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Il figlio della paura - parte prima

Fino all’undici novembre dell’anno scorso mi ero sempre considerato una persona pragmatica deridendo tutti coloro che affermavano la veridicità delle credenze popolari. Con aria seccata li marchiavo come creduloni o, peggio, infantili imbonitori, a loro volta imboniti, di quelle che ritenevo fossero lugubri fiabe strategicamente raccontate dalle nonne per tenere buoni i nipotini testardi e capricciosi.
A volte erano gli strumenti scherzosi a disposizione dei fantasisti con i quali venivano intrattenuti amici e parenti davanti a un camino acceso, d’inverno, e con un fiasco di buon vino a portata di mano. In questo caso, come nell’altro, c’era l’indubbia coscienza di raccontare ciò che si sapeva realmente fossero: futili racconti. In entrambi i casi si otteneva il medesimo risultato, quello di attirare l’attenzione, dei bimbi, nel primo, affinché stessero calmi e buoni, e dei grandi, nel secondo, affinché non si annoiassero.
Ciò che accadde quel giorno va oltre ogni comprensione umana e ne rimasi profondamente turbato. Per mesi e mesi mi sono sempre chiesto se è realmente accaduto oppure se sono stato vittima di uno scherzo della mente. Eppure ogni qualvolta tento di convincermi di questo mi basta aprire il secondo cassetto della scrivania, guardarci dentro e riprovare le stesse emozioni di quel giorno.
Ricordo perfettamente quel grigio pomeriggio di inizio inverno avvolto in una fitta e fredda nebbia. Avevo litigato con mia moglie sull’educazione dei bambini, chiaramente sulla mia incapacità ad educarli, secondo lei, e tanto mi aveva innervosito parecchio. Non era certamente la prima volta che ciò accadeva e, comunque, loro, i pargoli, sapevano benissimo trarre tutti i vantaggi possibili dai nostri litigi per farsi coccolare di più e, di conseguenza, viziare più di quanto già lo fossero.
Al termine della discussione pranzammo in un’atmosfera di guerra fredda e ciò mi fece anticipare l’uscita di casa rinunciando al pomeridiano sonnellino, particolare, questo, che mi venne più volte in mente nei giorni seguenti, quando cercai disperatamente di darmi una spiegazione raziocinante su quanto, poi, accadde.
Dunque, uscito di casa senza neanche aver preso il caffè mi diressi senza esitazioni allo studio. Ah, dimenticavo, oltre che scrittore dilettante, esercito la libera professione di geometra. Lo studio si trova al secondo piano di un fabbricato alla periferia del paese, dove occupa parte della mansarda. In verità trattasi di un monolocale di una ventina di metri quadri a cui si accede salendo due rampe di scale interne ed una esterna al fabbricato. Gli unici vantaggi che offre tale dislocazione sono l’assoluta quiete del rione e l’ampia finestratura di cui è dotato.
Entrato nello studio mi spogliai del pesante giaccone di lana, accesi la stufa a gas metano e la radio, perennemente sintonizzata sul terzo programma della Rai, l’unico a trasmettere con maggior frequenza la musica sinfonica. Infine, stravaccato sulla poltrona a rotelle, con le mani in tasca e i piedi poggiati sul bordo della scrivania, decisi di starmene senza far niente in attesa che sfumasse il malumore.
Erano da poco passate le quindici e trenta e stavo già assaporando la silenziosa calma che regnava nello studio, facilitata da uno stabat mater trasmesso e, anche, dal pessimo tempo che induceva i buoni cristiani a starsene in casa al calduccio quando mi parve di sentire alcuni colpi discretamente e fermamente bussati al portone d’ingresso, sulla strada. Essendo, questo, lontano dalla poltrona, ed in mancanza di citofono azionai direttamente la serratura elettrica lasciando entrare l’inatteso cliente. Sentii il portone aprirsi e poi richiudersi, quindi dei passi pesanti salire lentamente le scale, percorrere i pochi metri di corridoio fino alla porta interna dello studio e in ultimo, come sempre accade ai clienti che vengono per la prima volta, il clicclio prodotto dalla pressione sul pulsante della luce delle scale malamente posizionato a fianco della maniglia della porta dello studio ed erroneamente scambiato per quello di un campanello. Come sempre, anche quando sono di pessimo umore come quel giorno, rinnovai sorridendo sarcasticamente l’invito a entrare.
La porta si aprì inquadrando nel suo vano la figura di un vecchio dall’espressione seria e per nulla titubante. Mi sollevai a sedere più compostamente e con la mano invitati quello che ritenevo fosse un nuovo cliente ad accomodarsi sulla sedia, all’altro lato della scrivania e dirimpetto la mia poltroncina.
Il vecchio entrò con la massima calma, si accomodò e contemporaneamente si tolse dalla testa una vecchia e sgualcita coppola. A mia volta fui tentato per un attimo di accendere la lampada da tavolo, ma subito desistetti non ritendo fosse il caso. Ero convinto, per esperienza professionale, che i clienti di quell’età e di quello aspetto non portassero grossi guadagni allo studio anzi il più delle volte venivano per dei pareri, quasi sempre concessi gratuitamente, per beghe di confini oppure mi richiedevano delucidazioni su vecchi atti notarili, stressanti da leggere e decifrare perché sempre scritti a mano e con pessima calligrafia.
Per la lentezza dei suoi movimenti ebbi modo di osservarlo dettagliatamente e giudicai fosse un contadino. Indossava un pesante cappotto di lana ricucito in almeno un paio di punti intorno alle tasche. Sotto di esso s’intravedeva una giacca di velluto color marrone, un gilè di lana, una camicia di stampo militare talmente vecchia che il colletto era in gran parte consumato, tanto che si notava addirittura il risvolto, anch’esso consumato. Indossava inoltre un pantalone di fustagno di color grigio fumo con una cucitura al ginocchio ed infine un paio di scarponi alti con la suola del tipo a carro armato. Il viso e le mani, uniche parti nude del corpo, erano pieni di rughe. Mentre le mani presentavano le naturali nodosità di chi è avvezzo ai lavori pesanti il viso aveva la pelle screpolata e il colorito scuro e abbronzato di chi lavora quotidianamente all’aria aperta. La testa, poi, risaltava per il suo biancore dovuto sia ai pochi capelli bianchi che ornavano le tempie e la nuca e sia per la totale mancanza di abbronzatura della zona calva abitualmente coperta dalla coppola. La bocca, sdentata, presentava il labbro inferiore pendulo e leggermente bavoso. Gli occhi, invece, erano di un azzurro intenso e profondo e mi guardavano con una conscia intensità. Quel volto e quegli occhi avevano un’espressione di seria dignità che m’indusse a trattare la persona con la massima gentilezza.
“Prego, ditemi pure” esclamai appena si fu accomodato.
“Grazie” mi rispose con voce rauca, quindi mise una mano in tasca e ne trasse uno stropicciato fazzoletto grigio col quale passò ad asciugarsi un angolo della bocca. Io non dissi nulla ma lo invitai a parlare con un sorriso di circostanza.
“Voi siete quello che scrive, così ho saputo” la mia sorpresa fu totale e genuina. Questa poi!, chi se lo sarebbe mai aspettato, invece di un cliente mi trovavo davanti un curioso. Aggrottai la fronte e con un sorrisino irriverente risposi di sì, curioso a quel punto di appurare il motivo della sua venuta.
“Vorrei parlarvi” mi chiese imperturbabile.
“Prego”
“Prima devo farvi una domanda, se voi credete alla paèur ?” pronunciò quella domanda con estrema naturalezza e in tal modo restò in attesa della mia risposta.
Dire oggi che in quel momento rimasi sconcertato è il minimo che possa fare, la sorpresa fu tale da togliermi ogni parola di bocca, credetti e sperai di non aver capito o, forse, non volevo credere di capire.
Quella parola, tradotta in italiano corrente, significa paura e tale è anche un significato nel nostro dialetto, ma ne possiede un secondo. E’ difficile da spiegare perché foneticamente la parola si pronuncia nello stesso modo, ciò che le dà, però, un significato diverso è l’intonazione con la quale si pronuncia. Anche il significato, in tal modo, è difficile da spiegare, o almeno imbarazzante, in quanto bisogna ammettere l’esistenza di una misteriosa credenza popolare. La paèur, infatti, sta ad indicare qualcosa di terrificante e misterioso, un essere sovrannaturale e demoniaco che atterrisce le persone e, nelle fiabe popolari, fa indigestione di bambini.
“La paèur?” chiesi dopo un attimo d’incredulità rivolta alla qualità della domanda “volete dire la paura?, beh! Chi non ha provato cosa sia la paura almeno una volta nella vita?”
“Non quella paura ma la paèur” mi specificò caso mai non l’avessi afferrato.
“Parlate” pronunciai l’invito con un senso di inquietudine. Ciò che mi aveva turbato, oltre alla grave espressione, era il perfetto modo di esprimersi in italiano, in contrasto con quella singola parola foneticamente pronunciata nel più stretto accento dialettale. Sembrava di ascoltare un professore e al contempo un ignorante contadino. Il contrasto era affascinante e misterioso. In risposta al mio invito emise un profondo sospiro, ripassò un bordo del fazzoletto su un angolo della bocca e infine prese a parlare.
“Sapete quanti anni ho? – e non aspettando risposta continuò – tanti, tantissimi, non si possono nemmeno contare, io stesso ormai ne ho perso il conto”
Nel frattempo aveva abbassato la testa, quasi al peso degli anni che improvvisamente sembrava sentirsi addosso. Volse lo sguardo in basso e così rimase per quasi tutto il tempo, continuando però a parlare con estrema lentezza e lucidità, ma ininterrottamente.
“Ero giovane, molto giovane, e vivevo nella foreste, in un capanno, lo stesso di oggi. Era l’unica cosa che possedevo di mio e che mi rimane ancora oggi. E’ un capanno che si trova in un punto inaccessibile, che nessuno conosce. Vivo di quello che la natura mi dà, ho sempre vissuto così e non ho mai avuto bisogno di altro. Vivevo solo ed ero felice di esserlo.
La solitudine non mi era mai pesata, anzi, mi dava la possibilità di studiare la natura, nelle sue infinite sfaccettature. Osservare le piante, il loro svilupparsi, il loro cambiare ad ogni stagione, il loro crescere, il loro comportamento verso le altre piante della stessa ed altre specie….sì, era bello ed appagante. E gli animali, poi, quadrupedi, insetti, volatili, grandi e piccoli, quanti ce ne sono che popolano il bosco! Ero felice insomma!
  Non ho mai avuto bisogno di alcun aiuto da parte degli altri esseri umani, non ricordo infatti di aver mai avuto una malattia che non mi sia stato possibile curare con i mezzi che la natura metteva a mia disposizione. La natura, dovete sapere, offre tutto ciò di cui l’uomo può aver bisogno, anche per curarsi. Per me le stagioni passavano uguali senza differenze tra loro. Sì le stagioni cambiano, dopo la primavera viene l’estate quindi l’autunno e poi l’inverno ma per chi vive di sola natura il cambiamento diventa trascurabile perché viene accettato con ovvia naturalezza.
Mentre io vivevo felice nel mio mondo intorno a me la vita scorreva ben diversamente. Altri uomini, nelle case dei paesi vivevano assillandosi ogni giorno per ottenere qualcosa di più di quanto già avevano. La loro ambizione non aveva limiti e i pochi momenti felici che il destino concedeva loro venivano immancabilmente sciupati dalla loro infinita insoddisfazione. Nel bosco si ha la possibilità di ascoltare la vita che si svolge nei paesi limitrofi e dai rumori che da essi provengono, si intuiscono i cambiamenti della società.
La tecnologia progredisce e con essa subentrano nuovi e più assordanti rumori. Dal bosco si vedono le trasformazioni dei paesi, il loro ampliarsi, le nuove costruzioni, le nuove strade e con esse altre macchine ed altri rumori. Non molto lontano dal capanno c’è una sorgente a cui si arriva percorrendo una mulattiera abbandonata che una volta attraversava tutto il bosco.
Una volta, questa, era il percorso abituale  dei conduttori di muli che la percorrevano quotidianamente  per spostarsi da un paese all’altro. Giunti alla sorgente sostavano spesso per delle ore, vi facevano riposare i muli mentre loro, seduti all’ombra delle querce, consumavano un frugale pasto e chiacchierando  si scambiavano le informazioni in loro possesso, ma non solo, si raccontavano  i pettegolezzi che erano venuti a conoscere nei paesi attraversati perciò quando infine arrivavano in quei posti molte volte già sapevano quanto vi era già successo per cui gli abitanti restavano affascinati e soggiogati. Anch’io, non visto, spesso ascoltavo le loro chiacchiere e mi divertivo a sentire gli aneddoti più curiosi. Oggi però non è più lo stesso, le mulattiere sono del tutto scomparse e la sorgente è ormai abbandonata a se stessa, invece delle sane risate di quei rudi uomini ci sono gli assordanti scoppi dei fucili dei cacciatori”.
A questo punto del racconto il vecchio s’interruppe, si asciugò l’angolo della bocca e rimase con la testa bassa e lo sguardo fisso per terra. Aveva parlato ininterrottamente con esasperante lentezza, se lo avesse fatto in fretta  avrei avuto l’impressione che stesse farneticando così invece dava l’impressione di uno che stesse, anche se disordinatamente, pensando ad alta voce. Rimase silenzioso per lunghi secondi.
Il suo silenzio non era dovuto al fatto che stesse riordinando le idee perché inconsciamente sapevo che non aveva alcuna perplessità su quanto volesse dirmi. Né aspettava un mio invito a continuare perché per lo stesso motivo intuivo la sua determinazione. Piuttosto mi sembrava stesse in attesa di un mio segno per non continuare il suo racconto. In effetti fino a quel momento non mi aveva detto assolutamente nulla.
E’ vero che la descrizione del suo passato appariva romantica ma apparteneva ad un passato ormai lontanissimo ed anche la sua analisi sul presente era sì lucida e nostalgica ma niente di più. Eppure sapevo che c’era dell’altro, lo si poteva immaginare facilmente, non aveva fatto tanta strada per nulla. Quel senso di disagio che avevo dentro mi suggeriva di congedarlo, avrei fatto certamente in tempo, era quanto volesse concedermi, perciò aveva smesso di parlare. Ciononostante la curiosità alimentava il desiderio di ascoltare cos’altro avesse da dirmi a dispetto dell’apprensione che mi pervadeva, dovuta sempre a quella iniziale e greve espressione dialettale: la paèur.
Il vecchio, quindi, dopo aver emesso un profondo sospiro riprese lentamente a parlare mentre io, intuendo che stava per arrivare al punto, trattenevo il respiro e mi calavo sempre più in uno stato d’ansia.

“Stando nascosto nel bosco ad ascoltare i racconti dei mulattieri venivo a conoscenza di ciò che succedeva nel mondo e spesso quello che sentivo non mi piaceva affatto anche se ,poco dopo, con una scrollata di spalle me ne ritornavo noncurante alla mia vita di sempre.
Ci fu, poi, un periodo che nel mondo non successe granché di importante, sì è vero guerre e rivoluzioni ci sono sempre state ma ci sono anche stati dei momenti di tregua e di pace e quello si apprestava ad essere un periodo di generale calma anche se all’orizzonte stazionavano delle piccole nubi scure. In quel periodo autunnale i giorni passavano tranquilli e il bosco si apprestava a cambiare aspetto per affrontare l’imminente inverno.
Le giornate cominciavano a farsi più fresche e ad accorciarsi. Poi vennero le piogge e con loro la nebbia. Già da un bel po’ mi era sembrato di intravedere in lontananza un’indefinibile sagoma scura vagare tra gli alberi e questo accadeva sempre all’imbrunire. Non sono mai stato particolarmente curioso e quella lontana figura non mi interessava più di tanto. Devo ammettere che quella presenza mi metteva addosso un certo disagio. Temevo infatti un imbarazzante incontro. Fu quanto avvenne alcune sere dopo al tramonto di una fredda e umida giornata di tardo autunno.
Nel pomeriggio aveva piovuto e verso sera, dopo la pioggia, era calata la nebbia che andava infittendosi. Stavo ritornando al capanno quando, a poca distanza da esso, cominciai a percepire nell’aria una disagevole presenza estranea. Inconsciamente sapevo che quell’incontro, tanto temuto, stava per verificarsi perciò, anziché accelerare il passo, presi a camminare più lentamente e guardingo.
“UOMO!” Sentii improvvisamente una voce chiamarmi. Aveva un tono basso, poco più di un sussurro ma con ferma intonazione. Mi fermai rassegnato portando lo sguardo nella direzione da dove mi era sembrato provenisse il richiamo. Non sbagliai, infatti tra gli alberi alla mia sinistra intravidi una figura indefinibile, tutta ammantata di nero e con un ampio cappuccio che, ricadendo in avanti, ne oscurava il volto.
Rimasi fermo e silenzioso, la mia risposta, infatti, era stata il gesto di fermarmi. Lentamente mi si avvicinò, quindi vidi aprirsi il mantello sul davanti e fuoriuscirne due braccia nude e bianchissime che reggevano tra le mani un involto di stoffa, la stessa del mantello. Del volto intravidi solo il mento che mi sembrò bianchissimo come le braccia. Ero terrorizzato dalla paura e, questa era per me una sensazione nuova e mai provata nella solitudine del bosco. Fui percorso da una brivido di gelo ma, ciononostante, la rassegnazione mi donava una straordinaria calma.
“UOMO, PRENDI!” così dicendo allungò le braccia porgendomi quel fagotto e, mentre a mia volta allungavo meccanicamente le mie, pronte a riceverlo, aggiunse:
“Prendilo ed abbine cura, è mio figlio, io non posso tenerlo perciò te lo affido. Un giorno tornerò a riprenderlo”.
 

 

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