate, mise in atto quanto poteva disporre di umano nei confronti di coloro con i quali veniva a contatto quotidianamente.
Durante tutta la sua attività lavorativa fu vessato in maniera straordinaria per non essersi sottomesso ai vari poteri abietti, ma solo alle leggi, talvolta inique e farraginose. Giuli, pose l'essere umano come valore ed interesse centrale, nel senso che niente è al di sopra dell'essere umano e nessun essere umano è al di sopra di un altro. Sentì di affermare l'uguaglianza di tutti gli esseri umani, riconoscendo la diversità personale e culturale e condannando la discriminazione, causata da differenze economiche, razziali, etniche o culturali. Giuli sosteneva che la libertà di idee e credenze si poteva acquisire con lo sviluppo delle conoscenze al di là dei limiti imposti da pregiudizi accettati come verità assolute ed immutabili, ripudiando la violenza in tutte le sue forme. Io condivisi il suo pensiero durante tutte le nostre costruttive conversazioni.
Un giorno, però, una malattia gastroenterica, la colite ulcerosa, colpì Giuli all’età di quarant’anni e, pur tra tante difficoltà che la predetta malattia gli cagionava, svolse sempre con tenacia e zelo il suo lavoro.
Dopo ventuno anni di servizio la brutta malattia gli impedì di continuare a lavorare e, pertanto, non sfruttando minimamente gli istituti previsti per gli impiegati civili dello Stato, si dimise e, non riuscendo più a fare vita sociale, ebbe inizio il suo decadimento, in quanto solo i rapporti umani, la comunicazione con gli altri et cetera aiutano l’uomo a vivere ed a far vivere; da qui la sua agonia.
Così volle il Destino, che sovrastò la vita del mio amico Giuli dalla nascita alla vecchiaia. Giuli si opponeva agli eventi, ma ubi maior, minor cessat, di fronte al più forte il debole si fa da parte. Pur avendo la consapevolezza di non potere arginare in nessun modo le offese del destino, avendo subito anche due infarti, Giuli combatteva con lena e perseveranza, intuendo, purtroppo, che era una battaglia perduta.
E’ essenziale comunque per l’uomo non curvarsi alla rassegnazione e cercare un atteggiamento spirituale, che contrasti, pur in minima parte, ne sono certo, la veemenza del destino. La vita per quanto arida e dolorosa sia, a mio parere, non è del tutto vano viverla, perché dà all’uomo la consolazione degli affetti e l’immaginazione.
Giuli, in relazione alle disavventure familiari e personali entro e fuori le mura domestiche, infatti, sebbene tentato, non scelse mai di commettere atti insani come soluzione, ma trovò la forza per continuare a vivere e ad alleviare le sue sofferenze nell’arte del poetare e nella meditazione, dalle quali trasse soddisfazioni profonde ed i soli momenti d’oblio dei suoi tormenti, dando a sé stesso prova di altezza morale ed onestà intellettuale, dando mano e soccorso per alleviare nel miglior modo la propria e l’altrui fatica della vita.
La vita è intrisa di sofferenza e di dolore, ma la poesia può trasmettere la dolcezza di un ricordo passato, non importa se triste o felice. La poetica del ricordo permette di dilatare tempi e spazi nel passato; la poesia, infatti, è un farmaco per il poeta ed a volte anche per il suo lettore.
L’atteggiamento spirituale e sentimentale di Giuli durante tutto il tempo della sua vita fu di vicinanza affettiva a paesaggi ed a luoghi vissuti ed immaginati, ma anche alle proprie vicende ed a quelle degli altri.
Io, che, da modesto scrittore, ho narrato la triste storia del mio amico Giuli, mi sento molto vicino ai personaggi, che hanno impregnato di emozioni la mia anima, calamaio della mia penna.
Gino Ragusa Di Romano
Racconto tratto dal mio libro "LACRIME E SORRISI" - Pellegrini Editore - Cosenza 2014
 

Cerca nel sito

Cerca per...

Sono con noi

Ci sono attualmente 5 utenti e 4703 visitatori collegati.

Utenti on-line

  • live4free
  • Antonio.T.
  • Il Folletto
  • Laura Lapietra
  • Francesco Andre...